caro Gesù bambino ti scrivo in questo Natale così diverso e così uguale

Non volevo proprio farti nascere sotto i ponti, tu che già avevi sperimentato una soluzione d’accatto duemila anni fa. Ma tu sai, caro Gesù bambino, come è la gente oggigiorno: promette e non mantiene, progetta e si arena.

Desideravo tanto dare una copertura conveniente alla tua venuta tra noi, quest’anno: nel presepe è la volta del cielo, con le sue stelle brillanti e commosse; per noi è la volta di quel Tempio che ogni anno diventa presepe.

Una cupola degna,
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serve la verità per essere buoni

Con la nuova stagione mondiale, sembra definitivamente tramontato il buonismo, quel movimento che per un quinquennio ha vasteggiato: o per essere accreditato o per essere contrastato.

Sono stato tra questi ultimi: non ho mai letto il Vangelo come un manuale di fioretti morali, semmai di bellezza. E non ho mai conosciuto un Gesù che fosse principe del non giudizio: da Figlio di Dio ci ha insegnato a non condannare,
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perché il vangelo sia ancora scandalo

Ricominciare. E’un verbo che è ritornato più frequentemente in questi ultimissimi anni nel nostro vocabolario di comunità: le bozze di questo numero del Santalucia, che ho sotto gli occhi, lo hanno in più titoli. Ricominciare non è solo la funzione del rientro da un periodo di pausa: anche se noi l’abbiamo adoperato soprattutto in questa accezione, venendo dai ritmi allentati dell’estate.
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dirimpetto all’America atrocemente trafitta

Stavamo sulle spiagge di Biarritz, spiagge dell’Atlantico, spanna più spanna meno lo stesso parallelo di Boston e di New York. Lì, nel nostro contemplare attorno a Lourdes, ad aspettare onde gigantesche o la bassa marea, che poi non avremmo visto; lì, immersi nel vento di grandissima pace che l’oceano sa portare, ci ha raggiunto la notizia delle torri crollate. Direttamente rimbalzata nei cellulari dai figli che stavano di là. Eravamo di fronte, e la distanza non c’era, un cielo d’azzurro profondo ci precipitava in quel punto di macerie. Quel giorno lo stacco fisico non è stato sostituito per noi dalle immagini televisive, falsamente vere: noi eravamo pienamente dentro la tragedia, anche per un viaggio che aveva fino a quel momento liberato la disponibilità del cuore a cogliere i segni di un bene diffuso. Quanto più grande avevamo sperimentato la bellezza, tanto più grande è apparso l’orrore. Ma quale orrore? Tra i mille distinguo e però di questi giorni seguiti all’impatto, tra le tante incertezze su quanto si sta preparando (di giustizia, si dice, non di vendetta), tra le mille paure cui non diamo voce per non impaurirci di più, vi sono alcune cose delle quali non ci siamo voluti accorgere nei molti anni che ci stanno alle spalle.

Innanzi tutto che quel terrorismo contro vittime civili non è cominciato con l’11 di settembre di questo primo anno del secolo. Civili sono anche i cinquecentomila morti provocati dall’embargo seguito alla guerra dell’Irak: non colpiti direttamente da aerei o ordigni, ma morti – e molti bambini tra loro – per malnutrizione o per mancanza di medicine. Annotava un cronista, in questi giorni, che cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato in tutto il mondo. Non per mettere in piazza ciascuno i propri morti. Ma bisogna imparare a guardare al mondo non solo dalle fessure delle nostre ferite, ma anche da quelle degli altri.

In secondo luogo c’è un Islam politico e fondamentalista, che evidentemente nessuno può confondere con la religione mussulmana. Ma è oggi deviante proclamare che nel Corano la jihad non è violenza: la jihad di fatto è oggi il nome di una rete di fanatici, che fa della bugia con gli infedeli un metodo; e del disprezzo per ciò che è diverso da sé una causa per cui uccidere e uccidersi. È urgente aiutare gli stessi mussulmani a separarsi nettamente dai violenti, che li abitano in nome di ottusità interpretative di alcune scuole coraniche. Si è scritto che l’Islam si presta bene ad essere la nuova ideologia dei dannati della terra, di quelle masse che vengono ad abitare, sgomente e discriminate, l’Occidente: questo occorre che lo ricordiamo, per non farneticare di facili integrazioni.

