Laggiù a Roma si fanno le prove di un cambiamento, o meglio: delle risposte a un cambiamento antropologico. Ma qui in periferia si va via come se fossero cose altre, quelle. Tutto come prima, anzi, peggio di prima se si considera che pure un vento c’è stato. Qui ci si nasconde dietro il codice di diritto canonico per reintrodurre cose che il tempo ha reso obsolete: obsolete naturalmente per chi ha occhi per vedere, e orecchie per ascoltare. Per gli altri sono i fortini dentro cui sviluppare sé, e la propria incapacità di fare buchi in recinti che imprigionano. Di sperimentazione pastorale magari ne leggono, se non addirittura gli capita di scriverne: nei fatti non sanno avvicinarsi. E per timore di essere scomposti, si guardano bene dall’informarsi da chi ha condiviso l’immediato passato. Disturba l’io che si sono costruiti volendo troppo bene a se stessi, alle proprie pratiche; e non si lasciano importunare. Piuttosto, molestano il cammino delle comunità, pensando di far bene: e hanno come ombrello le parole di Gesù scusanti quelli che non sanno quel che fanno – e sembra quasi il loro motto parrocale. Esercitazioni di libertà, là in Sinodo, adesso; qui, adesso, si pensa di compattare le pecore nell’ovile, proiettando progetti di statuti persino là dove il bene si è dispiegato per fraternità vera, per ascolto vero, e non per difensività che scoraggiano persino i migliori. Si rassicura con il fieno della cascina, togliendo la freschezza dei prati. Davvero Nostro Signore pensava a una organizzazione, dove le regole, sotto altre spoglie, copiassero le 613 mitzvò del suo tempo, e non fossero quelle del “suo” sabato? Non mettere addosso ai credenti pesi inutili: non è che i loro pesi servano a loro (ma è retorica questa domanda, lo confesso), alla loro idea ideologizzata? Quella poi che fa comporre gli estremi, reintroduci qui e spazzola via là: dove le due azioni non hanno coerenza ma obbediscono al principio di contraddizione. Ma, voi miei lettori in numero manzoniano meno qualcuno, mi obiettate in buona ragione: se sono stati scelti, i capi sapranno… A volte il proverbio “dove non ci sono cavalli…” diventa un paravento per non cercarli, i cavalli. I cavalli, soprattutto se hanno conservato uno spirito giovane, scalciano: ma la loro gagliardia sa piegarsi alle mani della sapienza. E ci sono: in tutte le chiese, e proprio nelle periferie della periferia ecclesiastica. E così si finisce per mettere in cattedra quel che si trova: e così rimbombano zoccoli d’asino sull’acciottolato mite delle nostre comunità. Ma esploderanno, oh se esploderanno! E allora toccherà a qualcun altro riprendersi il tempo buttato da chi non ha saputo o voluto immettersi in una storia di sperimentazione pastorale per arricchirla. Perché, Signore: fino a quando si dovranno scusare quelli che non sanno e tuttavia fanno? Tu sai che la nostra impazienza è inversamente proporzionale alla tua: scusa anche noi, che pretendendo di sapere (ma, riconoscilo Signore, qualcosa abbiamo studiato nel vissuto di coloro con cui abbiamo condiviso all’osso la fatica di esserci), sperano che nella chiesa finalmente si segua l’unica regola che descrive la propria libertà battesimale: dare il nome. Nomen omen: a volte, volendo cambiare un nome alle cose, si finisce per svigorirle se non per affossarle. Per esserci, per appartenere non per ruolo ma per missione, occorre dare un nome vero alle cose, un nome che fa nuovo. E occorre soprattutto dare il proprio nome per essere un corpo, per fare comunità