Hani: la cura impossibile

In ogni guerra, da quella più dimenticata a quella sotto i riflettori del momento, le storie di tanti uomini e donne si intrecciano in un vorticoso mistero di dolore, sofferenza, speranza, morte, salvezza.
Ed è proprio di una di queste storie di cui voglio raccontarvi … la storia di Hani.
Hani è uno dei tanti che a seguito di incidenti o malattie sono in lista d’attesa per un trapianto di reni. Quest’uomo da tempo è costretto a sottoporsi a dialisi periodica per sopravvivere. Fin qui nulla di eccezionale, se non la necessità di ricorrere ogni due giorni ad un centro specializzato, o ad un ospedale, per la depurazione del suo sangue. La sfortuna però, vuole che Hani risieda a Gaza, in quanto sacrestano e collaboratore della Parrocchia cattolica della Sacra Famiglia. Quando nelle scorse settimane tutti gli ospedali nel nord di Gaza sono stati messi fuori servizio, uno dopo l’altro, a causa della guerra, Hani è partito da solo verso sud per cercare un ospedale, ancora in grado di effettuare la dialisi. Ha ricevuto cure irregolari fino a che è stato impossibile anche in quei luoghi.
Allora, Hani non si è perso d’animo ed ha cercato di tornare al nord, dalla sua famiglia, sperando nell’impossibile. Ma anche questo è stato impraticabile: a nessuno infatti, che ha lasciato il Nord di Gaza, è permesso di ritornare. Hani ha trascorso così gli ultimi giorni della sua vita, alla ricerca disperata di cure e di aiuto. E’ morto solo, lontano dai suoi familiari (moglie e figli piccoli) e privato di cure adeguate. E’ morto senza che nessuno gli tenesse la mano, è morto senza la dignità che meritava. Seppellito al sud dove non ci sono cimiteri cristiani e sacerdoti.
Solo la forza della preghiera, del Patriarcato latino di Gerusalemme e dei suoi familiari, è riuscita a lenire la sofferenza e a far sentire forse meno solo, un uomo abbandonato al suo ”destino”, dall’insipienza e dai danni provocati  dalla guerra (dagli effetti collaterali).
Claudio Castaldello, 21/02/2024

Aleksej Navalny : Coerenza e amore
Mentre in tutte le città i russi continuano a deporre fiori  per onorare Aleksej Navalny  e a sfidare le autorità che fermano centinaia di persone e fanno sparire immediatamente i fiori deposti in suo onore;
mentre il suo corpo rimane inaccessibile ai suoi cari e non sapremo se lo diventerà e quando (anche solo per una preghiera); mentre i misteri sulla sua morte rimangono tutti, ciascuno di noi si chiede: perché Navalny ha deciso di sacrificarsi, perché quest’uomo ha deciso di rinunciare a tutto quello che aveva, andando incontro a morte pressoché certa?
Per tentare di rispondere a questa domanda partiamo da una data e una fotografia: 17 gennaio 2021, l’immagine, fissa un momento decisivo per lui, il momento storico in cui Navalny saluta alla dogana di Berlino la moglie, prima di rientrare a Mosca; consapevole che sarà l’ultima volta che vedrà la moglie da uomo libero.
Ci sono scelte nella vita di ciascuno di noi che ci definiscono più di altre e che ci dicono davvero chi siamo e chi vogliamo essere. Aleksej alla dogana di Berlino, ha di fronte il il dilemma se rimanere in esilio, o se rientrare in Russia (dopo l’avvelenamento del 2020). Puo’ infatti decidere di fare l’esule, eroe, pagato a peso d’oro per libri, conferenze, ecc… È un uomo giovane, ha tutto da perdere: l’amore, gli affetti, il denaro, la felicità, la libertà e la vita. Invece sceglie di tornare in patria, da solo, con la certezza di essere arrestato. Il bacio alla moglie rappresenta l’ultimo saluto a queste certezze.
Il seguito è storia recente: l’arrivo in RUSSIA e subito l’arresto con condanna a 9 anni per “estremismo” e poi altri 10. Lo spediscono in carcere vicino a Mosca e poi in Siberia in un campo di prigionia speciale.
Qui, finisce 27 volte in cella di isolamento per mancanze minime (ad esempio lavarsi il viso prima dell’orario stabilito, oppure un bottone della divisa non allacciato). Ogni volta sono 15 giorni di isolamento a meno 30 gradi in celle senza riscaldamento,   con pochissimo cibo e un freddo giaciglio dove potersi sdraiare solo qualche ora la notte. E ogni volta perde circa 4 kg. di peso.
Dopo tutto questo e tanto altro, diventa assolutamente secondario sapere perché subito dopo San Valentino (14 febbraio) il suo cuore ha smesso di battere. La domanda vera è Perché??? Perchè Aleksej Navalny ha deciso di sacrificarsi, perché ha deciso di rinunciare a tutto ciò che aveva? Ed era tanto ciò che aveva: l’amore, gli affetti i figli, la libertà, l’ammirazione di molti. La risposta non la conosceremo mai… se non quando ci reincontreremo in una dimensione di Pace, giustizia, amore.
Una cosa però la sappiamo. Sappiamo e   abbiamo la certezza che proprio in questo suo sacrificio, dimora la sua grandezza… Vogliamo sentirlo vivo con le sue parole profetiche, colme di tenerezza e di amore: “se dovessero uccidermi, significa che saremo diventati incredibilmente forti … L’unica cosa che fa bene al male è che il bene non faccia niente … Quindi non siate inerti e indifferenti, non arrendetevi mai”.
E rivolto a sua moglie, proprio nel giorno degli innamorati, tutta la sua ultima tenerezza: ”Amore abbiamo tutto, come in una canzone: tra noi ci sono città, luci di decollo degli aeroporti, bufere blu di neve e migliaia di chilometri, ma ti sento vicina ogni secondo e ti amo sempre di più”.
L’amore di due vite che stanno diventando una “Carne sola”.
Claudio Castaldello, 21/02/2024

“Sonnambuli”: fotografia di un Paese di fronte ad un bivio.
Una società italiana affetta da sonnambulismo, che si mette una mano davanti agli occhi e ignora i presagi. È quella che viene raccontata dal 57esimo rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese.
Ogni anno il rapporto del Centro Studi Investimenti Sociali, (che da più di 50 anni svolge una costante e articolata attività di ricerca, consulenza e assistenza tecnica in campo socio-economico) ci fa capire a che punto siamo come sistema Paese.
I dati presentati a inizi dicembre sono da allarme rosso: l’Italia ormai è un paese di “sonnambuli” e di cittadini in preda a “scosse emozionali”.
Il rallentamento della crescita, la crisi demografica, il ritorno delle guerre, le incognite sul welfare, i migranti in entrata e i giovani in uscita: sono solo alcuni dei temi che suscitano preoccupazione, ma che la maggior parte degli italiani preferisce ignorare.
Sempre di più gli italiani che fuggono all’estero. Sono circa sei milioni i concittadini residenti all’estero.
Un fenomeno in crescita ogni anno che coinvolge soprattutto i nostri giovani. Solo nell’ultimo anno le iscrizioni per l’espatrio sono state 82mila da parte di italiani con età tra i 18 e i 34 anni.
Altro dato è il crollo dei matrimoni e della natalità.
Con questo trend, nel 2050 i 18-34enni saranno poco più di 8 milioni, appena il 15 per cento della popolazione.
Ma il dato più significativo è proprio questa sorta di “sonnambulismo”
Il riferimento è ad alcuni fenomeni economici e sociali facilmente prevedibili e tuttavia rimossi dall’agenda di tutto il Paese.
Ormai a livello di massa manca la capacità di un ragionamento “razionale” capace di discernere fra mille notizie e affermazioni, spesso incoerenti e contraddittorie. 
                                            Il mercato dell’emotività fertile terreno per paure amplificate
 Altro dato riscontrato è il fatto che gli italiani ormai vivono di ‘scosse emozionali’, che trasformano quasi tutto in emergenza.
 E se tutto è emergenza alla fine ‘nulla lo è veramente’, così si chiudono gli occhi sulle cose veramente importanti.
Così trovano terreno fertile paure amplificate, l’improbabile e il verosimile: la paura per il clima impazzito, la paura per lo straniero, la paura  per sempre più povertà e violenza: “Sono scenari ipotetici che paralizzano anzi generano inerzia” secondo il Censis.
Alla fine, magra consolazione, gli italiani sembrano ripiegare su quelli che vengono definiti ‘desideri minori’, non più con lo sguardo al futuro ma affannosa ricerca di “pezzi” di benessere e piaceri quotidiani immediati e spiccioli.
                                           Davanti ad un bivio
Il Paese è ormai davanti a un bivio: da una parte, stiamo camminando placidamente verso un deciso declino.
Dall’altra, c’è il risveglio dallo stato di “sonnambulismo” (come lo ha definito il Censis). Esso comporta il ritornare a “pensare con la propria testa” e riscoprire la capacità di riconoscere la condizione in cui l’Italia si trova, di smettere di nascondere i problemi reali e di cercare di riassumere il proprio ruolo nella società, dando comunque il proprio contributo in termine di partecipazione, di discernimento e di idee.
                                        Risvegliamo la nostra ricchezza culturale
 Perché questo accada occorrono almeno due condizioni riferisce il sociologo Magatti: “In primo luogo, che la politica parli al Paese con verità e lungimiranza, indicando una strada realistica, benché difficile, di come si possa abitare un mondo che sempre più sarà fatto di sostenibilità e digitalizzazione. La seconda condizione è che le forze vive e creative tuttora presenti nel tessuto sociale e civile si adoperino per un processo di vera riconciliazione nazionale, possibile solo con un deciso riorientamento culturale”. 
Il cambiamento di fondo che questo tempo richiede a ciascuno   è infatti quello di abbandonare l’idea iper-individualista che ha dominato gli ultimi trent’anni, l’idea che ciascuno fa per sé, che gli altri sono solo avversari e non amici, che tutto è dovuto.
Questo ci ha di fatto trascinati verso il declino. Un declino che non ha risparmiato le nostre Chiese, le nostre comunità e le nostre diocesi.
“Oggi occorre riconoscere che tutto è relazione. Ogni persona è in relazione con ciò che la circonda e con le generazioni che verranno. Ogni impresa esiste in rapporto all’ambiente e al territorio in cui opera. Ogni Stato gode di una sovranità in rapporto a sovranità più grandi. È questo il tema vero, di natura culturale – addirittura spirituale – che soggiace alla questione della sostenibilità. Come papa Francesco non si stanca di ricordarci”. Dice sempre il sociologo Mauro Magatti.
                                    Un Nuovo patto fra Generazioni
 E’ tempo di ricostruire un nuovo patto tra le generazioni, che traduca in fatti concreti ciò che questo tempo ci sta dicendo: e cioè che non ci sarà più crescita economica se non ci dedichiamo a prenderci cura delle condizioni sociali, demografiche, ambientali, culturali, educative, istituzionali che rendono possibile la stessa crescita.
Si tratta evidentemente di riprendere in mano la propria Storia.
Certamente un cammino impegnativo e difficile, che parte dal riportare la gente ad interessarsi del bene Comune. Un percorso sicuramente alla portata del nostro codice genetico e culturale, un risveglio nella passione del nostro essere italiani.
Claudio Castaldello                        20/01/2024

Il grano, e la gmg: Francesco papa
«Preghiamo per la martoriata Ucraina, dove la guerra distrugge tutto, anche il grano». «Vi chiedo di accompagnarmi con la preghiera nel viaggio in Portogallo in mezzo a tantissimi giovani. Alla Vergine affido i pellegrini della GMG e i giovani del mondo». Dice Papa Francesco nella preghiera mariana di domenica 30 luglio 2023.
Il viaggio a Lisbona (2-6 agosto) parte dall’appello a non distruggere il grano «grave offesa a Dio perché il grano è un suo dono per sfamare l’umanità. Il grido dei milioni di fratelli e sorelle che soffrono la fame sale fino al cielo». Si rivolge «alle autorità della Federazione Russa affinché sia ripristinata l’iniziativa del Mar Nero e il grano possa essere trasportato in sicurezza». In un’intervista a «la Repubblica» il segretario generale dell’Onu il portoghese Antonio Guterres critica la decisione di Putin di interrompere «Black Sea Initiative», l’accordo mediato dalle Nazioni Unite che ha consentito l’esportazione sicura di oltre 33 milioni di tonnellate di cereali e prodotti alimentari in 45 Paesi con oltre mille navi. «Togliere dal mercato milioni e milioni di tonnellate di grano significa portare a prezzi più alti e gli aumenti saranno pagati da tutti, ovunque, e in particolare dai Paesi in via di sviluppo e dalle persone vulnerabili nei Paesi a reddito medio e persino sviluppati».
C’è un precedente storico assai preoccupante: «Holodomor» l’olocausto ucraino, la carestia che si abbatté sull’Ucraina novant’anni fa, tra il 1929 e il 1933, risultato di politiche crudeli dell’Unione Sovietica e di Jozif Stalin, il più dispotico e sanguinario dittatore. Aggiunge Guterres: «Anche se non c’è nulla di ottimistico sulla rapida conclusione del conflitto, continueremo a offrire piattaforme di dialogo per ridurre la sofferenza delle persone». E aggiunge: «Russia e Ucraina sono entrambe essenziali per la sicurezza alimentare globale e rappresentano il 30 per cento delle esportazioni mondiali di grano, orzo, mais, olio di girasole». Ma a Mosca Vladimir Putin è sordo: il piano di pace in Ucraina e l’accordo sull’esportazione di grano attraverso il Mar Nero – dice – non sono correlati. Una cosa non ha niente a che fare con l’altra». Il dittatore di Mosca allunga le mani sull’Africa. I Paesi africani chiedono il ripristino dell’accordo per il transito di grano sul Mar Nero. Per Guterres «le interruzioni di energia e grano devono finire immediatamente. L’accordo sul grano deve essere esteso a beneficio di tutti i popoli, in particolare di quelli africani. La guerra in Ucraina deve finire e può finire solo sulla base della giustizia e della ragione».
Il 42° viaggio internazionale di Francesco inizia alle 7.50 del 2 agosto. A Lisbona è accolto nel Palazzo nazionale di Belèm dal presidente della Repubblica Marcelo Rebelo de Sousa; poi incontra le autorità, la società civile e il corpo diplomatico. Nel pomeriggio nel monastero dos Jerònimos celebra i Vespri con vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati-e, seminaristi e operatori pastorali. Il 3 agosto l’incontro con gli studenti alla Universidade Catòlica Portuguesa; a Cascais saluta i giovani di «Scholas Occurentes». Nel pomeriggio accoglienza della Gmg: in serata Via Crucis con i giovani. Sabato 5 agosto sarà a Fatima: discorso e recita del Rosario con i giovani malati. Nel pomeriggio a Lisbona incontro privato con i gesuiti portoghesi. A sera la veglia dei giovani nel Parco Tejo dove domenica 6 Messa conclusiva, consegna della croce e annuncio della sede della prossima GMG internazionale. Dopo l’incontro con i volontari, partenza e arrivo a Fiumicino alle 22.15. Per la seconda volta visita il santuario mariano portoghese: c’era stato il 12-13 maggio 2017 nel centenario delle apparizioni di Maria alla Cova da Iria e canonizzò i due piccoli veggenti Francesco e Giacinta Marto. Questa è la sua quarta GMG dopo Brasile (2013), Cracovia (2016) e Panama (2019). Prevista per il 2022, è stata spostata per il Covid-19, sul tema «Maria si alzò e andò in fretta» (Luca 1,39). Nel videomessaggio il Papa parla di «una cosa bella. Mettete lì la speranza perché si cresce molto in una Giornata come questa. La Chiesa ha la forza dei giovani. Sfidate egoismi e pigrizia, renderete il mondo migliore. Vorremmo una vita diversa, senza sfide, senza sofferenze. Non c’è per noi volontà migliore di quella del Padre».
Sono 65 mila giovani italiani a Lisbona 81.500 torinesi) con 106 vescovi, poi sacerdoti, religiosi-e educatori e animatori di 180 diocesi: il punto di riferimento è «Casa Italia» nella scuola dalla Suore di Santa Dorotea della Frassinetti in rua Artilharia. Il «quartier generale tricolore» è stato inaugurato da nons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei. I ragazzi partecipano alle catechesi tenute dai vescovi. Sottolinea don Michele Falabretti, bergamasco, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile: «Quella di Lisbona è un’esperienza particolare: la generazione che vi prende parte, per questioni anagrafiche, non ha mai vissuto qualcosa di simile». Fra i 13 «patroni» della GMG ci sono vari subalpini: San Giovanni Bosco; beati Pier Giorgio Frassati e Chiara «Luce» Badano; l’adolescente lombardo beato Carlo Acutis e l’«inventore» della Giornata San Giovanni Paolo II. Francesco vuole pregare in modo speciale Maria per la fine della guerra nel cuore dell’Europa e di tutte le guerre. Il gesto del Vescovo di Roma si collega a un altro: poco più di un mese dopo l’invasione russa dell’Ucraina, Papa Bergoglio consacrò la Russia e l’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria in San Pietro il 25 marzo 2022. La consacrazione della Russia venne richiesta un secolo fa da Maria apparsa ai pastorelli di Fatima.
Pier Giuseppe Accornero

I negazionisti e la scienza, di Riccardo Luna
Sono più di quelli che muoiono per molti tipi di tumore, per dire. E sono comunque troppi. Oppure la sostenibilità sociale, che le destre europee usano per provare a fermare qualsiasi provvedimento per l’ambiente, ignora “i morti di caldo”? Quelli non contano? E son stati più di 18 mila l’anno scorso in Italia, più di 65mila in Europa.
( … ) ll fatto è che i conservatori hanno deciso che il nuovo avversario da battere non sono più i comunisti ma gli ambientalisti. Come se conservare la vita della specie umana sul Pianeta non dovesse essere il primo obiettivo anche di un conservatore. E invece basta prendere un qualunque giornale di destra per accorgersi che ogni giorno qualunque misura che punti a ridurre le emissioni climalteranti viene derisa e attaccata. Ieri c’era un articolo che provava a sostenere che la Co2 faccia bene al pianeta mettendo in fila una tale sequela di scemenze che veniva voglia di ignorarlo. Ma è un errore: è venuto il momento di smontare quelle scemenze, una per una, ogni giorno. Perché sono pericolose. E spiegare ogni giorno quello che sta accadendo. Non nei convegni di specialisti ma parlando alla gente. Su due importanti emittenti francesi le previsioni del tempo sono appena state allungate di qualche minuto per consentire ai meteorologi di dire anche perché fa caldo, perché c’è la siccità, perché le alluvioni. Chissà se vorrà farlo anche la Rai che sotto la presidenza di Marinella Soldi ha scoperto l’importanza della sostenibilità.

