Siamo in una chiesa spenta? O in una chiesa arroccata sulla dottrina? Oppure la chiesa si tiene aperta alle domande dell’uomo, che finiscono nella grande domanda/risposta di senso che Cristo offre per la vita? Che cosa avevamo in mente quando abbiamo scelto il tema per questo dossier? Certamente una apparente (?) paralisi dell’evangelizzazione oggi. Appare che la fede come scommessa

 non sta più nelle comunità cristiane: gesti religiosi ancora frequenti, una religione civile che perdura; ma assemblee eucaristiche sempre più abitate da vecchi, sconsolati nella loro solitudine persino religiosa, e da bambini comandati. Le chiese europee si sono ritirate nel chiuso dei piccoli gruppi: per offrirsi come piccolo resto del cristianesimo?

Uno stato di malessere

La chiesa italiana stenta a dire la fede che discerne e proietta, presa com’è dalla supplenza socializzante, da un impegno solidarista, e da una preoccupazione educativa che si mette a rischio di un umanesimo senza orizzonti di senso, senza apertura al soprannaturale: surrogati senza desiderio della sostanza prima. Pessimismo? O una presa di coscienza che ci deve sottrarre al pericolo di continuare a discutere a Roma mentre Sagunto brucia? Non saranno nuovi segretariati vaticani per l’evangelizzazione, nuovi tavolini e nuove commissioni che potranno dare risposta alle domande di oggi: le domande degli smarriti e degli sfiduciati; di chi si aspettava dal Concilio un vento leggero ma persistente a lavare le brutture del mondo: e invece si è subito accorto (quante volte ce lo siamo detto?) che già il mondo era da un’altra parte rispetto a quella chiamata alla speranza che pure resta la Gaudium et Spes.

 

Intendere la fede

Intendersi sul vocabolario, è intendersi sulla sostanza delle cose, sulla loro peculiarità. Si tende a credere (talvolta facciamo credere, o lasciamo credere) che la fede sia la soluzione dei nostri problemi: e ancora s’accendono candele aspettando immediati benefici; si pretende che la fede cacci il dubbio, i dubbi: infatti, un confessore si sente dire di non aver più la fede, e proprio in forza delle domande che la vita continuamente pone. Sicuramente un’educazione religiosa dei nostri popoli cristiani ha cavalcato questa dottrina: soprattutto in quel passato in cui il fedele era considerato disabile rispetto a un proprio sentire adulto. È nato da lì il sospetto sulla coscienza individuale come ultimo tribunale di giudizio sulle scelte; e da lì quel controllo gerarchico, che tutt’ora persiste, e che fa del laicato quel “brutto anatroccolo” cui è impedito di diventare cigno: conscio della propria bellezza, e dunque pronto a quella relazione che la fede esige. Non è solo un’idea: ma è l’esperienza che racconta a chi ha orecchi che la fede chiede più che rispondere: essendo le risposte già dentro l’affido della domanda. Le ideologie, il globalismo, la sessualità, la famiglia non si possono pretendere più nello stesso modo dagli anni settanta del secolo scorso. E gli anni settanta sono stati – la sofferenza di Paolo VI! – lo scoglio di prova per il passaggio dalla proposta conciliare al vissuto ecclesiale. Purtroppo si sono create nuove ideologie ecclesiastiche, fatte di nostalgie ed arroccamenti, incapaci di quella ospitalità al profugo della fede che stava diventando l’uomo moderno.

 

La dissociazione tra fede e cultura

Un recente mini-convegno ha percorso le tappe del processo di dissociazione tra fede e cultura. Una dissociazione che ha radici lontane. La sapienza propria del cristianesimo, che nasce dall’incarnazione del Figlio di Dio, sta nel “legare la propria manifestazione nel mondo degli uomini alle condizioni storiche in cui essa si produce”. Una sapienza perduta con il passaggio dai Padri della Chiesa al sapere scolastico: per i primi l’oggetto della fede è l’esperienza che nasce nell’incarnarsi che prende forma cristiana; per il sapere scolastico sta nel dare un nome, nello stabilire una dottrina sopra il tempo, che permetta di difendersi da eventuali contaminazioni. E la conseguenza è lo scollamento tra indicazioni magisteriali e la modernità, che si rivela come scoperta della libertà individuale e la varietà delle storie umane. Un ritorno alla Sacra Scrittura – che sarà il punto di eccellenza delle indicazioni conciliari – era stato già proposto da Erasmo da Rotterdam, fin dunque dal Cinquecento. La parola di Dio come massimo e insormontabile criterio per costruire il credo cristiano; una Scrittura che imbastisce la storia con le storie di uomini in continua ricerca di una promessa:

