che vi parli di lei: due mesi fa, come oggi, moriva la mia mamma. Non sono solito parlare del mio privato. Anzi, mi disturba non poco chi mescola parabole evangeliche a storie proprie. Ma lo sto capendo in questi sessanta giorni: tornare là dove abitava chiede il gravarsi di una amarezza; chiede di accettare un vuoto, e così pregnante. E chiede di non stare soli dentro quel vuoto, chiede di condividerlo, per una volta almeno. Sia chiaro, nessuna forma depressiva, nessun rammarico irrazionale: novantaquattro anni di vita sono un bene che non si può pretendere sia travalicato. C’è un limite a tutto, e il tempo è lì ad ammonire: prendi e ringrazia. Ma la mutilazione c’è: e non di una memoria, ma di un presente. Di parole che non passano più, di un sorriso che non si accende più, e di un ammonimento che, mentre ti allontani per prendere l’auto, non tiene conto della tua età (sei sempre bimbo per lei), ma solo e sempre dei rischi che potresti correre. Non una mutilazione di viscere, ma di comunicazione: per quanto affievolita da una debolezza senile, trovarla era trovarsi: viva lei, vivi noi senza peripatetici interrogativi attorno a sé. Una mamma come una quiete antropomorfica: una sicurezza del vivere qui e adesso. E dunque la sua assenza chiama ad una nuova coscienza: adesso ci sono da me, senza le visibili radici di chi mi ha preceduto. Di mio padre, morto tredici  anni fa, ho ancora memoria viva, quasi palpabile; il ricordo di mamma tanto è sfocato e sfuggente da sveglio, quanto è vivo nei sogni, e ricorrente: e non sono neppure due mesi dalla sua sepoltura. Materia da psicanalisi? O ciascuno può capire quanto si voglia avere vita attraversando le rappresentazioni migliori? Quelle appunto che nei sogni intrecciano i momenti di una relazione – dal grembo di mia madre mi hai generato – e costruiscono i desideri al di là del bisogno. Sono stato l’altro giorno al camposanto che sta sulla sponda dell’Adda: i cipressi non ondeggiavano al vento, che pure sfogliava querce e robinia. Non tutte le esistenze sono uguali, e ogni esistenza non è uguale a se stessa, mi son detto. C’è dunque un tempo in cui perdere le foglie, altro in cui lasciar sussurrare, gioiosamente o mestamente, a secondo dei momenti, le compatte scaglie del cipresso che si è? Grazie per avermi permesso, con il pretesto della morte della mia mamma, di scrivervi della fine di un tempo. Il mio.