Addio Christian Bobin, poeta dalla scrittura “francescana”  —-   Anche quando scriveva un appunto, vergava le lettere con la cura certosina d’un amanuense d’altri tempi. Un’attenzione ai gesti che rifletteva la sua passione di cantore d’ogni minuto splendore dell’esistenza. Di cantore, pure, di quelle grandi anime, come san Francesco d’Assisi o la poetessa americana Emily Dickinson, capaci d’esaltare ciò che è umile e piccolissimo. In vita, il poeta e scrittore francese Christian Bobin ne ha spiazzati tanti d’interlocutori e ammiratori, con quel suo habitus esistenziale così diverso dalle mode e dai vezzi dei salotti letterari. Sempre fedele, fino all’ultimo, a una lezione fondamentale d’autenticità che tanta linfa attingeva dalle pagine del Vangelo, frequentate incessantemente. A 71 anni, Bobin è morto nella sua dimora di campagna in Borgogna, dove proseguiva la sua opera circondato dalla natura e da quanti passavano a trovarlo. Una vita ritirata non lontano da Le Creusot, la cittadina dov’era nato nel 1951.Quando rifletteva sull’arte letteraria, zampillavano frasi come questa: «Scrivere è disegnare una porta su un muro invalicabile, e poi aprirla». Oppure: «La dolcezza di questo poema era così grande che alla fine della lettura, non avevo più corpo». Della morte, da credente, aveva invece scritto: «Ciò che mi mancherà nell’eternità sono i libri e le lettere. Il resto saranno solo delizie, degli oggi sensibili». E non mancavano, talvolta, sottili frecciate ai potenti: «Ho corso sulla terrazza con una formica e sono stato battuto. Allora mi sono seduto al sole e ho pensato agli schiavi miliardari di Wall Street». Nelle opere di Bobin, continuerà a risuonare una sinfonia di prodigi minuscoli capaci di rivelare la sacralità della vita. Una sensibilità dagli accenti molto francescani che lo scrittore aveva messo a nudo proprio raccontando il Poverello di Assisi: Francesco e l’infinitamente piccolo (San Paolo), uscito in Francia nel 1992, è l’opera luminosa che ha rivelato Bobin al grande pubblico, abbeverando da allora la crescita interiore di tanti. In Italia, l’editrice Servitium ha pubblicato una serie di gemme spesso dal profondo soffio spirituale: A cura di AnimaMundi, la settimana prossima, uscirà in libreria Mille candele danzanti.  Di certo, le sue pagine continueranno ad accendere scintille invisibili: «Ognuno di noi, anche quando non ne ha coscienza, sta giocando la partita della propria eternità». (da AvvenireDaniele Zappalà venerdì 25 novembre 2022)

 Un Natale piccolo, di M. Serra —-  La giornata della Vita Nascente, proposta dal deputato Malan e dalla senatrice Rauti, esiste già e si chiama Natale. Cade a ridosso del solstizio d’inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi e l’umanità, da molto prima che nascesse Gesù, celebra la sconfitta delle tenebre e il ritorno della luce. Il bambinello, come tutti i neonati, risplende nella sua culla (“astro del ciel”) e allontana da ogni casa l’ombra della morte. È il momento nel quale il messaggio cristiano parla a tutti e diventa universale. Se anche i non credenti amano il Natale è perché la nascita è una festa per ogni persona, non solo per chi crede che quel bambino fosse il figlio di Dio. Ogni nascita (non solo umana: di ogni essere vivente) è una sconfitta del nulla. Illumina il mondo, e rallegra. L’idea di una specie di doppione del Natale nel giorno dell’Annunciazione dell’angelo a Maria, al contrario, rabbuia e rattrista. Perché ha un’evidente intenzione politica, e al tempo stesso confessionale. Quella politica è antiabortista (come se esistesse qualcuno, al mondo, che festeggia l’aborto), quella confessionale mette l’accento non sulla nascita, ma sulla trascendenza del concepimento, che è invece un dogma. Chi abortirebbe il figlio di Dio?
Si propone dunque alla Repubblica, ovvero a tutti gli italiani, di trasformare la più ardua delle credenze (partorire da vergine) in una festa politica, per giunta molto di parte. Ennesima conferma che la componente cattolico-reazionaria, in questo governo, è quella più aggressiva. (la Repubblica, 17 novembre)

libertà di coscienza ma non di disinteresse (il potere di nominare o escludere)

Si sente spesso dire in questo periodo di campagna elettorale che “ai cittadini non interessa le legge elettorale, alla gente interessano i problemi quotidiani di ogni giorno … prezzi, energia, siccità, ambiente”. Questo è vero, ma è altrettanto vero che l’efficienza di un sistema politico invoglia la gente a partecipare, ad appassionarsi, a contribuire direttamente a scegliere i propri rappresentanti perché sappiano davvero risolvere i loro problemi. La legge elettorale in vigore definita “rosatellum”, figlia di una precedente chiamata “porcellum”, fa purtroppo di tutto per impedire reali scelte dei cittadini. Infatti gran parte dei membri del Parlamento che si costituirà dopo le elezioni del 25 settembre, sono frutto di scelte dei partiti o movimenti, fatte a tavolino. Più che di eletti dovremmo parlare di nominati.
Il votante non ha la possibilità di scegliere il proprio rappresentante, ma solo il simbolo della lista.
I due terzi dei membri sono infatti eletti in modo proporzionale fra listini plurinominali bloccati (circa i candidati) e un terzo in collegi uninominali maggioritari in cui vince il candidato che ha più voti. Peccato che il “rosatellum” non prevede la possibilità di voto disgiunto e quindi se voto solo la lista, voto anche per il candidato uninominale  corrispondente e se voto il candidato, lo stesso voto vale per la lista o coalizione che lo appoggia.
Inoltre i listini per la parte proporzionale non prevedono le preferenze. Questo significa conoscere già gran parte dei candidati che verranno eletti, prima ancora dello spoglio delle relative schede (dipende dalle statistiche sui voti presi in passato in quella zona da ciascun partito).
Semplificando, si passa dalla prima posizione nella lista che significa certamente eletto, al numero tre quattro che sono solo candidature di facciata. Molti nomi sono solo tappezzeria per abbellire un impianto che gli stessi politici avevano definito nella prima versione “porcellum”.
I protagonisti, nella scelta  di queste pedine come fossero damine sulla scacchiera della competizione politica, sono i capi popolo o capi partito che hanno demolito un altro principio cardine del parlamento e cioè il legame stretto del candidato con il territorio da cui viene eletto.
Ritroviamo allora candidati bergamaschi su Milano o Como e in bergamasca gente paracadutata  da chissà dove … Se chiedessimo ad un elettore  qualche notizia più approfondita sul candidato all’uninominale o proporzionale del simbolo che intende votare… Ci sarebbero molte sorprese.
Infine “la ciliegia” offerta dalla legge elettorale è la possibilità di occupare per lo stesso candidato fino a 6 posizioni diverse (1 uninominale e 5 nelle circoscrizioni plurinominali) con la possibilità per questi super privilegiati di perdere nell’uninominale ed essere comunque eletti nel nuovo parlamento contraddicendo la volontà degli elettori di quel territorio.
Tutto questo non incoraggia i cittadini a partecipare e se guardiamo alle ultime tornate elettorali il primo partito non è la destra, non è il centro e nemmeno la sinistra.
Al numero uno c’è chi intende astenersi, magari con motivazioni diverse, ma purtroppo in aumento e con disgusto/rassegnazione per la politica.
Ma come ridurre il disinteresse e la rassegnazione che sono dilaganti anche in altri ambiti? Certamente aiuta ricordare che La politica è l’arte di occuparsi della “città dell’Uomo” , occuparsi dei problemi concreti e dei valori, per favorire il Bene comune e il contributo di ciascuno è un piccolo segno in un grande disegno. Per un cittadino e un  cristiano è quindi importante votare, come dice il Card Zuppi, perché dovrebbe sempre “aver a cuore la vita delle persone e il suo prossimo”. Per questo “libertà di coscienza non deve mai diventare libertà di disinteresse”  perché  qualsiasi sia la legge elettorale, bella o brutta che sia, il disinteresse e l’indifferenza finiscono per  favorire i pochi a scapito dei molti. Quei pochi che poi , in virtù di un sistema democratico, potrebbero scambiare il bene comune, solo con i propri interessi.   
CC

il Papa e il patriarca Kirill

Dopo venti giorni dall’inizio della guerra in Ucraina, Papa Francesco ha chiesto, attraverso il segretario di Stato vaticano Parolin, un incontro a Putin, che però non ha ancora risposto al messaggio. Questa è una delle rivelazioni fatte dal pontefice nell’intervista di Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera. Il Papa, che si è detto pronto ad andare a Mosca, ha ricordato che a dicembre aveva sentito il presidente della Russia per il suo compleanno, ma questa volta non l’ha chiamato, preferendo telefonare il primo giorno dell’invasione al presidente ucraino Zelensky e andare dall’ambasciatore russo, al quale ha detto «per favore, fermatevi». A chi gli chiede una visita simbolica a Kiev, risponde: «Io sento che non devo andare. Io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin». Il racconto del suo confronto con il patriarca Kirill, che ora ha più la parvenza di uno scontro è sconfortante. La chiamata di quaranta minuti via zoom si è aperta con il capo della Chiesa ortodossa russa che ha letto tutte le giustificazioni alla guerra, alle quali il Papa ha replicato: «di questo non capisco nulla». Ecco, dunque, le parole più dure della sua intervista: «Noi non siamo chierici di Stato, non possiamo utilizzare il linguaggio della politica, ma quello di Gesù. Siamo pastori dello stesso santo popolo di Dio. Per questo dobbiamo cercare vie di pace, far cessare il fuoco delle armi. Il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin». Papa Francesco si dice pessimista perché per la pace non c’è abbastanza volontà: prima era la Crimea e poi il Donbass, ora Odessa e in futuro la Transnistria. Occorre dunque fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi.

La storia dell’ebrea tedesco-polacca Edith Stein è segnata dalle due guerre mondiali, dall’antisemitismo e dalla morte nel «lager». Nata 130 anni fa, il 12 ottobre 1891 a Breslavia (Wrocław in polacco), riceve una formazione di tutto rispetto. Accede all’università, studia filosofia e diventa assistente di Edmund Husserl, il padre della fenomenologia. Ma è inquieta: abbandona la religione ebraica; anni si professa atea; si converte al Cattolicesimo: si fa battezzare 100 anni fa il1° gennaio 1922. Attratta da Santa Teresa d’Avila, ammira e studia il rinnovamento liturgico che fiorisce nelle abbazie benedettine: è incerta se diventare carmelitana o entrare nel monastero benedettino; alla fine sceglie il Carmelo. Il nome religioso, Teresa Benedetta della Croce, reca evidenti tracce del duplice amore a Teresa d’Avila e a Benedetto. Nelle sue opere è debitrice al filosofo di Husserl e al teologo San Tommaso d’Aquino. Fiera oppositrice del nazismo, per proteggerla è trasferita nel Carmelo di Echt nei Paesi Bassi. Dopo la lettera dei vescovi olandesi contro il razzismo nazista, si scatena la vendetta di Hitler. È deportata ad Auschwitz e ha piena coscienza di partecipare al destino di Israele: il 9 agosto 1942, ottant’anni fa, è uccisa nella camera a gas.
Il Consiglio comunale di Wrocław proclama il 2022 «anno di Edith Stein» e celebra il centenario del Battesimo e l’80° del martirio ad Auschwitz. Per Giovanni Paolo II – che la beatificò nel 1987 e la canonizzò nel 1998 – è patrona della riconciliazione e, con la sua conversione, lega i due mondi, ebraico e cristiano, Gerusalemme e Roma. La sua vita si incrocia con lo straordinario panorama multiculturale che è Breslavia, tedesca fino a prima della Seconda guerra mondiale e poi polacca, abitata da tanti profughi. Di Breslavia è anche Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, anche lui vittima dei campi di sterminio nazisti. Il vescovo Jacek Kiciński inaugura l’anno di Edith Stein con una Messa nella parrocchia San Michele, quella della famiglia, dove Edith fu battezzata e va a pregare. Ricorda il vescovo: «Proveniva da una famiglia religiosa ebraica. Con il Battesimo cattolico, divenne discepola di Gesù Cristo. Non è stato un momento facile per lei, per la sua famiglia, soprattutto per la madre. Edith Stein è andata per la sua strada, la via della scienza, e Gesù è rimasto su quella strada».
Atea, a 20 anni è costantemente alla ricerca della verità. Dopo il Battesimo, continua il suo percorso di fede e di ricerca che la porta a entrare nel Carmelo nel 1933 a 41 anni. Continua il vescovo di Breslavia: «Ringraziamo Dio per i 130 anni della sua nascita, per i 100 anni dell’accettazione della fede con il Battesimo, per gli 80 anni dalla sua morte per mano dei nazisti». Mente brillante, disserta sull’empatia, sullo Stato e sulla nozione di popolo. Durante la Grande Guerra (1914-18), lascia tutto e abbandona i libri per fare l’infermiera volontaria nell’ospedale militare di Mährisch-Weisskirchen, in Austria, pieno di malati e feriti: «Ora non ho più una vita mia». Si iscrive a un corso di infermeria nell’ospedale in cui lavora la sorella Erna, decisa ad andare a servire il suo popolo in guerra. Gli uomini partono soldati. Lei non vuole essere da meno, consapevole di non voler restare indifferente alla tragedia che sta accadendo: «Funestissima guerra» la definisce Pio X; «Inutile strage» per Benedetto XV. La madre, severa vedova che porta avanti la famiglia dopo la morte del padre, si oppone ma lei ci va ugualmente e mentre prepara la valigia, la madre la aiuta nei preparativi.
Anche un professore di greco cerca di dissuaderla dicendole che la reputazione delle infermiere in quegli ospedali non è buona. Nonostante tutto, Edith parte e racconta: «Mi è stato assegnato il padiglione dei malati di tifo. Due settimane dopo la permanenza in quel padiglione mi è toccato il servizio notturno. La prima notte ero piena di paura per assistere un moribondo. Ho avvisato il medico di guardia e ho fatto un’iniezione. Era la prima volta che vedevo morire qualcuno». Presta servizio anche in sala operatoria e vede morire uomini nel fiore degli anni. Quando l’ospedale militare chiude, segue il filosofo e maestro Edmund Husserl a Friburgo, dove consegue il dottorato con una tesi sull’empatia. Poi la brillante filosofa, già ebrea, poi atea, conosce il Cristianesimo, riceve il Battesimo e nel 1934 entra nel Carmelo di Colonia. In pieno delirio nazista finisce ad Auschwitz dove è uccisa il 9 agosto 1942.
Giovanni Paolo II la beatifica nel Duomo di Colonia il 1° maggio 1987, «una figlia d’Israele che, durante le persecuzioni dei nazisti, è rimasta unita con fede e amore al Signore crocifisso Gesù Cristo, quale cattolica e al suo popolo quale ebrea». La canonizza in piazza Ssn Pietro l’11 ottobre 1998 e un anno dopo, il 1° ottobre1999, la proclama co-patrona dell’Europa.
I sei santi patroni dell’Europa – tre uomini e tre donne – coprono la geografia, la storia, la cultura del Vecchio Continente. Sei campioni dell’anima cri­stiana. Dall’italiano Benedetto da Norcia (480 -547), iniziatore del monachesimo occidentale, ai fratelli greci Cirillo (827-869) e Metodio (825-885), evangelizzatori dei popoli slavi; dalle quasi coetanee Brigida di Svezia (1303-1373) e Caterina da Siena (1347-1380) alla tedesco-polacca Edith Stein (1891-1942). Ciò «significa porre sull’orizzonte del Vecchio Con­tinente un vessillo di rispetto, tolleranza e accoglienza, che invita uomini e donne a comprendersi e ad accettarsi al di là delle diversità etniche, culturali e religiose, per formare una so­cietà fraterna».
Pier Giuseppe Accornero

– dedicato a Luciano, nostro commensale alle Eucarestie domenicali: ha lasciato questa terra per incontrare Colui in cui ha creduto e sperato sino alla fine della sua malattia, dandoci esempio di vita_

‘Paesaggio invernale’ di Caspar David Friedrich, una delle figure principali dell’arte romantica tedesca, mostra un paesaggio innevato in cui un uomo, avendo messo da parte le stampelle, giace contro un grande macigno mentre prega davanti a un crocifisso splendente ed a tre abeti. La trinità richiama la Trinità cristiana, mentre in lontananza la sagoma di una cattedrale gotica tedesca incombe nella nebbia, le sue guglie riecheggiano la forma degli alberi. Il dipinto offre la speranza della resurrezione attraverso la fede. Ciuffi d’erba spuntano nella neve mentre il debole bagliore rosa dell’alba che si avvicina afferma il messaggio di rinnovamento e rinascita.    (testo inviato da D. e C. Castaldello)

Libri

F-X. Nguyen Van Thuan, Cinque pani e due pesci, Ed. s. Paolo, 88 pagg, € 9,oo
“Sono vietnamita; per 8 anni sono stato vescovo di Nhatrang, poi arcivescovo coadiutore di Saigon. Quando sono arrivati i comunisti a Saigon, mi hanno arrestato. Liberato dopo 13 anni, diversi in assoluto isolamento, voglio condividere con voi le mie esperienze: come ho incontrato Gesù in ogni momento della mia esistenza quotidiana, nel discernimento tra Dio e le opere di Dio, nella preghiera,  nell’eucaristia, nei miei fratelli e nelle mie sorelle, nella Vergine Maria, offrendovi così anch’io, come Gesù, cinque pani e due pesci”. Di questo ‘martire della fede’ una testimonianza che fa bene alla nostra fede, e alla speranza.