È venuto il momento di non innescare una nuova coagulazione di risentimenti. Di rispondere con saggezza alla ferocia. Di avere la forza superiore di chi porge l’altra guancia, ricambiando la violenza con cibo e medicine, e dando la benevolenza del Vangelo. Ci è dato un momento forse irripetibile per fare la pace: dirimpetto all’America, non per svuotare un dolore, ma per dargli un senso infinito, svuotando l’odio.


nessuno rifiuti la Chiesa per la nostra ristrettezza di mente

È un’estate non ancora definita, questa. Oggi è giornata che si apre grigia: ma se fa come nei giorni passati, il mezzogiorno si aprirà nel sole, e il tardo pomeriggio sarà investito da raffiche di vento ululanti. Sono folate strane, non mi pare appartengano al nostro clima: uno squasso ribaldo che drizza rami cascanti, cui seguono intervalli inaspettatamente muti. E improvviso uno scroscio che sa di nubifragio, con l’acqua che si muove nella strada come una cortina
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quando le stagioni nella Chiesa separano centro e periferia

Questo maggio autunnale cresce imperterrito verso l’estate. Immagino chi ama le pioggerelle ricorrenti: finalmente le ha, prolungate in un mese che si definiva – una volta – per le rose. (Oggi, anche a Natale trovi rose: e dunque non sono più le rose che abbiamo vissuto. Oltre tutto, senza più – di dicembre o di maggio - il profumo carnoso che precedeva e annunciava il roseto appoggiato al muro di cinta di quell’orto: l’orto che non c’è più,
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meno uno al cinquantesimo

Meno uno al cinquantesimo anno dalla consacrazione: l’idea di preparare un anniversario così importante per il Tempio Votivo della Pace si è concretizzata in questa antologia tratta dalla raccolta del giornale bergamasco L’Eco di Bergamo. Che è stato davvero l’insistente eco di una promessa che si è dilungata sino ai nostri giorni, se è vero, come è vero, che stiamo mettendo mano al completamento di questo Tempio, in quest’ultimo anno che ci separa dalla ricorrenza. Mandandomi qui, il vescovo Giulio Oggioni
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tra soddisfazione degli occhi e pensieri ribaldi

Sono stato qualche giorno a Roma. E tra un impegno e l’altro della predicazione al popolo di una grossa borgata romana, mi sono preso un’abbondante mezza giornata per camminare attraverso una città che amo. Mi sono avvicinato al centro su un trenino da far-west che percorre tutta la via Casilina fino alla stazione Termini. Un avvicinamento rigidamente in piedi, schiacciato tra figure ed odori multietnici. Qualche sguardo tra gli interstizi delle molte teste per accorgersi dei multistrati dei quartieri attraversati: il serpentone dell’acquedotto
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guardare ad est

E il mondo è ricominciato. In verità, molto più in sordina di quanto mi aspettassi: mi aspettavo che, con una buona dose di sfacciataggine - appurato da tutti ormai che la fine del millennio era questa e non l'altra -mi sarei aspettato che si desse rifiato alle megafeste. E invece no. Che cosa ha prevalso, il pudore o, data la faccia tosta dei millantatori, l'ingordigia di chi s'è accorto che, sulle voglie festaiole degli umani, può fare gli stessi guadagni senza
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non è mai lo stesso, questo Natale

Questa non è una santa Lucia come le altre.

Lo si può dire se non si trova fieno o paglia da mettere nella scarpa per l’asinello che è stanco, che viene da lontano, che viene da chissà dove. Ma lo si può dire se la notte non accompagna l’attesa, e se l’orizzonte è solo quello delle bancarelle, o delle bustarelle che non possono aver recapito presso una statua che dorme. Non è lo stesso se occorre tradurre in visibilità l’impalpabilità di un desiderio
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