“… Ogni uomo è come l’erba

e tutta la sua grazia è come un fiore del campo.

Secca l’erba, il fiore appassisce

quando soffia su di essi il vento del Signore.

Veramente il popolo è come l’erba.

Secca l’erba, appassisce il fiore,

ma la parola del nostro Dio dura per sempre” (Isaia 40,6-8).

Si rende evidente che il tentativo, non ancor riuscito, del Concilio era per una ricomposizione della frattura tra un popolo che non può essere considerato cattivo a prescindere, ma semmai, perché oggetto di grazia, chiamato a rinascere persino dall’appassire della sua storia.

 

Lo stato attuale

Le mille chiese che si trovano riunite in un’unica celebrazione eucaristica, o diffuse sul territorio di una parrocchia, dicono lo smarrimento per una prassi di evangelizzazione che non riesca a connotarsi in una “personalizzazione”. È realistico tenere presenti le difficoltà: sia per l’impegno che verrebbe richiesto, sia per l’individuazione di indovinate piste di intervento. Perché la variegata composizione di chi chiede – ma sempre è una domanda di fede? – parte da incrostazioni o da paure che indubbiamente rendono difficoltoso l’invito a varcare la soglia dell’affidarsi al Signore che non viene mai meno. Le mille chiese possono oggi essere raggruppate in tre grandi filoni: i duri e puri; gli incerti e confusi; e quelli che si spera siano davvero il piccolo resto che testimonia la propria forza nell’accettare la propria fragilità. Dei duri e puri è presto detto: s’accorpano tra loro, escludendo chi non ha certezze e il medesimo vocabolario: che per essere stabilito una volta per sempre è stantio, e si avvale di atti religiosi stantii. Sono quelli che si riconoscono più decisamente nel solipsismo del gregoriano, o della messa in latino: espressioni segnate dall’emotività consolidata, da un innamoramento che non diventa mai amore, e dunque si inaridisce col passare del tempo in una gestualità abitudinaria. Degli incerti e confusi si riempiono tutti gli anfratti di una cattedrale: vivono dietro le colonne, nelle cappelle appartate: incapaci di prendere decisamente il passo verso la luce. Ma intrappolati anche dallo sgomento per quanto di antievangelico vedono scoprirsi di male nella vita degli uomini e delle donne da cui esigono esemplarità. Fondano la loro fede sul visibile, invece che sull’invisibile: e intendono il fatto dell’incarnazione come qualcosa che è dato una volta per sempre, e non un farsi continuo che pone ripensamenti e perdono e ripartenze.

 

Come annunciare?

Tutta la storia della salvezza è regolata dalla legge del resto d’Israele, cioè del “piccolo gruppo di autentici credenti nel quale il Regno si attua a beneficio di tutti”. La piccolezza può far nascere il dubbio e lo scoraggiamento nel cuore di molti. Ma è uno scoraggiamento da fugare: il piccolo gregge è invitato a non temere (Lc 12,32ss), a vivere di grande fiducia. Il Regno poggia sul suo amore e non sulle nostre prestazioni: dunque nessuna ansia, nessuna paura a fronte delle domande che il lato cattivo del mondo e della vita pone. Come annunciare oggi, come evangelizzare? È l’invito che nel vangelo riassume tutte le storie bibliche: il piccolo seme, il granello di lievito. Non la testimonianza dei grandi raduni oggi convince, ma la convinzione di un piccolo resto diffuso: che crede vivendo, e spera nonostante.