Per me è tempo di appendere la cetra in contemplazione e silenzio. Il cielo è troppo alto e vasto perché risuoni di questi solitari sospiri. Tempo è di unire le voci, di fonderle insieme.
“Sassoli portava il nome di David Maria in onore del poeta, padre David Maria Turoldo. Ho voluto usare i versi di una delle più belle poesie di padre Turoldo per questo momento in cui qui, nella casa della nostra democrazia, è tempo di unire le voci, di fonderle insieme per rendere onore al Presidente del Parlamento europeo, a colui che ha onorato la democrazia europea e l’ha resa il cuore pulsante del nostro organismo proprio durante il tempo della pandemia, nella prova più dura per il nostro continente e i suoi cittadini.
I politici, anche quelli bravi, si dividono in due categorie: quelli che fanno politica accompagnando il corso della storia e quelli che fanno politica cambiando la storia. David Sassoli è stato parte di questa seconda categoria. David, con la sua gentile fermezza, ha cambiato la storia europea, perché ha reso più forte la democrazia in Europa proprio durante la pandemia, quella democrazia che nell’Unione europea spesso è vista come il tallone d’Achille dell’intera costruzione comune.
David, contro una tendenza allora prevalente, scelse di tenere il Parlamento europeo aperto; volle renderlo protagonista in un momento nel quale la cosa più naturale sarebbe potuta essere esattamente il contrario. Mentre non si viaggiava più, tutto si chiudeva e si spegnevano le luci di tante istituzioni, proprio in quel momento il Presidente del Parlamento europeo ha fatto la scelta coraggiosa e lungimirante che ha cambiato il corso della storia. Sassoli ha innovato e ha reso possibile che il Parlamento europeo continuasse a funzionare grazie alla buona applicazione delle nuove tecnologie da remoto, scelta che ha modificato secoli di storia e ha funzionato. (Intervento di Letta alla Camera) inviato da Denise

Una suora birmana è tra le cento donne dell’anno della Bbc —-Nella lista delle cento donne del 2021 stilata dalla Bbc, la televisione pubblica del Regno Unito, è presente la suora cattolica che a marzo si era inginocchiata di fronte alle forze di polizia birmane in tenuta antisommossa, che stavano attaccando i civili mentre questi protestavano per la loro libertà e i diritti umani. Ann Rose Nu Tawng, missionaria di San Francesco Saverio, è stata nominata al fianco di donne che stanno cercando di contribuire al miglioramento della nostra società, come Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace, e Fiamē Naomi Mata’afa, la prima donna a essere eletta primo ministro delle Samoa. Nell’elenco di quest’anno colpisce la presenza fortemente voluta di cinquanta donne afghane, alcune delle quali compaiono sotto pseudonimo e senza foto per la propria sicurezza. Infatti, la vita di attiviste, giornaliste, artiste, insegnanti, scienziate, imprenditrici, professioniste, sportive dopo il ritorno del regime dei talebani non è affatto sicura. Anche il paese di suor Ann Rose, il Myanmar, è in una situazione difficile. Ancora una volta è governato, dopo il colpo di stato di febbraio, da una giunta militare, che ha condannato al carcere Aung San Suu Kyi, la quale aveva vinto le elezioni democratiche, e che sta sopprimendo il dissenso bruciando case (e una chiesa, come riporta l’Agenzia Fides) e arrestando dissidenti, anche se solo presunti. Come si legge su Famiglia Cristiana, la missionaria proviene da una famiglia cattolica e appartiene a una minoranza etnica perseguitata, i kachin, che da anni cerca una propria autonomia dal regime centrale. Anche per questa sua condizione si è espressa con quel gesto forte in nome della libertà. La decisione di inginocchiarsi, ha dichiarato, nasce dal fatto di aver visto un paese felice e pacifico diventare un luogo di paura e sofferenza. Suor Ann Rose ha inoltre detto: «Credo che Dio si sia servito di me, nel momento in cui mi sono inginocchiata di fronte ai militari. Mi ha dato forza lo Spirito Santo. Ho potuto farlo solo per la grazia di Dio. […] Credo che il dialogo e il perdono reciproco siano alla base di un paese felice e democratico. Mi affido a Dio perché ci guidi lui e perché illumini chi deve decidere. Io ho la speranza che un giorno avremo la pace e che la giustizia trionferà. Prego per i militari. E non solo io, ma anche le mie consorelle e tutta la chiesa del Myanmar: chiediamo la loro conversione. Anche se spesso si comportano in modo disumano e brutale, nutriamo la speranza che possano cambiare».

Una poesia di Jorge Luis Borges – inviataci da G. Br. – che rimette nel mistero grande di un Uomo che ci è chiesto di riconoscere Salvatore. (vedi in leggere più)

 Gv  1, 14 : e il Verbo si fece Carne

Non sarà questa pagina enigma minore
di quelle dei Miei libri sacri
o delle altre che ripetono
le bocche inconsapevoli,
credendole d’un uomo, non già specchi
oscuri dello spirito
Io che sono l’È, il Fu e il Sarà
accondiscendo ancora al linguaggio
che è tempo successivo e simbolo.
Chi gioca con un bimbo gioca con ciò che è
prossimo e misterioso;
io volli giocare coi Miei figli.
Stetti fra loro con stupore e tenerezza.
Per opera di un incantesimo
nacqui stranamente da un ventre.
Vissi stregato, prigioniero di un corpo
e di un’umile anima.
Conobbi la memoria,
moneta che non è mai la medesima.
Il timore conobbi e la speranza,
questi due volti del dubbio futuro.
Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni,
l’ignoranza, la carne,
i tardi labirinti della mente,
l’amicizia degli uomini,
la misteriosa devozione dei cani.
Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce.
Bevvi il calice fino alla feccia.
Gli occhi Miei videro quel che ignoravano:
la notte e le sue stelle.
Conobbi ciò ch’è terso, ciò ch’è arido,
quanto è dispari o scabro,
il sapore del miele e della mela
e l’acqua nella gola della sete,
il peso d’un metallo sul palmo,
la voce umana, il suono di passi sopra l’erba,
l’odore della pioggia in Galilea,
l’alto gridio degli uccelli.
Conobbi l’amarezza.
Ho affidato quanto è da scrivere a un uomo qualsiasi;
non sarà mai quello che voglio dire,
sarà almeno la sua eco.
Dalla Mia eternità cadono segni.
Altri, non questi ch’è il suo amanuense, scriva l’opera.
Domani sarò tigre fra le tigri
e dirò la Mia legge nella selva,
o un grande albero in Asia.
Ricordo a volte e rimpiango l’odore
di quella bottega di falegname.

 

Cari papà, di Massimo Gramellini – 
«Mio figlio ha fatto una cavolata, ma è un bravo ragazzo e noi siamo una famiglia perbene». Questa frase è ormai un piccolo classico e si indossa su quasi tutto: risse, truffe, minacce, molestie, atti di bullismo, scippi con destrezza, pirateria stradale. Solo che stavolta a pronunciarla è stato il padre di un adolescente torinese che ha rapinato una farmacia e accoltellato un carabiniere. Da oggi il concetto di «cavolata del bravo ragazzo di famiglia perbene» va dunque esteso alle rapine con accoltellamento, quantomeno. Per adesso rimangono ancora fuori l’aggressione a mano armata e la tentata strage con lancio di granate, ma c’è da scommettere che si troverà facilmente un padre disposto a coprire tale lacuna. (:::) Quando leggo certe notizie e le metto a confronto, mi ritrovo a dare ragione a Ennio Flaiano: «A volte mi vengono in mente pensieri che non condivido».

Le ragioni? non abitano le teste di chi si propone come politico: a destra soprattutto ma anche a sinistra e nell’indefinito di chi si è collocato tra cinque stelle_ 

«Ddl zan» alla fine i nodi vengono al pettine

D’accordo, dottor Draghi: l’Italia è uno stato laico, non confessionale, e anche per questo è tenuta a rispettare i concordati che ha sottoscritto. Finché ci sono.

Non era mai accaduto e forse sarebbe potuto non accadere. La «nota verbale» della Santa Sede sul disegno di legge Zan che mette in guardia l’Italia su una possibile violazione del Concordato è solo l’ultimo atto di un dibattito che purtroppo ha assunto i toni del conflitto. Ma non siamo affatto arrivati allo scontro. Una «nota verbale» è un invito a riflettere, certamente forte e con un profilo diplomatico «di livello», ma tale resta. Bisogna piuttosto chiedersi perché non si sia avviato per tempo un confronto, come da più parti e da molti mesi era stato chiesto. E non lo aveva fatto solo la Conferenza episcopale italiana, ma tante associazioni laiche e cattoliche, un nutrito gruppo di intellettuali di varia estrazione culturale e politica e alcuni ex presidenti della Corte Costituzionale. Insomma non si tratta di un’ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Non si hanno notizie di precedenti. Ma non si ha nemmeno conferma del contrario. Il Vaticano, a differenza di altri Paesi, non usa le «note verbali» ai massimi livelli, ma sono abbastanza consuete a livello di nunziature e non vengono rese pubbliche, perché la riservatezza è il segreto per avviare riflessioni più efficaci. Il limite maggiore del testo del ddl è il suo carattere ideologico. In pratica si chiede al legislatore di farsi pedagogo con una legge costruita con troppa presunzione definitoria, spesso costruita sulla base di percezioni, che per ovvie ragioni sono mutevoli, e con elevata discrezionalità dei giudici. Nella discussione sul disegno di legge si è pensato di introdurre una clausola di salvaguardia della libertà di pensiero. E qui si è aggiunto pasticcio a pasticcio, perché si continua a ritenere la condotta rimproverata illecita, quindi frutto di un disvalore, ma non punibile perché frutto della libertà di pensiero. Il punto debole, anzi debolissimo del Ddl Zan è esattamente questo. Se si è ritenuto di dover introdurre una clausola di salvaguardia allora il problema di tutelare la libertà di opinione esiste. E libertà di opinione vuol dire libertà della scienza, della ricerca, libertà dell’insegnamento, tutte libertà laiche garantite dalla Costituzione. Ma c’è anche la libertà religiosa e la libertà di esercizio del magistero della Chiesa cattolica e delle altre religioni riconosciute dal Concordato e dalle Intese con lo Stato italiano. La «nota verbale» non chiede lo stop alla legge, ma di rimodularla. Perché la politica non ci ha pensato prima, invece di seguire l’onda dei social, prigioniera della abilità redditizia (per lui) di un rapper qualsiasi dal gonfio portafoglio? In altri tempi altri uomini a Montecitorio e a Palazzo Madama non sarebbero caduti nella trappola della polarizzazione tra oscurantismo omofobo e limpida cultura dei diritti civili. La banalizzazione di tutto, la scarsa propensione alla complessità dell’attuale classe politica, la carente, se non insufficiente, competenza culturale e giuridica hanno concorso a scrivere davvero male una legge su una materia già di per sé ardua. L’esempio clamoroso è l’art. 10 sull’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori che prevede la misurazione anche delle «opinioni». Si dovrebbe intendere delle opinioni dei soggetti più esposti al rischio di atti discriminatori, per esempio perché membri di organizzazioni omofobe. Ma non è così e la norma mal scritta si avvicina pericolosamente alla sanzione per semplici riflessioni e atteggiamenti culturali, ancorché sgradevoli e financo disgustosi. Eppure in una democrazia compiuta anche il diritto ad odiare, se non si traduce in atti violenti, è ammesso.

  1. Bobbio da L’Eco di Bergamo 23.6.’21

Un appello per ricomporre lo scisma tra cattolici e luterani

Cinquecento anni fa si consumava uno degli scismi più dolorosi all’interno della Chiesa: all’inizio del 1521, papa Leone X emanò la bolla di scomunica nei confronti di Martin Lutero e dei suoi discepoli. In occasione dell’anniversario di questa tragica vicenda, il Gruppo di discussione ecumenica di Altenberg, formato da una trentina di teologi di fede protestante e cattolica, ha reso pubblico una dichiarazione per l’abrogazione non solo della bolla papale, ma anche per la ritrattazione del verdetto della Riforma che indicò il papa come l’anticristo. Questo appello, formulato l’anno scorso nasce all’interno di questo gruppo indipendente che ha sede vicino a Colonia. La proposta ha le fondamenta nel dialogo interreligioso sorto dopo il Concilio Vaticano II, che ha permesso una nuova comprensione degli eventi storici, culminata con il consenso sulla dottrina della giustificazione ad Augsburg nel 1999. Nel documento vengono proposte tre tappe. Per prima cosa, viene chiesto a Papa Francesco, consultato il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, di dichiarare che le condanne della bolla di scomunica del 1521 non si applichino ai membri attuali delle Chiese luterane, mentre al presidente D’Musa Panti Filibus e al comitato esecutivo della Federazione luterana mondiale di dichiarare che la condanna del papa come anticristo, della confessione luterana non si applichino al papato attuale e ai suoi collaboratori. Poi, la Conferenza episcopale tedesca, d’intesa con il Comitato centrale dei cattolici tedeschi, e il Consiglio e il Sinodo della Chiesa protestante in Germania vengono esortati a formulare una dichiarazione pubblica comune di pentimento per gli eventi del passato.

Libri

Lì conobbi mio marito, il poeta e regista Nelo Risi. L’amore della mia vita. Alla fine l’ho assistito per dieci anni, un lungo Alzheimer. È stato il più bel periodo della mia esistenza: far nascere ogni giorno un essere umano, assistendolo_ 94 anni Edith Bruck

Il pane perduto, di Edith Bruck, ed La Nave di Teseo, pagg 128 >>> Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.

SOS TERRASANTA —

Le offerte raccolte durante le eucarestie pasquali, oltre ad altre arrivate direttamente sul cc bancario, hanno fruttato la bella somma di 4.170 euro, che da venerdì 21 maggio sono già in Terrasanta a sollievo delle famiglie segnate dalla povertà estrema _ grazie a tutti_

In  data 22 maggio, la responsabile (per altro bergamasca) delle Piccole Sorelle di Ch. de Foucauld che operano alla stazione 6^ cui abbiamo inviato le nostre offerte, sapendole in mani sicure, la risposta:  

Carissimo Don Attilio, ti ringrazio davvero tanto per la solidarietà che manifesti a questa terra, in questo periodo ben tormentato. Vorrei dirti che abbiamo pensato di in comunità di devolvere interamente la somma che ci hai inviato alla parrocchia di Gaza, di cui conosciamo bene il parroco e le famiglie, cristiane e musulmane, in difficoltà. Grazie a nome di tutti. E grazie di pregare e invitare a pregare ancora per la pace qui. Buona festa di Pentecoste. Maria Chiara

LIBRI

J.M. Laboa, Gesù a Roma, ed Jaca Book, pagg 157 – Per coloro che si sono sentiti espulsi dalla Chiesa o se ne sono allontananti volonta­riamente, spinti da troppe sovrastrutture che snaturano la presenza di Dio, l’incontro trasparente con Cristo costituisce un annuncio di salvezza. Queste pagine non sono che una parabola gioiosa, disin­volta ma colma di affetto; un’idea di Chiesa vissuta e sentita dal di dentro. Mirano a ricollocare la nostra fede in Gesù, cer­cando di distinguere tra il nucleo centrale del cristianesimo e tutto quello che i secoli hanno via via depositato nella nostra vita: riti, usanze, stili di vita e istituzioni. Non si tratta di met­tere in discussione l’istituzione, ma di verificare se la stiamo usando bene. Un bel libro che consiglio anche a chi anche solo arriccia il naso nei confronti di una Chiesa che non sembra capire l’uomo, perché forse non frequenta più al meglio Gesù e la sua Parola.

Per ritrovare la via del Vangelo e del dialogo a Bose, di Riccardo Larini

(…) Bose è nata da un carisma, un dono, che si è posato su un uomo per certi versi “improbabile”: un giovane studente universitario nato durante la seconda guerra mondiale, formatosi in un contesto familiare difficile e segnato nella sua infanzia da una spiritualità decisamente cattolico-tridentina. Enzo Bianchi tuttavia è stato per davvero un uomo carismatico, nel senso più importante del termine, direi quasi “hegeliano”, ovverosia una persona capace di cogliere, di “sentire”, di intuire lo spirito del tempo e della storia, ciò di cui questa ha profondamente bisogno, e di cercare di incarnarlo con la creatività, la forza e il “demone” dell’artista.

Bianchi ha colto, a mio avviso, due elementi fondamentali di cui c’era e c’è bisogno come l’aria, nelle chiese ma non solo.

Il primo è la centralità del vangelo, rispetto a strutture sia ecclesiali che di vita religiosa e monastica. Dice la Regola di Bose: “Fratello, sorella, uno solo deve essere il fine per cui scegli di vivere in questa comunità: vivere radicalmente l’Evangelo. L’Evangelo sarà la regola, assoluta e suprema. Tu sei entrato in comunità per seguire Gesù. La tua vita dunque si ispirerà e si conformerà alla vita di Gesù descritta e predicata nell’Evangelo” (§ 3). Il vangelo è talmente importante che, sebbene si riconosca la necessità di strutture di autorità e di ordine umano in seno alla comunità, nel capitolo dedicato all’obbedienza si afferma in maniera fondamentale (e per me è stato un elemento decisivo nella mia decisione di diventare monaco a Bose): “L’Evangelo resta per te, per gli altri, per la comunità intera la sola legislazione ispiratrice di decisioni. Se tu puoi invocarlo contro una decisione della comunità, è tuo dovere assoluto farlo” (§ 27 – corsivo mio). Il vangelo, dunque, non cancella la libertà di nessuno, ma invita ciascuno a farlo proprio, personalmente, radicalmente, profondamente, quale unica via per rendere sacra la propria vita e desacralizzare per contro (senza negarne l’esistenza o la necessità) ogni altra cosa, comprese le strutture comunitarie ed ecclesiali.

Il secondo, in un certo senso collegato al primo e che ne esprime la portata, l’afflato universale, è la comprensione che il monachesimo in radice è laico, non legato a specifiche strutture ecclesiali o forme particolari di vita “religiosa”. Se infatti l’unica ragione incrollabile che sorregge la vocazione monastica è quella della radicalità evangelica, allora il monachesimo è aperto per sua natura a cristiani di ogni chiesa ed è un segno per la chiesa e le chiese tutte della forza riconciliatrice e unificante del vangelo. L’ecumenismo è la “seconda gamba” naturale del monachesimo così inteso.

