In attesa che la storia emetta l’ardua sentenza, più del ’68 mi pare che l’anno di svolta per il mondo contemporaneo, e per la Chiesa che ci vive dentro, sia stato il ’77. Un anno certamente più significativo: sia perché del ’68 è l’inaspettato, e forse indesiderato, compimento; sia perché ha espresso nello slogan-tipo “tutto, e subito” quella mutazione antropologica di alcuni popoli dell’Occidente, che ha toccato pensiero e comportamento. E se rispetto al Concilio, già allora si scriveva che qualcosa s’era rotto – l’entusiasmo, il vento nuovo della speranza a spalancare finestre e coscienze –

dopo venticinque anni di coniugazioni e di declinazioni in salse piccanti o dolciastre, quello slogan ha invaso il nostro mondo più di quanto non si riesca ancora a descrivere. Ciò che si vuole è solo quanto riguarda sé; e gli altri ci stanno solo in quanto servono all’io. Neppure dall’abisso più tragico, neppure dalla morte più orrenda che si possa aver comminata, risale un’emozione disinteressata. Come se il perdono fosse la ricompensa di un pentimento. Tenendo non tanto sotteso che s’intende il perdono quando cancella la pena. Per sé. Recentemente una lettera dal carcere recitava il dolore per ciò che si era fatto avvenire, a partire dalla propria vita distrutta. La propria: non quella degli assassinati. “Tutto, e subito” soprattutto per sé. Ricordo le vetrine infrante del ’77, gli espropri detti proletari, talvolta perpretrati – dicevano le cronache beffarde – dai figli dei negozianti saccheggiati. Ma è da allora – e la legge del divorzio appena entrata in vigore non sarà causa ma sintomo – che la fragilità si erge a virtù: una rinuncia all’allenamento per tenere l’amore, una dissipazione di memorie civili, una stolidità consumistica che giunge sino a qui, quando sprecare parole su una programmazione televisiva futile quando non è becera – una televisione a cui si attribuisce ormai comunemente di essere lo specchio di una umanità – può davvero risultare un’esercitazione da anime belle.

Si sono infrante innocenze prima ancora che potessero sbocciare: credo sia questo il peggiore dei delitti che possono richiamare la diversità dal mondo di cui parla il Cristo ai suoi. Non che siano mancati maestri e santi. Non che si sia mancati nelle analisi: che erano poi convegni, parole, documenti e direttòri. Neppure sono mancate le mutazioni pastorali, i rinnovamenti ripescati dalle antiche pratiche. Neppure è mancata la benedetta sofferenza di chi sentiva tuttavia estraneo il farsi di uomini che piegavano Dio a sé, alle proprie terre, ai propri sentimenti non coltivati dall’ascolto veritiero del Vangelo. Ma una deriva verso l’adeguamento al peccato del mondo innegabilmente c’è stato. Un efficientismo che voleva rapidi risultati ha intaccato sia i fautori di un radicalismo evangelico, sia i sognatori di una cristianità di ritorno. Con il pessimo risultato degli isolamenti superbi di pochi, e di rinnovato formalismo di altri.

Ci stiamo battendo il petto, è vero. Siamo in Quaresima. In questi venticinque anni la Chiesa, che è nel mondo, che è una sola cosa con il mondo – di cui è caricata per la salvezza – ha patito là dove non ha gridato sui tetti la diversità rispetto al peccato del mondo. Che è dunque diventato il proprio peccato. “Tutto, e subito” non aveva e non può avere le caratteristiche della misericordia: che è un cammino, un traghettarsi verso Colui che viene incontro. La Quaresima nata come un tragitto per diventare cristiani, è successione di ascolti e di risposte fatte di silenzi e di gesti, di umiltà e di gioia, di prova del proprio potere e di riconoscimento della propria debolezza. Oggi un itinerario quaresimale irrimandabile si impone alle comunità parrocchiali: perché diventino pasquali nella fede, cristiane nell’opzione ben prima che per gli atti religiosi. Una radicalità pastorale, perché non si confini nel gusto di pochi, deve coinvolgere i molti, nel modo personale in cui possono rispondere al Signore. Che non vuol dire seguire i capricci, ma riconoscere come punto insopprimibile il germe di salvezza del battesimo in chi non lo ha esplicitamente rifiutato. Ciascuna comunità conosce i propri nodi; e insieme le proprie illusioni e mistificazioni, pur di non perdere l’immagine che si è data. Ci sono costi da pagare, una gratuità da riconquistare, e dunque una misericordia da offrire. Che è poi reincontrare il Cristo che sta portando, Lui, l’umanità al Padre.