Queste due intuizioni sono state approfondite a Bose, sulla scia di quanto indicato di fatto a tutte le chiese dal concilio Vaticano II, alla luce delle Scritture e della tradizione (e le tradizioni) di ogni comunità cristiana che ha preceduto la stessa Bose, realtà studiate tutte con rigore, passione e creatività dai fratelli e dalle sorelle unitisi a Enzo Bianchi, sia da quelli dalla professione più “intellettuale”, sia da chi lavorava manualmente. E attraverso Scritture e tradizione(i), lungi dal cadere in una pura “teologia dialettica” di contrapposizione con il mondo, Bose ha scavato nell’umano, fino a diventare luogo di accoglienza universale, in cui tutti si sentivano profondamente a casa, come in pochi altri luoghi (in Italia mi viene in mente Camaldoli, in tal senso).

Quando entrai a Bose, quasi trent’anni fa, fui il 47° membro a unirsi alla comunità. Quello che mi colpì e mi aiutò a decidere a fermarmi, e a fermarmi piuttosto a lungo (sono stato monaco per 11 anni), fu la collezione di personalità e retroterra decisamente diversi dei membri della comunità. C’era chi veniva da un cattolicesimo molto tradizionale, chi veniva dal mondo post-sessantottino, c’erano nobili e muratori, giovani intellettuali e macellai, contadini e artisti, femministe e donne dal retroterra più tradizionalista. Ma il linguaggio unificante del vangelo compiva il miracolo visibile, affascinante, di un’umanità riconciliata.

Senza entrare nei dettagli della mia vocazione (non sono incline alla pornografia o all’esibizionismo spirituali), mi limito a citare questi elementi, assieme al dato che per me fu essenziale: il poter vivere congiuntamente radicalismo evangelico e libertà personale e umana. Io ero stato educato in una famiglia libera e laica, ma in un paese e un contesto cattolici. Fin da ragazzo ero stato affascinato dalla figura e dal messaggio di Gesù di Nazareth, ma la mia passione per la conoscenza e soprattutto per il pensiero mi avevano sempre lasciato perplesso di fronte alla dottrina e alle strutture del cattolicesimo. Il Vaticano I, per me, aveva segnato un ostacolo che mai, in vita mia, sono riuscito a superare, e che ora ho intellettualmente e pienamente rigettato (come ho spiegato altrove, in una sorta di itinerario alla Newman all’incontrario). Ma a Bose si poteva vivere una vita pienamente cristiana anche senza dogmatismi (non senza teologia o profondità!), alla costante ricerca del vangelo, e questa, per me, era aria pura.

Come si può desumere, io a Bose devo tantissimo, e ancor di più devo a Enzo Bianchi. È lui ad avermi avviato alla professione di traduttore, a cui manco avevo pensato prima che lui me lo chiedesse, e che poi mi ha dato spesso non solo da vivere, ma anche la libertà di dire no a proposte di lavoro inadeguate, o di lasciare professioni non più compatibili con il mio spirito. Come me sono in tantissimi ad aver scoperto i propri doni, i propri talenti, sotto la sua guida sapiente e sempre volta a far crescere il prossimo. Alla comunità e all’atmosfera che vi regnava devo l’aver imparato in profondità a studiare per saziare la mia sete di conoscenza, e a fermarmi a pensare per mettere in discussione qualsiasi cosa e riprenderla sotto angolature differenti. A Bose ho acquisito metodo e strumenti che mi hanno reso quello che sono, e non potrò mai dimenticarlo.

Perché ho lasciato Bose, mi direte? In passato ne ho parlato con pochissimi, ritenendola una cosa intima. Col tempo – e alla luce delle vicende attuali – mi sono convinto di poter aiutare a capire varie cose parlandone. Ho lasciato la comunità, fondamentalmente, per una questione personale: perché sentivo di non poter più accettare l’obbedienza monastica senza finire per spegnermi. Perché malgrado la centralità del vangelo anche per quanto riguarda l’obbedienza, in una comunità monastica di tipo cenobitico bisogna limitare la propria libertà o utilizzarla soprattutto per assecondare e sviluppare un progetto comunitario. Non è una questione di violenza psicologica, ma molto semplicemente della concezione che sta alla base del cenobitismo.

Inutile negare che, in parte, non vi fu solo questo”problema mio” (peraltro decisivo), ma anche alcune direzioni dell’evoluzione comunitaria.

Volente o nolente, infatti, Bose già a cavallo dell’anno 2000 stava diventando maggiormente “monastero” e maggiormente “cattolica”. Quando ero entrato si diceva a ospiti e visitatori che Bose era una comunità ecumenica, non appartenente di per sé ad alcuna confessione cristiana, e i cui membri continuavano ad appartenere alle rispettive chiese che li avevano generati a Cristo mediante il battesimo. Quando la lasciai già si usava maggiormente il termine monastero, la narrazione sul continuare ad essere membri della chiesa di origine veniva spesso sorvolata, e si incominciava a discutere un inquadramento canonico, che in seguito diventerà palesemente cattolico.

Su questo vorrei essere molto chiaro: nel 2005, quando me ne sono andato, Bose veniva da 40 anni vissuti in maniera estremamente feconda con il solo ausilio formale della sua Regola (una collezione tematica di citazioni evangeliche), senza alcun profilo canonistico e solamente con una minima strutturazione civilistica per gestire le proprietà comuni. Dire che per vivere il vangelo (o anche il monachesimo) è necessario di più è in realtà falso, anche in un contesto cenobitico, e forse si tratta di un elemento che dovrebbe portarci a ripensare profondamente qualsiasi idea di “vita religiosa”. A me fu chiesto di stendere una prima bozza di statuto, che pur essendo pensato nel senso di un’associazione di fedeli riservata ai soli membri cattolici (fatto già un po’ ambiguo o rischioso), segnava a mio avviso una transizione e un mutamento decisivi. Con molta pace, e senza polemica alcuna, devo dire che ritengo siano lì siano le radici del passaggio dal definirsi “comunità ecumenica di Bose” a “monastero di Bose”, del parlare sempre più di monaci e di monache invece che di fratelli e di sorelle, dell’enfatizzare la forma di vita monastica piuttosto che il radicalismo evangelico, dapprima da parte di alcuni in comunità, e poi della maggioranza.

Anche la tipologia degli ospiti e delle persone legate alla comunità è mutata secondo linee analoghe. In tal senso vorrei riprendere la definizione resa celebre da Massimo Faggioli della “generazione Bose”, per dire che in realtà ci sono state fino ad oggi almeno due “generazioni Bose”, la prima caratterizzata dal tipo di persone che erano legate alla comunità fino a fine anni Novanta, e la seconda dovuta all’enorme crescita di popolarità di Enzo Bianchi e della comunità tutta dagli inizi del nuovo millennio. Io appartengo alla prima, in cui nessuno si sarebbe mai sognato di definirsi cattolico prima che cristiano, in cui il vangelo era sicuramente al di sopra di ogni possibile dottrina, in cui l’ecumenismo significava una conversione radicale, e anche strutturale, di tutte le chiese, e in cui nessuno avrebbe speso molte energie a difendere aspetti oscuri o problematici della propria “chiesa” o “confessione cristiana”.

La comunità, a inizio anni 2000, aveva già iniziato a cambiare, a compiere scelte che, per me, risultavano sempre più estranianti. Di conseguenza, sebbene Enzo Bianchi credesse molto nel mio possibile e positivo contributo a una transizione efficace dalla comunità del fondatore a una realtà più indipendente e sinodale (per questo mi aveva chiesto di aiutare la comunità a definire, nel capitolo del 2002, possibili cammini di crescita nella sinodalità), avvertii che da persona al cuore della comunità (ero appena diventato segretario del capitolo) col tempo avrei finito per essere un intralcio.

Non mi sento in colpa per non avere continuato a contribuire direttamente alla vita comunitaria dopo il 2005 (pur essendo tornato a più riprese a insegnare ecumenismo ai novizi). Come dissi al priore, comunicandogli che avrei lasciato: “Se uno sente di spegnersi in una struttura, finirà per trasformarsi da risorsa (come sono stato fino ad oggi) a problema”. Non chiesi una soluzione “economica”, di eccezione personale (che pure, ne sono certo, Bianchi mi avrebbe concesso). Anzi, sono abbastanza fiero della mia scelta, che non fu di rottura ma di mantenimento della comunione in altre forme, rispettose di parziali divergenze di cammini.

E a questo punto vorrei parlare del fondatore di Bose, un personaggio, come direbbero gli inglesi, bigger than life, “più grande della vita”, ossia impossibile da racchiudere in categorie o clichés, una miscela di amore derbordante e di inarrestabile determinazione, non privo di difetti e tuttavia ancor più carico di pregi. Enzo Bianchi ha compiuto abusi psicologici? Siccome il nucleo di coloro che, nei corridoi e tramite veline alla stampa (e mai pubblicamente!), lo accusano di una simile “abitudine”, ha fatto passare la narrazione che essa sarebbe perdurata fin dagli inizi della storia bosina, mi sento di essere autorizzato a offrire alcuni importanti chiarimenti e smentite.

Negli anni che sono stato a Bose, e immagino anche dopo, il priore aveva l’ultima parola su tutto. Bisogna intendersi, però: è un uomo che, oltre ad avere dei “fedelissimi”, degli amici in senso più stretto tra i suoi confratelli, amava circondarsi di personalità forti e anche dalle idee diverse dalle sue, come gran parte di coloro che si erano uniti al cammino comunitario dagli inizi fino agli anni Novanta, a cui non negava spazio e che raramente si sentivano dire dei no. Certo, vivendo con un uomo capace di pensare e agire a velocità superiori a quelle della combinazione di diverse persone ordinarie messe insieme, era normale che le sue idee, la sua spinta creativa, fossero sufficienti ad assorbire e impiegare gran parte delle energie comunitarie, lasciando uno spazio relativo alle iniziative dei singoli.

Però questo è sempre stato chiaro, senza ipocrisie, e chi entrava a Bose lo sapeva dal primo giorno. Per contro, tutti e ciascuno potevano vivere la gratificazione enorme di sentirsi parte di qualcosa di grande, di collettivo, in cui il duro lavoro comunitario e personale cooperava a un bene immenso. Non ricordo di aver mai vissuto un senso di appagamento più grande nella mia vita: pur lavorando una decina di ore al giorno (spesso anche durante il fine settimana), trascorrendone un paio negli uffici di preghiera e un altro paio ad accogliere e ascoltare ospiti (e il tempo rimanente da sveglio a studiare), ero felice perché colmo di senso e di fraternità.

Enzo indirizzava tutti a un lavoro, perché era convinto della fondamentale dignità del lavoro umano, del suo renderci fedeli alla terra e solidali col mondo. E faceva fiorire le persone. Tanto che, fino al 2004, il tasso di abbandoni era bassissimo, e il fiorire di fraternità molto belle (finché lui ha presieduto la comunità) è stato un segno della positività di fondo dell’impresa bosina. Il celibato,  realmente possibile in senso “positivo” solo laddove il vuoto viene colmato di un senso diverso, più profondo, funzionava: nei miei undici anni, a parte un fratello e una sorella andati via e poi sposatisi (cosa che non comporta in me alcuno scandalo!), percepivo molto equilibrio e nessuna frustrazione nel vivere questa dimensione.

Tutto roseo? Il punto non è questo, ovviamente, e difetti in comunità ce n’erano. Le donne, in un certo senso, hanno sempre avuto un ruolo subalterno, come del resto in tutta la chiesa cattolica e anche nel dopo-Bianchi a Bose (anche se almeno a Bose alle donne è sempre stato dato il ministero della predicazione, segno profetico non da poco). Il peso del lavoro, col crescere delle attività, era diventato notevole, e forse si sarebbe dovuto vigilare maggiormente sul delicato equilibrio tra surplus di senso e di gratificazione da un lato, e il rischio di burnout di diversi fratelli e sorelle dall’altro. Lo sviluppo di un autentico cammino sinodale ha sempre stentato (e stenta tuttora, in forme diverse e forse ancor più preoccupanti), la comunicazione sana e umana probabilmente era ed è insufficiente, dato che forse in troppi si sentivano e si sentono tenuti dal silenzio monastico a non comunicare difficoltà e problemi. A questo si aggiunge che, probabilmente, il fondatore di Bose, negli ultimi anni del suo priorato, non è più riuscito a trasmettere, soprattutto alle giovani generazioni, l’entusiasmo di un tempo, forse perché il suo ministero si era allargato (legittimamente) oltre Bose, senza che si individuassero forme veramente adeguate di transizione dell’autorità e del carisma bosino.

Va detto inoltre, a quanto ho capito già quando ero ancora a Bose, che soprattutto negli ultimi quindici anni, col mutare del profilo dei visitatori della comunità cui ho fatto cenno, è cambiato anche il profilo di coloro che bussavano alla porta del monastero chiedendo di iniziare un cammino monastico. Prima l’attuale priore, Luciano Manicardi, e poi un fratello in seguito andatosene dalla comunità, avevano assunto l’incarico di maestro dei novizi, e il “reclutamento” e la formazione non erano più riusciti a compaginare le mutate sensibilità delle nuove generazioni con gli stili comunicativi e di vita vigenti a Bose (che indubbiamente avrebbero dovuto essere cambiati). Nelle mie visite a Bose la sentivo ormai avviata a diventare un normale monastero cattolico, e non più uno spazio profetico in cui laici cristiani di ogni confessione potevano vivere insieme sotto la guida dell’ “evangelo e nient’altro”. Si parlava un po’ troppo di “vita monastica”, e meno di “vita cristiana”.

Lo stesso attuale priore Manicardi non aveva mai mostrato, in molti anni, alcun interesse o comprensione particolari per l’ecumenismo, ma la cosa, di per sé, non mi turbava particolarmente: pensavo fosse comunque un uomo attento ad ascoltare fratelli e sorelle, e del resto la comunità non era più “mia”, e dovevo accettare di vederla cambiare a prescindere dai miei gusti, purché il vangelo fosse ancora al centro di ogni discorso e soprattutto della vita. (…)

Cellole, una splendida pieve romanica a due passi da San Gimignano. Alla fin fine un meglio “esilio” dove trovarlo?

… durante la solita passeggiata siamo giunti a Cellole … deserta silenziosa e muta come non mai …quanti pensieri e ricordi di una comunità viva  fraterna e ospitale … anche il gattorespira la mancanza della comunità cercandoci con insistenza … un tuffo al cuore trovare ammucchiati in un angolo come “roba vecchia” i segni e simboli di Bose … uno sguardo in chiesa, unico luogo aperto, per una profonda e invocante preghiera …a Luciano che deve guidare con saggezza una comunità lacerata … a Enzo fondatore e ormai anziano monaco privato della sua creatura … a fratel Davide e gli altri membri della comunità di Cellole … improvvisamente catapultati in altri luoghi … a tutti un ricordo per le sofferenze personali del tempo presente …nella certezza che oltre il mistero e il buio splenderà per tutti il tempo della gioia ….la gioia di un ritorno alla fraternità fra uomini e donne che continuano a credere, sperare e confidare nell’unico Gesù nostro Signore. Claudio

Anche la vita monacale è talora attraversata dalle “tenebre”. Come nella comunità di Bose, fondata nel 1965 da fratel Enzo Bianchi, un’icona del progressismo cattolico, autore di libri di successo, in buoni rapporti con papa Francesco almeno fino a un paio di anni fa, quando era ancora in odore di nomina cardinalizia. Scoppiano contrasti laceranti alla nomina del nuovo priore, Luciano Manicardi. Occorre una ispezione dell’apposita Congregazione romana. Risultato? Un decreto di allontanamento definitivo di Bianchi, che si dice addolorato ma non si muove disubbidendo fino ad oggi al provvedimento. Ora un ultimatum: entro una settimana esca da Bose e vada a Cellole, con i tre o quattro frati (su un’ottantina della comunità) che vogliono stare con lui. Ma non più con la denominazione del monastero del biellese, ma come nuova fraternità. Come scritto a suo tempo su questo sito (vedi daQui mese di maggio e giugno 2020), la stima per Enzo non può nascondere una certa amarezza: per la sua disobbedienza, perché tale è – al di là di ragioni e torti che non tocca agli esterni districare. Nella vita monastica dovrebbe mostrarsi il massimo dell’obbedienza cristiana. Enzo è mancato a questa esemplarità per tutti noi esterni che bussiamo ai monasteri per averne sostegno. (ab)

lettera del vescovo Matteo Zuppi alla Costituzione

Cara Costituzione,
Sento proprio il bisogno di scriverti una lettera, anzitutto per ringraziarti di quello che rappresenti da tanto tempo per tutti noi.
Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo!
Ti voglio chiedere aiuto, perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare.
E poi che cosa ci serve litigare quando si deve costruire?
Come cristiano la luce della mia vita è Dio, che si è manifestato in Gesù.
E’ una luce bellissima perché luce di un amore, esigente e umanissimo, che mi aiuta a vedere la storia dove Dio, che è amore, si manifesta.
Mi insegna ad amare ogni persona, perché ognuno è importante.
Mi chiede di farlo senza interessi perché l’unico interesse dell’amore è l’amore stesso, quindi gratuitamente, senza convenienze personali, in maniera universale. Fratelli tutti!
E questo, in un mondo che si è fatto piccolo e con tanti cuori troppo ristretti perché pieni di paura e soli.
Penso ci sia bisogno di questa luce, anche nelle Istituzioni, perché dona speranza, rende largo e umano il cuore, insegna a guardare al bene di tutti perché così ciascuno trova anche il suo.
Stiamo vivendo un periodo difficile.
Dopo tanti mesi siamo ancora nella tempesta del COVID. Qualcuno non ne può più.
Molti non ci sono più.
All’inizio tanti pensavano non fosse niente, altri erano sicuri che si risolvesse subito tanto da continuare come se il virus non esistesse, altri credevano che dopo un breve sforzo sarebbe finito, senza perseveranza e impegno costante.
Quanta sofferenza, visibile e quanta nascosta nel profondo dell’animo delle persone!
Quanti non abbiamo potuto salutare nel loro ultimo viaggio! Che ferita non averlo potuto fare! Sai, molti di quelli che ci hanno lasciato sono proprio quelli che hanno votato per i tuoi padri. Anche per loro ti chiedo di aiutarci. Quando penso a come ti hanno voluta, mi commuovo, perché i padri costituenti sono stati proprio bravi!
Erano diversissimi, avversari, con idee molto distanti eppure si misero d’accordo su quello che conta e su cui tutti – tutti – volevano costruire il nostro Paese. Vorrei che anche noi facessimo così, a cominciare da quelli che sono dove tu sei nata.
C’era tanta sofferenza: c’era stata la guerra, la lotta contro il nazismo e il fascismo e si era combattuta una vera e propria guerra fratricida.
Certo.
Non c’è paragone tra come era ridotta l’Italia allora e come è oggi! Tutto era distrutto, molte erano le divisioni e le ferite.
Eppure c’era tanta speranza. Adesso ce n’è di meno, qualche volta penso – e non sai quanto mi dispiace! – davvero poca.
Non si può vivere senza speranza! Quando sei nata c’erano tanti bambini e ragazzi, quelli che ora sono i nostri genitori e nonni. Vorrei che ci regalassi tanta speranza e tanti figli, tutti figli nostri anche quelli di chi viene da lontano, perché se abbiamo figli possiamo sperare, altrimenti ci ritroviamo contenti solo nel mantenere avidamente quello che abbiamo, e questo proprio non basta e in realtà non ci fa nemmeno stare bene.
Cara Costituzione, tu ci ricordi che non è possibile star bene da soli perché possiamo star bene solo assieme.
Tu ci ricordi che dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive: non va bene che la persona – che tu ritieni così importante, che tu difendi e di cui vuoi il riscatto da ogni umiliazione – si pensi in maniera isolata e autosufficiente.
I diritti impongono dei doveri. Ognuno è da te chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri.
Tu, infatti, chiedi a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità, perché la società come tu la pensi non è un insieme di isole, ma una comunità tra persone, tra le nazioni e tra i popoli.
Fondamentale l’art. 2 in cui parli dei diritti inalienabili dell’uomo, di ogni uomo non solo dei cittadini e dei doveri inderogabili di solidarietà.
Ci ricordi (art. 4) il dovere, per ogni cittadino, di impegnarsi in attività che contribuiscano al progresso sociale e civile.
Si tratta di due dei “principi fondamentali”, che fanno parte del volto e dell’anima della Repubblica.
Per te la libertà (e tu sapevi bene cosa significava non averla e combatti contro ogni totalitarismo, non solo ideologico, ma anche economico, militare o giudiziale) non è mai solo libertà da qualcosa ma per qualcosa. Nell’art. 4 affermi infatti che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta (quindi in piena libertà di risposta alla propria vocazione), una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, trasformando così tutte le “libertà da” – elencate soprattutto, ma non solo, dall’art. 13 all’art. 25 – “in libertà per”. Certo, purtroppo per questo la fratellanza è rimasta spesso indietro, perché senza essere liberi per qualcosa e per gli altri abbiamo finito per costruire una libertà distorta, che tradisce la vera uguaglianza.
Tu ci dici che siamo uguali (art. 3), ma non è una enunciazione vaga, perché ci dici anche che uno dei compiti primari dello Stato è rimuovere gli ostacoli nella vita delle persone e del loro sviluppo esistenziale e civile (artt. da 35 a 38 e poi 41 e 42). In sostanza ci dai il fondamento di una società basata su una vera fratellanza ed eguaglianza e non solo una fredda e impersonale imparzialità.
Cara Costituzione, abbiamo tanto bisogno di serietà e i tuoi padri ce lo ricordano.
Spero proprio che noi tutti – a partire dai politici – sappiamo far tesoro di quello che impariamo dalle nostre sofferenze, cercando quanto ci unisce e mettendo da parte gli interessi di parte, scusa il gioco di parole.
Abbiamo bisogno di vero “amore politico”!
Tu ci rammenti che non possiamo derogare dai doveri della solidarietà (art.2) che sono intrecciati con i diritti.
Questi esistono e si sviluppano
(insieme alla personalità) nei gruppi sociali intermedi tra l’individuo e lo Stato: la famiglia, prima di tutto, ma anche le associazioni e i gruppi sociali, religiosi, ecc.
Per te l’unità prevale davvero sul conflitto (artt. 10 e 11).
La stessa salute va curata – altro che vivere come viene: siamo davvero responsabili gli uni degli altri! (art. 32) – perché la salute non è solo un fondamentale diritto dell’individuo, ma interesse dell’intera collettività.
Questo non vale solamente per difenderci meglio dai contagi o per gestire in maniera più efficiente il sistema sanitario, ma perché l’attenzione alla salute di tutti e di ciascuno è uno dei presupposti basilari di una vera cittadinanza attiva.
Insomma: star bene anche per potersi impegnare per gli altri e quindi per tutti.
Anche per questo (art. 35) la Repubblica “cura” (che bel verbo, invece di “tutela” o “garantisce”) non solo la formazione, ma anche “l’elevazione” professionale dei lavoratori.
Questo significa dare una visione umanizzante del lavoro e del contributo che ci si aspetta dai lavoratori.
Tu dici una cosa bellissima: (art. 36) il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro; e aggiungi che questa retribuzione deve essere “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Per te il lavoro è collegato allo sviluppo umano. Io vorrei che dopo la crisi della pandemia si smettesse di praticare il precariato, il caporalato e il lavoro nero, e che ci potessimo impegnare nel mettere in regola i lavoratori, dando continuità e stabilità alla vita delle persone. Certo a qualcuno conviene avere la possibilità di non “sistemare” i lavoratori, ma come si fa a vivere e a progettare la vita senza sicurezze e senza sufficienti garanzie di futuro?
Come non pensare anche a tutti coloro che sono in seria difficoltà e rischiano di perdere il lavoro in questo tempo di pandemia e in quello del dopo pandemia, quando emergeranno anche i problemi adesso sommersi!
Ecco, per questo abbiamo bisogno di lavoro, di chi lo crea, non specula e di garantire equità e opportunità a tutti.
Non c’è dignità della vita senza lavoro.
Spero che tu ci possa aiutare a non aspettare sempre qualche bonus e a smettere di speculare.
Cara Costituzione, incoraggiaci a costruire, ad essere imprenditori che rischiano per sé e per gli altri mettendo in gioco tutta la nostra capacità e dedizione, sapendo che si tratta del futuro delle persone.
Insieme, imprenditori e lavoratori. Tu (art. 41) garantisci la libertà dell’iniziativa economica, ma dicendoci che tale iniziativa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e aggiungi che la legge deve preoccuparsi affinché “l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Papa Francesco ce lo ha ricordato più volte parlando della proprietà privata.
Qualcuno si è spaventato, tradendo un pregiudizio oppure manifestando di volere per sé quello che, invece, deve servire per il bene di tutti, perché solo così si giustifica e si conserva.
Tu (art. 42) stabilisci che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Insomma, siamo per davvero sulla stessa barca!
Facciamo ancora tanta fatica a capirlo, ma è proprio così!
Per questo aggiungi (art. 45) che lavorare insieme è importante riconoscendo la “funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità”.
Quanto è utile che tu ci ricordi che solo insieme ne veniamo fuori, che chi resta indietro non lo possiamo abbandonare e che siamo chiamati come cittadini responsabili a lavorare per dare a tutti delle opportunità concrete. L’ascensore sociale non può restare guasto, perché altrimenti quelli che si trovano più in basso non riescono a rialzarsi, in quanto sono senza possibilità reali di riscatto e progresso.
E così non solo non è giusto, ma ci depriva di ogni vero futuro!
Per questo ci ricordi quanto è importante riunirsi, parlare, discutere, confrontarsi.
Tu ci garantisci (art. 18) il “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione…”, questo lo sottolinei non solo perché nessuno lo limiti ma perché è importante custodire ed incoraggiare la vita sociale e comunitaria.
Hai voluto garantire espressamente un diritto fondamentale per la formazione della personalità (non era di per sé necessario, perché rientrava comunque nelle libertà già in altre norme genericamente riconosciute, ma tu hai voluto sottolinearlo con forza e decisione).
Ma ci ricordi che la casa comune significa diritti e doveri e che è importante partecipare tutti.
A te i furbi, furbetti, di vario genere proprio non vanno giù!
Adesso che abbiamo tanti problemi come si fa a essere furbi, speculare per sé invece di aiutarsi (art. 53)?
Perché poi ci rimettono i più deboli, quelli che non ce la fanno, i poveri, vecchi e nuovi.
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Insomma, bisogna pagare le tasse e perché nessuno si lamenti che non serve, anzi, rubi (in tanti modi perché non pagarle significa togliere agli altri!) hai chiesto (art. 54) a tutti i cittadini il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
E anche che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Oggi direi con correttezza esemplare, anche perché ne va della fiducia degli altri nella cosa di tutti!
Ecco come si fa a vivere bene assieme.
Come in famiglia.
“Infatti, la nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa.
In una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso.
Se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando ‘se l’è cercata’, gli altri vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. […]
Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare.
I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni.
Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti.
Questo sì è essere famiglia!
Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri.
Che bello sarebbe!” (FT 230).
È solo pensando alla famiglia e all’intera famiglia umana che ci può essere la pace (FT 141).
“La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici”.
La pandemia ci ha coinvolto tutti, in tutto il mondo.
Quanto vorrei che crescesse il sogno di ricercare il bene di tutti nella stanza del mondo dove viviamo assieme e dove possiamo riconoscerci “Fratelli tutti”.
A proposito.
La famiglia (art. 29) è riconosciuta come “società naturale”, perché volevi sottolineare che la famiglia è una realtà umana precedente lo Stato e in qualche modo realtà autonoma da questo, perciò usi il bellissimo termine “riconosciuta”. Parola che utilizzi poche volte e sempre per diritti o realtà la cui esistenza è appunto “riconosciuta” e non originata dallo Stato, come per i diritti inalienabili dell’uomo (art. 2) in cui ci ricordi che l’educazione, la casa e il lavoro sono indispensabili per vivere.
In questo quadro ci inviti anche ad essere accoglienti e ospitali.
Nella nostra storia ci hanno accolto e ora noi non accogliamo? Forse dobbiamo ricordarci che dobbiamo agevolare “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” e sottolinei che bisogna avere particolare riguardo alle famiglie numerose (art. 31).
Non dobbiamo finalmente mettere in pratica questa tua indicazione di proteggere “la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”? E’ così sconfortante non vedere bambini e senza bambini c’è meno speranza e cresce la paura.
Cosa ci richiede proteggere la maternità?
Un’ultima preoccupazione.
Tu ricordi che la pace va difesa ad ogni costo (art. 11).
Tu sei nata dopo la guerra.
Avevi nel cuore l’Europa unita perché avevi visto la tragedia della divisione.
Senza questa eredità rischiamo di rendere di nuovo i confini dei muri e motivo di inimicizia, mentre sono ponti, unione con l’altro Paese. Solo insieme abbiamo futuro! Abbiamo tanto da fare in un mondo che è bagnato dal sangue nei tanti pezzi della guerra mondiale!
E se, come affermi solennemente, ripudiamo la guerra, dobbiamo cercare di trasformare le armi in progetti di pace, come Papa Francesco – grande sognatore e realista come te – ha chiesto.
“Con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa” (FT 262).
Ripudiare la guerra vuol dire costruire la pace praticando il dialogo per arrivare ad abolire la guerra!
La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento.
“L’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario”, scrive Papa Francesco senza mezzi termini.
Grazie.
Cara Costituzione, ascoltando te già sto meglio perché mi trasmetti tanta fiducia e tanta serietà per la nostra casa comune.
Se ce ne è poca anch’io devo fare la mia parte!
Proprio come tu vuoi.
+ Matteo
Gennaio 2021

Il rimprovero dei vescovi: “Renzi, nessuno ti capisce” (meno il 2 virgola che sempre si trova tra gli autorottamatori_ n.d.r.)

di Paolo Rodari  CITTA’ DEL VATICANO — Fra i vescovi italiani l’insofferenza per l’azione di Renzi è palese. Per tutti dice la sua a Repubblica Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo che lotta quotidianamente in difesa dei migranti facendo anche i conti con la latitanza dello Stato: «Quanto ha fatto Renzi è incomprensibile non solo per chi è fuori dalla politica, ma anche per chi è dentro. È un’azione sciagurata e credo che la storia, ed anche la cronaca di tutti i giorni, ne faranno giustizia. Il Paese non aveva bisogno di una crisi in questo tempo così difficile. Anche perché non conosciamo ancora le ripercussioni che tutto ciò potrà avere sia a livello nazionale sia internazionale ». Insieme a Mogavero, è l’arcivescovo di Campobasso Giancarlo Maria Bregantini a dire a Renzi: «Riveda la sua posizione di rottura e ritrovi il dialogo, pure all’interno di una formazione nuova che nessuno sa cosa possa essere. Siamo preoccupatissimi. La gente non capisce. Si può e si deve trovare un accordo interno, questa deve essere la parola d’ordine su cui muoversi». Non da meno è padre Alex Zanotelli, voce degli ultimi, che oggi parla dal cuore dei quartieri spagnoli di Napoli. Dice: «Altro che ritirarsi dalla politica, Renzi la sta rovinando ». Il missionario comboniano non usa mezzi termini contro Renzi: «È di un narcisismo e di un egoismo senza pari. Già si era visto quando stava al governo e disse che se avesse perso al referendum avrebbe lasciato la politica». Zanotelli rileva però anche che non tutti nella Chiesa hanno il coraggio di parlare: «Mi fa male anche il silenzio della Chiesa. Davanti ad un uomo di un narcisismo e di un egoismo senza uguali, in un momento di pandemia, il popolo è sbigottito. Ci si perde in quisquilie davanti ad una tragedia da cui non sappiamo nemmeno se ci salveremo. Ormai non c’è più il senso del bene comune e questo è ciò che più mi spaventa. Da qui la grande delusione della gente verso la politica che in questo momento dovrebbe prendere decisioni serie». Ieri, in ogni caso, la Cei aveva battuto un colpo. Dopo le parole del Papa all’Angelus di domenica che aveva detto che «non è questo il momento di rompere l’unità», è stata l’agenzia di stampa dei vescovi italiani, il Sir, a pubblicare un duro editoriale, definendo la crisi innescata dal leader di Iv «assurda» agli occhi dei cittadini, «alle prese con i contagi e il loro tragico corredo di morti, con le conseguenze economiche della pandemia, che in molti settori (non tutti, bisogna pur dirlo) sono estremamente gravi, e con il suo devastante impatto sociale che invece non risparmia nessuno». Dal cardinale Bassetti in giù, la Chiesa è da sempre con Sergio Mattarella e la sua ricerca di equilibrio e stabilità. Non a caso il Sir ha avuto parole di elogio solo per lui: «Sappiamo che si muoverà esclusivamente nell’interesse del Paese e sempre lungo i binari della Costituzione. Ma Sergio Mattarella non ha la bacchetta magica. A tutti è richiesto un sussulto di responsabilità».

«Milano cantiere di speranza. La politica? Troppo litigiosa». La malattia, le paure, la dimensione spirituale Le riflessioni sulla crisi e su cosa verrà dopo. «Milano è un enorme cantiere di speranza. Ma c’è il rischio che prevalga la rinuncia». L’arcivescovo Delpini — «ma chiamatemi don Mario, mi sento un po’ il parroco di Milano» — parla del Natale, del Papa, e della sua bicicletta. Condanna neoliberismo e populismo. E dice: «Governo e Regione hanno agito troppo sulla spinta dell’emergenza».  (…. …..  (Aldo Cazzullo, Corriere, 24.12.’20)

Iritratti alle pareti dei predecessori scomparsi incutono una certa soggezione: Tettamanzi, Martini, Montini che divenne Papa come Paolo VI, Ratti che era diventato Pio XI, Schuster, san Carlo Borromeo…

Come ci si rivolge all’arcivescovo di Milano? Eccellenza Delpini? «Mi chiamano don Mario».

Nel suo discorso di sant’Ambrogio, lei ha citato il profeta Geremia, che con l’esercito babilonese alle porte acquista un terreno, fa un investimento sul futuro; poiché «dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: ancora si compreranno case, campi e vigne in questo Paese». «Geremia lo fa non perché è un visionario, ma perché il Signore gli ha detto di comprare il campo. È lo spirito che serve anche a Milano, a tutti noi. Perché il rischio è che sulla speranza prevalga la rinuncia. Non è facile ripartire dopo una pandemia. Resta nell’aria un senso di sospetto, l’idea che l’altro possa essere pericoloso».

Perché la rinuncia sembra prevalere sulla speranza? «Perché non c’è un interlocutore che promette. La speranza cristiana è fondata su una promessa, non su un’esperienza positiva dell’umanità, sulla constatazione che ci siamo ripresi tante volte; il che è vero, ma la speranza è legata a una fede, non a un precedente storico o a una statistica. Qui sembra che il mondo prescinda da Dio, che Dio esista solo per insultarlo perché non manda via il virus, che Dio non sia un reale interlocutore della vita ma un’astrazione da maledire quando le cose non vanno come si vorrebbe. Molta gente non è disposta alla fede, è chiusa nell’orizzonte del nascere e del morire».

Lei parla di emergenza spirituale. «Siamo così ossessivamente rivolti alla pandemia, alla situazione contingente, che non c’è più spazio per lo spirito; che so, scrivere una poesia, interessarsi al dramma del Centrafrica».

Non tutti hanno il dono della fede. «Ma tutti dovrebbero avere una vita spirituale, che per me è la docilità allo Spirito Santo, ma è la dimensione dell’umano per chiunque non voglia essere solo abitante della banalità. È come se ci fosse una strategia del malumore: siamo ossessionati dal dato di cronaca spicciolo. L’unico argomento di cui si parla è l’evoluzione della pandemia, cui i media danno uno spazio spropositato».

Come potrebbe essere diversamente? «Non dico che ci sia un piano; dico che c’è un modo di organizzare l’informazione che induce allarmismo. Il passo successivo è gettare discredito, alimentare malcontento, trovare colpevoli; da qui il disprezzo delle istituzioni. E l’abolizione della buona notizia, scacciata da quella cattiva».

La paura non l’hanno inventata i media. Paura della morte. E della povertà. «La paura è un dato di fatto. Può essere un riflesso condizionato, o un’esperienza umana. Può diventare una paralisi, ma anche uno stimolo per la dimensione spirituale. Allora diamoci da fare, ad esempio vediamo cosa si può fare contro la povertà. Ho scritto un libro di favole per aiutare i bambini ad affrontare le loro paure: il buio, i genitori che litigano, Dio che castiga. Anche gli adulti hanno le loro paure: l’esclusione, la fine dei legami, le migrazioni. La paura non va esorcizzata; va risolta. Ad esempio si racconta ai piccoli che Dio è diventato un bambino; e non si può temere i bambini. La paura dell’altro si risolve conoscendolo. Il tema migrazioni spesso è stato usato per creare paura; ma la conoscenza può aiutare a superarla. Abbiamo il diritto di avere paura, ma anche il dovere di cercare i motivi di pace, le fondamenta della fiducia; che è diversa dall’ottimismo».

Lei è ottimista o fiducioso? «L’ottimismo non va banalizzato. Dire “andrà tutto bene” è un modo per farsi coraggio, come il grido di guerra con cui una squadra si infonde vigore psicologico. In realtà, sappiamo che non tutto è andato bene. Però girando per Milano e per l’Italia ho trovato molte persone che mi danno fiducia nell’avvenire».

Quali persone? «Quelle che stanno al loro posto, che tengono la posizione, che continuano a far bene il loro mestiere. Sono stato a visitare l’ortomercato e il mercato del pesce. Ho incontrato tanti lombardi orgogliosi di aver continuato a sfamare Milano, anche durante il primo e più rigoroso lockdown: la città ha mangiato, dicevano, perché noi abbiamo lavorato tutte le notti».

Come vede il 2021 di Milano? «Milano è un enorme cantiere di speranza. Ovunque vedo gente che si dà da fare per il bene; anche se la pandemia, con i morti e le limitazioni, sembra quasi stremare la città».

Colpiscono le immagini pubblicate dal Corriere delle code alla mensa dei poveri. «Certo. Però dall’altra parte della mensa ci sono i volontari che ai poveri danno da mangiare. Siamo in emergenza; ma la risposta c’è. Pensi agli ambulatori per le cure gratuite, ai luoghi dove si accolgono i disabili. Ammiro di Milano questo enorme cantiere della carità, che non è solo volontariato ma anche servizi sociali, ospedali, scuole. La città è un giacimento di risorse. Mi auguro che tutto questo porti frutto. Sono andato a rivedermi le fotografie della Milano bombardata durante la guerra. Pareva un disastro insuperabile; si sono ricostruite case migliori di prima. Fu una tragedia ancora più grande di quella presente, il che predispone alla fiducia».

Lei però denuncia l’individualismo.  «Sì, perché ci rende più fragili. Facciamo parte di un unico corpus; non capirlo ci indebolisce. C’è un’arroganza dell’individualismo, per cui l’insofferenza prevale sulla gratitudine. Non volersi far carico degli altri può sembrare una forma di libertà, ma l’esito è la solitudine; che non è una forma di libertà, ma causa di tristezza. Non si è mai felici da soli».

Da cosa dipende? «Anche dalla politica: questa litigiosità continua, questo nervosismo, questa suscettibilità impediscono di capire che siamo tutti sulla stessa barca. Succede in Parlamento, succede pure nelle riunioni di condominio, dove magari si litiga tutta la notte per il colore della scala; ma la dignità dell’uomo non dipende dal verde 142».

Come si è mosso il governo? «Non riesco a valutare, non so misurare l’impatto dell’emergenza. L’impressione è una sorta di pronto soccorso continuo. Non si dice “andiamo avanti, abbiamo delle idee”; si pensa solo a contenere l’alluvione. Ma accanto alla mancanza di lungimiranza c’è stata un’attività molto intensa delle istituzioni e dei servizi: a Milano gli ospedali hanno funzionato, come i trasporti, e i negozi».

E la Regione Lombardia? «Anche loro han fatto quel che hanno potuto. Sempre però in una logica emergenziale: questo numero dice così, e ora facciamo così. Forse era inevitabile; ma ci si è mossi troppo sotto la spinta dell’emergenza. Occorre una prospettiva più ampia. Serve il pronto soccorso; ma serve anche una visione».

Nove mesi fa, intervistato da Fabio Fazio a «Che tempo che fa», lei disse: «Il vaccino non basta, il mondo è troppo malato». Perché? «Perché la disuguaglianza è scandalosa. Ci sono troppi poveri e molte persone troppo ricche; e non si vede rimedio. In Italia c’è stato un periodo in cui la classe media rappresentava il clima complessivo. Sono cresciuto in un piccolo centro vicino a Gallarate, Jerago con Orago. Lo conosce?».

Confesso di no. «Come non lo conosce? È l’unico paese della diocesi di Milano con la j… (l’arcivescovo Delpini sorride). Ricordo un borgo in crescita: la gente non era ricca ma aveva i soldi per il cibo e le medicine, ogni tanto cambiava la macchina; non ci mancava nulla. Non so se in tutta Italia è ancora così. Leggo che al Sud oltre metà dei giovani non trova lavoro. E vedo Paesi dove la gente non ha l’acqua da bere. Paesi saccheggiati da altri. Quando i ricchi rubano ai poveri, questa è una malattia. Non è un modo ragionevole di vivere sullo stesso pianeta. Per questo il mondo è malato».

Anche il Papa dice queste cose. Alcuni lo considerano un comunista. Hanno torto? «Noi cristiani siamo discepoli di un uomo che è stato trattato piuttosto male; non ci aspettiamo sempre applausi. Il Papa viene da un Paese in cui la disuguaglianza si manifesta in modo impressionante. Nell’enciclica Fratelli tutti ha espresso bene l’esigenza di solidarietà. Non si può dire: io me la cavo, se tu non te la cavi peggio per te».

Lei ha condannato il neoliberismo; ma è sicuro che in Italia non ce ne vorrebbe un po’ di più? Ad esempio per semplificare fisco e burocrazia? «Per neoliberismo intendo una forma di capitalismo insofferente della responsabilità sociale: l’obiettivo è solo il profitto, il resto non interessa. Ma se io sottopago lavoratori e fornitori, se uso risorse depredate ad altri Paesi, allora perdiamo tutti. La burocrazia ha un compito di garanzia; quando provoca un eccesso di complicazione è insopportabile per chi vuole prendere iniziative. Peggio ancora è la scorciatoia dell’illegalità o lasciare l’Italia. C’è chi ha tanti soldi e se li tiene o li usa per fare altri soldi, anziché investire e creare lavoro. Ma altri mi dicono: io ho ricevuto molto e devo restituire, con la beneficenza o con gli investimenti. Si sentono responsabili verso la società e l’ambiente».

Cos’è invece il populismo? «È creare consenso con slogan e non con pensieri, attraverso le emozioni anziché i programmi. Ci siamo già passati: se io convinco tutti che gli ebrei sono ladri, poi si creano i campi di concentramento. Populismo è far leva sull’emotività, sulla paura, e non sul consenso ragionevole».

Ce l’ha con Salvini? «Non ce l’ho con nessuno, a maggior ragione con chi conosco poco. Sono un ingenuo: credo che ogni persona sia animata da buona volontà».

Dopo la pandemia viene un rimbalzo? O la depressione? «Ci saranno entrambe le cose. Qualcuno ne uscirà con l’euforia della ripresa; qualcuno stenterà. Ora sembra prevalere un tono dimesso, la prospettiva di una risalita lenta. Ma all’ortomercato un signore mi ha detto: “Io sono stato malato. Ora tutti mi dicono che pure loro hanno avuto il Covid, però io l’ho fatto sul serio, con tre settimane di tosse e febbre. Ma ora ho ripreso, più vigoroso di prima”».

Anche lei ha avuto il Covid. «Ero del tutto asintomatico, ma sono dovuto restare isolato per più di venti giorni. Ne ho approfittato per leggere libri dalla prima all’ultima pagina, dormire, pregare di più, scrivere. Ho avuto più tempo per me. Ma ho provato imbarazzo al pensiero di coloro che hanno sofferto duramente, dei morti, delle loro famiglie».

È vero che medici e infermieri possono benedire i morenti? «Certo. Però rispetto al primo lockdown le cose sono migliorate. I pazienti vivono una solitudine vigilata. Sono possibili le videochiamate. I cappellani possono entrare, tutti bardati, nella terapia intensiva. Infermieri e medici cattolici dicono una preghiera, portano l’eucarestia. Alcuni però sono morti soli, non hanno avuto funerali, oppure ai funerali i parenti non sono potuti andare perché erano in quarantena. Una prova durissima, che ha lasciato in molti un senso di desolazione: è morto mio papà e io non l’ho potuto salutare».

Se il Papa viene attaccato, su di lei si è fatta qualche ironia: l’arcivescovo in bicicletta. Quanto conta lo stile? «Lo stile è un elemento indefinibile. Significa fare una cosa con gentilezza, con attenzione. Anche l’ironia è un valore, anche la critica; non è detto che si debba essere benevoli a oltranza. Lo stile per me è rispetto, rinuncia alle parole aggressive, gusto di coltivare il proprio lato amabile. Mi sento un po’ il parroco della diocesi di Milano. Anche il Papa in Fratelli tutti ci richiama alla gentilezza».

Ma in bici lei ci va o no? «Non facciamone un mito. La bici è comoda. La uso per tratti di strada, ad esempio per andare dal parrucchiere, che impiegherei più tempo a fare a piedi o in metro o in macchina. Mi piacerebbe usare la bici per fare sport, ma non ho più né il tempo, né il fisico». Aldo Cazzullo, Corriere, 24.12.’20

una delle molte riflessioni di questi giorni …     We can, We care. Noi possiamo, Noi ci prendiamo a cuore

Negli ultimi mesi Isolati, senza i nostri riti quotidiani o settimanali degli apericena o delle colazioni al bar con cappuccio e brioches o delle cene serali con gli amici o la fidanzata …  siamo diventati insofferenti e ci siamo incupiti … forse più per queste mancanze … che non per covid19. > Finché le sofferenze altrui non ci toccano da vicino o non ci colpiscono direttamente, sembra di stare in un   universale video games. _ Guardiamo le morti altrui e le sofferenze dei fratelli come fossero distanti da noi e dal nostro mondo. _ Importante che mi venga garantito potermi muovere, uscire, fare quello che vorrei fare e stare con chi mi piace stare. _ L’individualismo dilaga e i motivi sanitari e i lockdown sono solo una scusa per rivendicare per  se stessi solo diritti e derogare sui nostri  doveri sociali e personali. _ Ma l’individualismo non sarà mai la soluzione, non sarà mai la salvezza … non porterà mai ad una società più giusta come tutti vorremmo. _ Se viene meno il cuore diventeremo una società di automi, di primordiali con giacca e cravatta … ma estranei uno all’altro … indifferenti ai bisogni altrui (che sono anche i nostri), attenti solo ai nostri piccoli interessi e pronti a calpestare gli altri per prevalere. _ Il motto (per qualcuno lo è già) … sarà mors tua vita mea.  _ Ci salveremo dalle pandemie ed altre tragedie … solo se scopriremo nella gioia e nei momenti difficili che è bello, appagante prendersi cura reciprocamente …  _ Quanto è bello, prezioso e appagante vedere qualcuno che si prende cura di noi e non lo fa per parentela, obbligo, anzi potrebbe ignorarmi e invece si china su di me e mi ascolta e mi cura. _ Il giovane che si prende cura del più anziano e viceversa l’anziano che si prende a cuore i piccoli e indifesi molto simili a lui. _ Gli amanti che si prendono cura uno dell’altro … in un progetto di futuro e di famiglia insieme. _ I vicini che pur con mascherine e sanificazioni si fanno attenti ai bisogni di chi vive nella porta accanto. _ I singles che comprendono quanto bello sia unirsi perdendo un po’ di liberta ma scoprendo un immenso dono di servizi, soprattutto quando nascono imprevisti sulla propria strada. > Ci lamentiamo, a volte “tanto per”… e altre volte doverosamente per le tante perdite economiche determinate da questa situazione … ma se nel nostro piccolo secondo le nostre possibilità, sappiamo dimostrare alle attività più in difficoltà (bar, ristoranti, palestre ecc..) che possiamo sostenerli acquistando cibi da asporto o prodotti da loro offerti … e in questo modo sostenerli nel dilemma: “chiudiamo per sempre o resistiamo per un futuro diverso”? Così facendo contribuiamo alla nostra economia, più di tante parole o titoli sui social. _ Il motto dopo e durante questa pandemia dovrebbe essere per tutt I care we care … ci sta a cuore … ogni essere vivente ci sta a cuore … ogni battito di cuore ci interessa … nulla è estraneo alla mia umanità. _ Se sapremo stare nel cuore di ciascuno e accogliere nel nostro cuore l’amore che l’altro mi offre, insieme ai piccoli gesti di attenzione reciproca … stiamo certi che vinceremo tutte le pandemie, ma anche tutte le malattie del cuore, della mente e attraverseremo più sereni anche quelle del corpo._ We can …. We care.                                 Claudio C.

 

Grazie.  Con l’inizio d’Avvento, il nuovo Libro della preghiera liturgica. a noi è stato donato dal Vescovo, come segno di presenza in s. Egidio, questo antico priorato passato attraverso vicende millenarie da monastero cluniacense a parrocchia diocesana, e infine, appunto, a  chiesa con titolo vescovile. Invitato dal Rettore, il vescovo Francesco ha raccolto l’invito di una dedica sul nuovo messale. Eccola. “Alla Cappella Vescovile di S, Egidio in Fontanella. Il grembo del silenzio accolga il dono dello Spirito generatore di ogni Liturgia. + Francesco Beschi – 29 novembre 2020, prima di Avvento”.

la virtù dell’anno: la compassione – La compassione non è un sentimento triste. E non possiamo ridurla soltanto a quei sinonimi, come carità e pietà, che la legano ai momenti nei quali incrociamo il buio della vita. Se partiamo dall’etimologia della parola, e dalla sua radice nel latino compati, cioè compatire, già scorgiamo un primo passo inedito della compassione. La sua forza attrattiva, come una calamita, verso l’altro, la sua energia positiva di spingerci verso la condivisione di un dolore, di una difficoltà, di un dramma. Ma anche di uno spazio di luce. La compassione, infatti, può avere un prezzo molto alto. Fino al sacrificio, anche se non bisogna considerarlo un prezzo dovuto. E il sacrificio riguarda innanzitutto ciò che cediamo di noi stessi, qualcosa a cui rinunciamo. Papa Francesco nel 2016 ha bandito il suo Giubileo della misericordia, altro sinonimo chiave della compassione e dell’amore, e in quella occasione ci ha fatto scoprire «i due aspetti della misericordia»: Il primo: dare, aiutare, servire gli altri. Il secondo: comprendere e perdonare. I due aspetti sono inscindibili, ed evocano entrambi un assolutismo dei sentimenti, un approccio verso l’altro che rompe l’argine di una domanda alla quale, consapevolmente o inconsciamente, siamo abituati dal soffio esistenziale del cinismo. «Che cosa ne ricavo»? Ecco: la compassione, come la misericordia, non si aspettano mai contropartite. Non le mettono nel conto.

LIBRI

De Giovanni, Il concerto dei destini fragili, Ed Corriere della Sera. – È appena uscito, ma lo si legge d’un fiato, pur con le debite pause di rimuginazione richieste dalla intensità del testo. È il nuovo romanzo di Maurizio De Giovanni: racconta la storia di tre personaggi molto diversi tra loro e delle loro vite durante il lockdown. Tre persone che non hanno nulla in comune, un dottore, un avvocato e una ragazza alla pari, ma che si trovano uniti dalla malattia provocata dal virus. L’avvocato vive nel suo mondo dorato, fatto di lussi e di privilegi, la donna dell’est lotta per garantire una vita migliore alla figlia e il dottore, dedito così tanto al suo lavoro da rinunciare agli affetti. Tre mondi lontani che si trovano improvvisamente vicini, uniti da un virus invisibile, ma letale che colpisce chiunque senza discriminazioni. Un romanzo intenso che sorprende e commuove per l’umanità e per l’empatia che suscita nel lettore. Una storia che parla di morte e di amore, dei diversi modi che si elaborano per affrontare la malattia e di una delle paure più comuni nell’essere umana: quella della sofferenza.  Una trama vincente perché è semplice immedesimarsi nei tre personaggi che si mostrano senza maschera, nudi davanti alla paura della malattia e della sofferenza, ma anche forti nelle loro decisioni e nell’affrontare un virus che ha cambiato, seppur in diversi modi, la vita di ognuno di noi.

ARTICOLO

tra le preoccupazioni del contenere il covid e di rilanciare l’economia, qualcuno dice che è inutile lasciarsi distrarre da altre leggi da formulare, seppure ritenute impellenti: vedi quella elettorale a fronte del referendum che vuole tagliare i “residenti ” nelle Camere del Paese, o quella sull’omofobia che galleggia da troppo tempo in Parlamento_ 

Stop all’omofobia legge salva idee, di Alberto Bobbio

Forse sarebbe stato sufficiente intervenire sulle aggravanti per gli atti lesivi contro la persona e prevederle anche a tutela di chi è oggetto di discriminazione sessuale e di genere con un rafforzamento dell’art. 61 del Codice penale. Invece adesso c’è una legge vera e propria contro l’omofobia e le discriminazioni dettate dall’orientamento sessuale e di genere che tra pochi giorni verrà discussa dal Parlamento. Le polemiche non mancano. C’è chi ne sostiene l’inutilità, chi paventa rischi pericolosissimi per la libertà di opinione su matrimoni gay e unioni civili  e chi invece spiega che una legge specifica è necessaria perché l’incitamento all’odio è amplificato dai social e può degenerare in atti di violenza. Il punto centrale della discussione riguarda le opinioni. La legge colpisce le opinioni e le può sanzionare, secondo l’allarme di una serie di organizzazioni cattoliche, per altro non di primo piano e quasi tutte legate alle aree tradizionaliste, oppure si limita a punire gli atti discriminatori e l’istigazione alla violenza? Insomma si rischia un conflitto di diritti? Quando una legge si ritiene necessaria e tocca questioni di alta sensibilità occorre scriverla bene, rafforzando in questo caso l’impegno sul versante educativo e dunque preventivo, a cui non si può anteporre la parte repressiva. C’è un esempio che chiarisce: la formula repubblicana non può essere oggetto di revisione, ma ciò non significa impedire la propaganda dei gruppi monarchici, beninteso se si tengono sul terreno dialettico e non complottano per organizzare un colpo di Stato. Insomma le parole perseguibili sono quelle che si possono trasformare in pietre. L’altro punto che la discussione in aula dovrà chiarire e formulare meglio riguarda le condotte discriminatorie fondate sul sesso e l’identità di genere per evitare incertezza nell’applicazione della legge e conseguenti sentenze creative dei tribunali che complicano la materia e innescano contrapposizioni ideologiche. La discriminazione avviene quando ci si rifiuta di fornire un bene o un servizio, per esempio assumere o licenziare una persona, sulla base di motivazioni razziali, religiose, etniche. (… ) Questa è la vera posta in gioco da considerare con fermezza, senza alimentare il contrappunto di paure infondate di radicali e conservatori e ricordando sempre l’art. 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

LIBRI

Costantini, Anche le pulci prendono la tosse, Ed Solferino, pagg 272 —- Raymond il poliziotto, Beatrice l’infermiera, Salvatore il piccolo imprenditore e Regina l’insegnante entrano nel tunnel del coronavirus con tutti gli altri, alla fine di febbraio a Adeago, in una provincia che non viene nominata, ma traspare come Bergamo per il tifo conclamato all’Atalanta e altro. Ci entrano con le loro vecchie paure, frustrazioni, amori perduti e sconfitte, e con un carico di umana miseria. Ma il virus non è solo un vento di morte, è anche un formidabile acceleratore di destini. E i loro deflagrano. Dalle feste per le vittorie della dea si passa al deserto e poi al terribile corteo delle bare nei camion militari, e le storie dei quattro protagonisti si intrecciano e si coagulano intorno al vergognoso business delle mascherine finanziato da veri malviventi, alcuni con la pistola, ma i peggiori in giacca e cravatta. Nel momento più buio, uomini e donne che pensavano di non avere più niente da chiedere o da perdere si troveranno di fronte l’occasione per riscattare una vita spenta. Una storia d’amore e di dolore, in cui si ride e si piange disperatamente, che parla del nostro tempo, delle nostre scelte, della possibilità di capovolgere il proprio futuro. Un noir grottesco e travolgente, che descrive e ci descrive in questa prima fase di un fatto di cui non si può pronosticare il futuro, se non per quello che ciascuno può cambiare. (I diritti d’autore di questo libro saranno interamente devoluti a favore degli ospedali).

La barzelletta (che non fa ridere) secondo cui don Davide Rota sfrutterebbe i migranti_ Infangato e deriso in giornali e intercettazioni il superiore del Patronato. L’accusa: con i soldi per sfamare cinquanta profughi ne aiutava trecento. 

La Procura tace sulla fuga di notizie e intanto alcuni giornali fanno a pezzi la dignità delle persone pubblicando stralci di intercettazioni. Così va a Bergamo nell’era post Covid. Niente di nuovo, si dirà. E invece di nuovo c’è che l’uso strumentale di atti giudiziari che dovrebbero essere coperti dal segreto istruttorio sta colpendo, tra gli altri, alcuni degli uomini più apprezzati della nostra città, in particolare una persona di carità come don Davide Rota, superiore del Patronato San Vincenzo. E, dispiace dirlo, quasi nessuno alza un dito per difenderlo anche di fronte alle menzogne. Domenica scorsa (28 giugno) sul quotidiano La Verità diretto da Maurizio Belpietro è apparso un articolo a firma del vicedirettore, Francesco Borgonovo, che sconcerta fin dal titolo di prima pagina: «I preti sfruttano i migranti, Gori li premia». Don Davide Rota sfrutta i migranti? In un Paese normale sarebbe una battuta che non farebbe nemmeno ridere. I giornalisti de La Verità e de Il Giornale (che ha ripreso l’articolo sul suo sito) hanno la minima idea di chi sia questo sacerdote ex missionario in Bolivia e di che cosa faccia per gli immigrati e per i bergamaschi? Hanno mai varcato il cancello di via Gavazzeni per rendersi conto di quale aiuto rappresenti per Bergamo questo “ospedale da campo” che accoglie 330 ospiti, settanta dei quali italianissimi, chiamato Patronato San Vincenzo? La Verità, nel sommario, aggiunge un altro particolare: «Il superiore del Patronato è indagato per avere lucrato sul lavoro nero degli stranieri: il sindaco di Bergamo l’aveva decorato per la sua attività coi profughi». Benché non risulti da nessuna parte che don Davide Rota sia indagato (non ha ricevuto alcun avviso di garanzia), le indiscrezioni affermano che a suo carico ci sarebbe un’indagine perché avrebbe fatto lavorare senza regolare contratto alcuni ospiti. Il primo a parlarne è stato il Corriere della Sera. Va da sé che gli obiettivi delle testate giornalistiche sono diversi. L’edizione locale del Corriere è da sempre la velina della Procura di Bergamo e infatti ha pubblicato diverse indiscrezioni e intercettazioni su questa inchiesta; La Verità, invece, ha tutto l’interesse a indebolire l’immagine del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, avversario politico della Lega. In effetti, l’obiettivo ultimo dei quotidiani di area centrodestra non è “il prete che sfrutta”, ma Gori che lo premia. Ma per colpire quest’ultimo non si fanno scrupoli. E la magistratura, in mezzo a queste fughe di notizie e di intercettazioni, che cosa dice? Niente, come se lo scempio delle persone non la riguardasse, come se le informative in mano ai giornali fossero piovute dal cielo e le indagini le stesse facendo qualcun altro.  di Ettore Ongis, da Prima Bergamo, 3 Luglio 2020

Non siamo migliori lettera di Bose

 Cari amici, ospiti e voi che ci seguite da lontano,

a testimonianza dei legami fraterni che ci uniscono in diversi modi, in queste ultime settimane molti di voi ci hanno chiesto – con discrezione e rispetto, insistenza e preoccupazione, sconcerto o qualcuno perfino con rabbia – una parola sulla vicenda che ha coinvolto la Comunità e che è causa di molte e profonde sofferenze. Siamo rimasti in silenzio attendendo un certo tempo per non ferire ulteriormente le persone e dire una parola di pace e chiarezza, nella responsabilità che avvertiamo di rendere conto sia della speranza che è in noi, sia dello scandalo suscitato in tanti cristiani e persone che ci seguono…

Innanzitutto vi ringraziamo per la vicinanza che ci avete mostrato con messaggi, telefonate e visite, per la preghiera con la quale ci state accompagnando, per l’amicizia che, pur messa alla prova dagli eventi, non è venuta meno. E poi vogliamo chiedervi perdono per lo scandalo che abbiamo suscitato e per la contro-testimonianza che abbiamo dato.

Ma affinché questa gratitudine e questa richiesta di perdono non suonino come vuota retorica, vorremmo aiutarvi e aiutarci reciprocamente a capire più in profondità sia le sofferenze che stiamo attraversando e delle quali vi abbiamo reso partecipi, sia le speranze che nutriamo per il cammino che ci attende.

La visita apostolica è stata avviata dalla Santa Sede, a partire da diverse segnalazioni circa profonde sofferenze nella vita fraterna a Bose e dopo averne verificato la fondatezza. La Comunità ha accolto la visita in obbedienza, come segno di attenzione paterna da parte di papa Francesco e come aiuto a discernere le cause profonde di un grave malessere relativo “all’esercizio dell’autorità, la gestione del governo e il clima fraterno” a Bose.

La scelta delle persone incaricate di tale compito delicato è stata segno di un’attenzione alla nostra peculiare natura di comunità monastica di fratelli e sorelle, costitutiva del nostro vissuto fin dalle origini: oltre a un religioso esperto anche di problematiche attinenti alle relazioni umane (p. Amedeo Cencini), sono infatti stati chiamati a questo servizio un abate benedettino (p. Guillermo Arboleda) e una badessa trappista (m. Anne-Emmanuelle Devêche). La presenza di quest’ultima, che con p. Michel Van Parys aveva condotto una precedente visita alla comunità, garantiva inoltre la possibilità di far tesoro anche di quanto visto e ascoltato in quell’occasione. La visita del 2014 – la prima dopo quasi 50 anni di vita monastica a Bose – era stata di altra natura: l’allora priore fr. Enzo aveva chiamato un abate e una badessa di sua fiducia, che già conoscevano bene i fratelli e le sorelle di Bose, ritenendoli le persone più indicate a favorire un proficuo cammino comunitario verso il cambio di priore. Si trattò di una visita fraterna che poteva dare consigli e suggerimenti, ma senza potere di intervento reale. Alcune criticità erano emerse, ma queste non avevano impedito il percorso culminato con le dimissioni di fr. Enzo, da lui stesso annunciate da tempo, e l’elezione di fr. Luciano da parte della Comunità, secondo le modalità disposte dal nostro Statuto.

Così, tra dicembre dello scorso anno e l’Epifania di quest’anno, seppure non in modo continuativo, i visitatori inviati questa volta dalla Santa Sede hanno potuto ascoltare lungamente e anche a più riprese tutti i fratelli e le sorelle, sia residenti a Bose che nelle diverse Fraternità, e raccoglierne anche le testimonianze scritte. Al termine, come era stato loro richiesto, hanno sottoposto la loro relazione finale alla Santa Sede, che l’ha vagliata in un arco di tempo di quattro mesi, presumibilmente verificandone sia la fondatezza che l’esaustività, ritenendo gli elementi raccolti necessari e sufficienti alla stesura di una lettera al priore e alla Comunità e all’emanazione di un “decreto singolare, approvato dal Santo Padre in forma specifica”, contenenti una serie di indicazioni e disposizioni che riguardano la prima l’insieme della Comunità, il secondo il fondatore fr. Enzo, due altri monaci e una monaca. Per notificare il decreto e avviarne l’esecuzione, la Santa Sede ha nominato p. Amedeo Cencini delegato pontificio con pieni poteri, non “commissario”: non ha ritenuto cioè di dover esautorare il priore fr. Luciano legittimamente eletto nel 2017 – e riconfermato dalla Comunità due anni dopo, come richiesto dallo Statuto – bensì di sostenerlo nel suo ministero di presidenza all’unità della Comunità. Unità che i visitatori avevano constatato essere seriamente compromessa, vedendo la profonda sofferenza quotidiana, lo sconforto e la demotivazione suscitati in molti fratelli e sorelle.

Le disposizioni che hanno suscitato maggior impatto sia in Comunità che tra gli amici e presso l’opinione pubblica sono state indubbiamente la richiesta a fr. Enzo e ad altri tre membri di allontanarsi dalla Comunità e dalle Fraternità, restando fratelli e sorelle di Bose, per vivere per un certo tempo ciascuno in un luogo diverso, non necessariamente monastico. Nessuna espulsione, quindi, nessuna cacciata, ma un allontanamento temporaneo di alcuni membri della Comunità che ad essa continuano ad appartenere. Le motivazioni specifiche di questa parte del provvedimento sono state comunicate dal delegato pontificio in forma riservata a ciascuno dei fratelli e alla sorella implicati nei provvedimenti. Queste disposizioni non riguardano assolutamente questioni di ortodossia dottrinale: non vi è per loro nessun divieto di esercitare il ministero monastico di ascolto, di accompagnamento, di predicazione, di studio, di insegnamento, di pubblicazione, di ricerca biblica, teologica, patristica, spirituale…

Quanto invece alle disposizioni che riguardano l’insieme della Comunità, esse sono state comunicate a tutti i membri della Comunità, attraverso una lettera del cardinale Segretario di Stato + Pietro Parolin al priore fr. Luciano, che indica anche un cammino da intraprendere per garantire la permanenza e lo sviluppo del carisma fondativo di Bose negli anni a venire, con espliciti e reiterati riferimenti alle nostre peculiarità più preziose: la scelta della vita monastica nel celibato e nella vita comune, la presenza di fratelli e sorelle in un’unica comunità, la composizione ecumenica dei suoi membri e il suo prodigarsi nel movimento ecumenico: un ecumenismo, quindi, non solo spirituale o di intenti, ma di concreta vita comune quotidiana tra fratelli e sorelle appartenenti a Chiese cristiane diverse.

Come leggere con gli occhi della fede questo evento della visita apostolica e delle sue conclusioni, rivelatosi da un lato necessario e, d’altro lato, fonte di sconcerto e di ulteriori sofferenze anche tra di noi fratelli e sorelle di Bose? Crediamo che la risposta non la si possa trovare nell’attribuire colpe e responsabilità agli uni o agli altri, bensì nella lucida constatazione che “non siamo migliori” e che il Divisore non ci ha risparmiato e noi non abbiamo saputo fronteggiarlo con sufficiente fede, speranza e carità. Sì, “non siamo migliori” non è solamente un adagio che fr. Enzo ha coniato fin dai primi anni della nostra vita a Bose, riprendendolo anche come titolo di un suo libro sulla vita monastica. È invece una realtà che noi da sempre tocchiamo con mano e di cui ora anche voi, amici e ospiti, vi rendete conto con sofferenza. Anche questa crisi che ora è esplosa in modo manifesto, e per tanti di voi in maniera assolutamente inaspettata, ha in verità radici più lontane.

Anche in questo doloroso frangente della nostra storia cerchiamo di proseguire quotidianamente nella nostra vita di preghiera, di lavoro e di ospitalità, come molti di voi l’hanno conosciuta in tutti questi anni, pur dovendo fare i conti con le conseguenze della pandemia e con la rimodulazione della Comunità successiva agli esiti della visita. Possiamo farlo solo invocando la misericordia del Signore e il suo perdono, che passa attraverso il perdono che sapremo offrirci gli uni gli altri. Vi chiediamo di continuare a pregare per noi, affinché tutti noi – a Bose, nelle Fraternità e negli altri luoghi in cui ci troviamo a vivere – possiamo continuare a cercare di essere discepoli di Cristo, possiamo ricominciare un cammino di conversione e di sequela del Signore, possiamo ascoltare e mettere in pratica ogni giorno il Vangelo: solo così la nostra testimonianza potrà essere credibile e potremo, anche assieme a voi, tratteggiare qualche lineamento del volto del Signore Gesù, così da renderlo visibile e amabile ai nostri fratelli e alle nostre sorelle in umanità.

I fratelli e le sorelle di Bose – Bose, 19 giugno 2020 – San Romualdo, monaco

 

La Chiesa in entrata e in uscita … torneremo nelle nostre Chiese …

2. Tra qualche giorno, dunque, nelle Chiese italiane si potrà tornare a celebrare l’Eucaristia con la partecipazione dei fedeli… Si tornerà a celebrare le Messe ma come? Di certo garantendo  il distanziamento sociale, l’afflusso controllato, non oltre un certo numero di persone e tutta una serie di altre regole sui dispositivi di protezione individuale e l’igienizzazione degli ambienti per prevenire nuove occasioni per la diffusione dell’epidemia (rispettando il protocollo firmato dal governo italiano e dalla Cei per le celebrazioni con il popolo).    >>>   Ma forse – al di là dei protocolli  la vera sfida è ripensare alle celebrazioni eucaristiche come comunità. Andando oltre la logica del «tutti o nessuno» o del ritornare semplicemente al passato.   >>>   Alcune evidenze e interrogativi possono rappresentare spunti di confronto e riflessione:   >>>   Le messe dei giorni feriali non dovrebbero rappresentare un grande problema in quanto la scarsa presenza è già di per sé distanziamento sociale quasi sufficiente. In questo caso bisognerà evitare i crocicchi di nonnine e anziani che abitualmente dopo o prima della messa si creano per avere le ultime news sui morti o su altri fatti/pettegolezzi del paese.   >>>   Per le messe della domenica la questione è più complessa. Dovremo infatti abituarci almeno per molti mesi ad una messa di comunità che non sarà più come prima (coro , cantori, libretti , presenza massiccia dei ragazzi e delle famiglie)   >>>   Se non potremo esserci tutti , allora chi entra? Useremo il criterio “chi ultimo arriva male alloggia”, si prenoterà la partecipazione fino ad esaurimento capienza?   >>>    Raggiunto il limite di capienza …. Cosa fare si chiudono le porte??… se è Gesù che ci invita alla celebrazione … non è certamente piacevole dire ad un invitato “ ritorna a casa oppure “ “prova alla prossima”, oppure trovare le porte chiuse.   >>>   Molti sacerdoti hanno pensato che avvicinandosi l’estate una soluzione potrebbe essere … la celebrazione all’aperto … molta più capienza e meno problemi di contagi e sanificazione . Ottima idea ma solo per qualche mese.   >>>   Molti di noi hanno scoperto che si sta bene anche in casa, con quasi tutto a nostra disposizione, senza grosse fatiche nel cercare  … ed è comodo mettersi sul divano e “vedere” “ascoltare” la messa, più faticoso, alzarsi la domenica, vestirsi, portare i figli al catechismo e poi andare a messa e poi …   >>>     Anche per i sacerdoti … non avere due o tre messe da celebrare, magari a distanza di poco tempo e in luoghi disparati con la preoccupazione di non arrivare in tempo … è molto più comodo … si ha più tempo per la preghiera e la riflessione personale.   >>>   A qualcuno sembrerà di celebrare in una sorta di “sala operatoria” ma non è forse l’immagine “profetica” di Chiesa “ospedale da campo” tanto cara a Papa Francesco e vissuta in questi mesi, che continua?   >>>   Alla luce di quanto sopra sarebbe bello e giusto che sacerdoti e laici si confrontassero sul come ripartire dopo questa terribile esperienza COVID 19 … anche questo è un modo per vivere la comunità e fare che la vita entri nella fede e la fede si trasfiguri, si purifichi con la vita.     Claudio C

  1. Il ritorno alle celebrazioni comunitarie. Non una consuetudine da riprendere, ma una rinascita da vivere con una motivazione più convinta e modalità che aiutino davvero a ritrovare nell’Eucaristia «la fonte e il culmine» della vita cristiana >>> Nonostante le difficoltà sarà piacevole comunque rivedere tanti volti, tante storie, e magari un po’ triste notare l’assenza di qualcuno che era sempre presente e ora non c’è più. >>>  Riprenderemo il nostro cammino di fede attraverso la sua Parola, non più ascoltata a distanza, ma in diretta con pieno coinvolgimento  comunitario e condiviso del nostro corpo, per essere “corpo di Cristo” che brucia gli argini della solitudine e dell’isolamento a cui ci siamo obbligati negli ultimi mesi. >>>  Grande gioia deve essere La Parola e l’eucarestia consumata, ricevuta, vissuta non più solo spiritualmente ma mangiando e masticando la presenza di nostro Signore, per essere sempre più simili a Lui (alla faccia dei cristiani tiepidi e legati al solo precetto festivo). >>> La Parola e l’Eucarestia che si riappropriano di due spazi a loro connaturali, la Chiesa e la strada (Chiesa, la casa del Signore – la strada uno dei luoghi dove ha più vissuto Gesù  – quanto tempo Gesù ha percorso sulle  strade di Galilea e Giudea …).  >>> Di messe “sterilizzate”,  televisive ne abbiamo ascoltate tante nelle scorse settimane, prima ancora di indossare guanti e mascherine; adesso abbiamo bisogno di sacramenti che ci ridonino vita. Per davvero. Di celebrazioni vive, sobrie, ma curate e piene di vita. >>> L’Eucaristia non sarà mai un servizio a gettone, ma vive dentro una comunità che trasmette la fede. Non saremo tutti lì presenti forse, ma saremo lo stesso Chiesa che riparte dal Mistero di quel Pane. E guarda al futuro. >>> Servirà un certo stile e della finezza e molta carità pastorale per evitare che si stabilisca un’analogia tra l’andare in Chiesa e il recarsi a fare la spesa al “supermercato” a numero chiuso e in fila, considerando l’estrema varietà dei nostri parrocchiani. >>> “Andiamo” a messa, come siamo soliti dire, non per rispondere distrattamente a una consuetudine, ma perché avvertiamo forte e sincero il desiderio di incontrare il Signore, di celebrare il Suo Amore insieme ai fratelli che sono parte viva della nostra umanità. >>>  Abbiamo tutti conosciuto il vero silenzio nella Pandemia, a volte ci ha impaurito, ma quando siamo riusciti ad affidarci siamo riusciti ad ascoltare suoni che avevamo perso . Nel nostro nuovo modo di celebrare ci sia ancora più spazio ai momenti di silenzio per interiorizzare meglio la Parola. >>> Torneremo spettatori o come protagonisti con tutti i nostri sensi, di un mistero grande?? >>> Torneremo nelle nostre Chiese grati ai nostri pastori che in questo tempo di pandemia hanno messo in gioco tanta creatività pastorale (a volte  con qualche eccesso pittoresco di fantasia) per non lasciarci soli e per sostenere le nostre comunità in un tempo di sofferenza, di fatica e di paura. >>> Torneremo nelle nostre chiese notando qualche posto vuoto. Lì era solito sedersi un nostro familiare , un nostro amico che ora è volato in Cielo. Il ricordo ci aiuterà a vivere, nella speranza, la comunione con quanti i nostri occhi non vedono più. >>> Questo stesso ricordo risveglierà in noi il senso del limite e il ricordo che l’esistenza terrena è un cammino verso quel posto che il Signore Gesù ha preparato per i suoi discepoli.   >>>   Se questo sarà il nostro atteggiamento, potremo dire: nulla è come prima.

13 Maggio 2020                                                                                                                             Claudio C

13 maggio,

Madonna di Fatima

sub tuum praesidium …

 

È madre (festa della mamma)

È madre chi sa fare spazio. Chi si fa concava e convessa senza reticenza. Chi pulisce lacrime a suon di bacini.
È madre chi sa aprire varchi, costruire ponti, inventarsi percorsi. Chi sa scalare montagne a mani nude, posare un cucciolo, poi scendere di corsa e risalire per portarne un altro.
È madre chi accoglie senza distinzione di colore, sesso e di religione.
È madre chi porta in salvo.
È madre chi parla ai figli degli altri come fossero suoi. Chi semina parole di coraggio e sostegno. Chi, ogni giorno, unisce e tesse fili di riconciliazione. Chi protegge tutti i cuccioli come se le appartenessero.
È madre chi aiuta le altri madri e le sorregge quando non ce la fanno.
È madre chi sa guardare oltre la disabilità, l’estraneità, il sangue che non le appartiene, chi fornisce seconde e terze possibilità. Chi rende semplice ciò che è complesso, come l’amore gli uni per gli altri. Chi dà fiducia e non perde mai la speranza di riuscire laddove risiede l’impossibile. Chi intraprende viaggi lunghi per amare il figlio di un’altra. Chi intraprendere viaggi dolorosi per riportare a casa un figlio.
È madre chi lascia la porta aperta anche se non viene oltrepassata da tempo. Chi tiene una lucina accesa per far ritrovare la strada di casa.
È madre chi, a volte, ha paura. Chi lascia spazio ad altre madri e non detiene il primato dell’amore.
È madre chi ama i figli delle altre donne, si fa schiena a cui aggrapparsi e confine con cui definirsi.
Sì è madri sempre, anche quando quel figlio non ci piace, si perde o non c’è più.
È madre chi nella propria casa e in luoghi lontani si fa rifugio per ogni figlio del mondo.
È madre non solo chi è madre.
Essere madre è una condizione, uno stato e non ha a che fare solo con la nascita di un figlio, spesso, ha a che fare con la capacità di prendersi cura dei figli di tutti.
È madre chi protegge quel futuro, in ogni dove, in ogni istante, in ogni occasione.
E non può solo riguardare l’amore verso i propri figli. E non deve.
È madre chi spinge l’umanità.
Madre non si nasce, lo si diventa.                    (Penny)

A Napoli e Johannesburg, in tempo di covid 19, la fame

Il missionario africano: «Da alcune settimane il governo ha imposto la quarantena e le persone abituate ogni giorno a uscire per procurarsi il cibo si sono ritrovate senza alcun sostentamento per sé e per i famigliari. Qui la disperazione si tocca con mano. Al mio numero personale ricevo quasi tutti i giorni messaggi di ragazzi lavoratori immigrati, disperati, senza niente da mangiare. Alcuni di loro sono l’unica risorsa economica per la loro famiglia che vive in altri Paesi africani. Tra questi, sono moltissimi i mozambicani vittime dello sfruttamento qui in Sudafrica». La situazione descritta all’Agenzia fides dal missionario scalabriniano Pablo Velasquez rivela tutto il dramma delle periferie di Johannesburg, dove vivono gli immigrati e i sudafricani più poveri. Le restrizioni governative per far fronte alla diffusione del coronavirus impediscono loro di procurarsi il cibo, in quanto abituati a vivere alla giornata. Per questo, alla porta della parrocchia di Saint Patrick arrivano anche duecento persone al giorno per avere una borsa con i prodotti alimentari di base per una famiglia. Sono soprattutto immigrati africani, che non sono inclusi nei programmi di aiuto del governo sudafricano. Essi sono costretti dalla fame a rompere le misure restrittive imposte dalle autorità e, così, cresce la tensione. Pablo e i suoi confratelli scalabriniani, però, stanno iniziando a fare fatica a trovare il cibo necessario con le proprie risorse, derivanti soprattutto dalle donazioni dei parrocchiani durante la Quaresima. Ormai, tra le persone in coda davanti alla parrocchia si è arrivati a dire: “meglio morire di coronavirus che di fame”. «Abbiamo sentito spesso pronunciare questa frase. L’altro giorno alcuni l’hanno pronunciata anche di fronte agli agenti della polizia che erano venuti a disperdere la fila di fronte alla nostra chiesa. All’inizio anche noi religiosi temevamo di essere contagiati. Di fronte alla disperazione di questa gente abbiamo ripensato alle parole di Gesù: “Non abbiate paura, sono io…”. Così, pur rispettando le misure imposte dal governo, tendiamo una mano a chiunque ci chieda aiuto».

Il parroco di Napoli: «C’era anche chi mangiava solo passata di pomodoro» – «Abbiamo iniziato con gli anziani ammalati che vivono da soli, poi siamo venuti in contatto con tante famiglie che nell’emergenza covid19 si sono trovate senza nulla, c’era chi mangiava passate di pomodoro, perché avevano solo quelle». Così padre Michele Madonna, parroco di Santa Maria di Montesanto a Napoli, racconta del bisogno a cui la parrocchia sta rispondendo nel quartiere nel cuore di Napoli, arrivando a mille pacchi spesa al giorno. «Ci siamo riusciti – racconta il parroco – grazie alla generosità del quartiere. Avevamo cominciano con i fondi della parrocchia ma poi ci sono arrivati sostegni economici da tantissimi napoletani che abitano nella zona. Per la distribuzione non abbiamo problemi, perché tanti giovani hanno fatto un cammino spirituale che permette loro di andare oltre la paura. E così le spese giornaliere sono salite a 300, poi a 600 e ora siamo a mille».

25 aprile: i preti della Resistenza a Bergamo

Preti sociali da sempre accanto al popolo e ai suoi bisogni. Poi, durante fascismo, guerra e Resistenza, nascono i preti partigiani e resistenziali. Durante il ventennio fascista, la Chiesa bergamasca cercò di evitare lo scontro frontale, ma parallelamente catalizzò tutte le energie per contrastare la concezione totalizzante del regime. Nei suoi studi quando era docente di Storia ecclesiastica, monsignor Roberto Amadei affermò che la Chiesa di Bergamo era riuscita a raggiungere egregiamente questi obiettivi. Questa tesi è ulteriormente avvalorata dai contenuti del volume che già dal titolo dice tutto: «“Ho fatto il prete”. Il clero di Bergamo durante l’occupazione tedesca (settembre 1943-aprile 1945», promosso da Diocesi di Bergamo, Anpi provinciale e Centro Studi Valle Imagna, editore del volume (500 pagine). Frutto di due anni di ricerche meticolose, è stato scritto da Barbara Curtarelli, ricercatrice storica bergamasca, che ha portato alla luce tante microstorie dei preti oppositori che hanno rischiato la propria vita, salvato persone dalla fucilazione, aiutato o mediato. L’autrice ha indagato su numerosi preti, ma anche religiose, di cui ha trovato documentazione in archivi o in altre pubblicazioni, ma il loro numero è più elevato. Il volume riporta anche una frase assai significativa di monsignor Agostino Vismara, presidente dell’Opera Bonomelli: «Chi vive in continua comunione col popolo non può estraniarsi nei momenti di maggiore pericolo e proprio quando sono in gioco i presupposti di ogni possibile vita civile: il pane e la libertà. La resistenza quindi contro l’ingiusta ed inumana esperienza fascista trovò all’opposizione più ostinata tutta la parte più sana del popolo e il clero che vive continuamente in mezzo al popolo». Nel volume emerge che opposizione del clero e la partecipazione alla Resistenza hanno radici lontane. «Possiamo affermare che i sacerdoti sociali dei decenni precedenti sono diventati preti partigiani — sottolinea monsignor Goffredo Zanchi —. Il clero bergamasco era molto vicino al popolo perché in maggioranza proveniva dal mondo rurale, con la capacità di comprenderne cultura, ansie, attese, paure. Proprio per questo nella quasi totalità il clero bergamasco manifestò, più o meno apertamente, la propria ostilità verso il regime. È stato monsignor Roberto Amadei ad aprire le ricerche storiche su questo periodo, che nel tempo si sono arricchite di altri preziosi contributi». Due i motivi principali su cui si fondava l’opposizione. «Innanzitutto per motivi religiosi e morali, per esempio la lotta contro l’Azione cattolica, le leggi razziali e la pessima condotta religioso-morale di molti fascisti. Poi per motivi di credo politico, soprattutto nei preti che avevano accolto il Partito Popolare di don Sturzo. Le indagini recenti dicono che il numero di questi ultimi sia assai più elevato di quanto si pensasse. Per cui — conclude monsignor Zanchi — come dice il titolo del volume, essere prete era anche condividere gli ideali di libertà del popolo, anche se questa condivisione non aveva sempre una motivazione politica. Il risultato fu che il già saldo legame clero-popolo divenne ancora più forte. E i preti apertamente fascisti furono una piccola minoranza».

Ravasi, dopo il trauma è il tempo della rinascita, intervista di Paolo Rodari

Lo raggiungiamo al telefono, una mattina di lavoro nel suo “ministero” vaticano dedicato alla cultura. Settantasette anni, il cardinale Gianfranco Ravasi, biblista fra i più autorevoli al mondo, erudita sconfinato, legge con Repubblica questi giorni difficili a causa del «trauma» del coronavirus. Parla di trauma«Lo è. Come ricorda la radice indoeuropea della parola, “tro-“, che significa storcere, perforare, trauma è una ferita inflitta in profondità. Così ne parla anche il Nuovo Testamento. Non so in quale altro modo definire questi giorni».Come uscirne?«Ho letto in questi giorni un saggio di un professore di New York, David McLain Carr. S’intitola Holy resilience , la santa resilienza come chiave di lettura di tutta la Bibbia. Può avere un significato anche per noi adesso». Dobbiamo essere resilienti? «Prima dobbiamo capire cosa è resilienza. Viene dal latino resilire , che significa rimbalzare. È un termine spesso usato per indicare un metallo che assorbe un colpo senza rompersi. Speranza e resilienza , hanno scritto Dan Short e Consuelo Casula, mettendo in pagina quel processo cognitivo ed emotivo che rielabora perdita e traumi superandoli. Ricostruendo un impianto personale emerge una interiorità grande che non si sospettava di avere. Ecco forse è questa la chiave utile per noi». La storia può aiutare? «Dopo il peccato adamico c’è Abramo, dopo il diluvio c’è una nuova umanità, la Pasqua ebraica celebra la liberazione dalla schiavitù egiziana, dopo la crocifissione di Cristo c’è la risurrezione e la missione degli apostoli che dicono che la morte non è l’estuario definitivo. Scrisse Mario Luzi, “Il bulbo della speranza / che ora è occultato sotto il suolo / ingombro di macerie / non muoia, / in attesa di fiorire alla prima primavera”. Questi segni di rinascita sono possibilità generate dal trauma». Cosa dice ancora questo trauma? «Che la scienza ha mostrato i suoi limiti. Ha compreso che non basta a sé stessa, che non riesce a spiegare tutto. Ci sono anche altre forme di conoscenza, ad esempio la poesia, la musica, l’amore e anche la fede». Poi? «La nostra scala dei valori è precipitata. Il denaro, il successo, il potere non bastano più, si comprende bene come i valori siano altri». C’è valore nello stare chiusi in casa? «Lo stare in casa può essere una fatica. So di donne che proprio in questi giorni subiscono da parte dei loro compagni violenze terribili, esacerbate proprio dall’essere costrette entro le mura domestiche. Ma nello stesso tempo in questa reclusione c’è anche del positivo perché si può riscoprire il gusto delle relazioni non solo virtuali. Per troppo tempo siamo usciti al mattino per rientrare alla sera e terminare le nostre giornate davanti alla tv. Questi giorni ci offrono qualcosa di diverso». Cosa ancora? «Ci accorgiamo solo oggi di come eravamo caduti nella superficialità. Quante cose inutili: oggi invece possiamo essere diversi, e trovare addirittura il coraggio di parlare ai nostri bambini della morte. La morte ora è davanti a noi. Prima l’unica esperienza di morte che facevamo era quella che ci colpiva quando mancavano i nostri cari». I credenti cosa possono imparare? «Direi che stanno imparando che la fede è anche protesta, alzare la domanda a Dio che fu di Giobbe e di Cristo: dove sei? Perché mi hai abbandonato?» La letteratura può venirci in soccorso? «Ci sono quattro romanzi per me decisivi in questi giorni. Anzitutto La peste di Camus. Un non credente s’interroga sulle credenze umane e anche sul silenzio di Dio. Si può mai credere in un Dio che lascia morire un bambino? Poi i Promessi Sposi di Manzoni, e insieme a La città dolente di Axel Munthe, uno svedese che nel 1884 venne a Napoli per curare le vittime del colera. E, infine , L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez. Dovrebbero essere letture imprescindibili oggi». Cosa la colpisce ancora di quanto sta accadendo? «Io sono vecchio, eppure non so se avrei il coraggio di andare volontario a curare i malati. Alla fine andrei, lo so, ma di per sé non ne avrei il coraggio. Per questo la mia ammirazione per i medici e gli infermieri che hanno perso la vita in questi giorni è enorme. Queste persone hanno adempiuto la legge dell’amore esternata da Gesù nell’ultima cena: non c’è amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici. Da loro ci viene una grande lezione, la lezione di una resilienza che si trasforma. Diceva Pascal che l’uomo supera infinitamente l’uomo». La politica come le sembra? «Abbiamo bisogno di una politica che superi l’egoismo. L’uomo, del resto, lavora, agisce, ma giunto alla fine della sua giornata è ancora incompleto. Ha bisogno della relazione, di qualcuno che gli stia di fronte occhi negli occhi. La politica deve amare l’umanità e non fare come Mafalda di Charles M. Schulz che diceva: “Io amo l’umanità, è il vicino di casa che detesto”». Cosa ancora non va? «Ci sono tre grandi sofferenze oggi: la corruzione che si vede anche nel fatto che in questi giorni alcuni benestanti hanno chiesto comunque 600 euro al governo. Voglio dirlo: questo è peccato. Poi peccato grave resta l’evasione fiscale. Paolo nella Lettera ai romani chiede di pagare le tasse a Cesare che, è giusto ricordarlo, a quel tempo era Nerone. Infine c’è la sofferenza data dalle diseguaglianze sociali che emergono sempre più. Forse la crisi della politica si risolverebbe permettendo alle donne di accedere ai posti di potere. Le donne hanno generato. Prima di uccidere, di distruggere, ci pensano due volte. Hanno caratteristiche che noi uomini non abbiamo». Accanto alla politica cosa serve? «È importane che ritorni la religione, il ruolo della religione nella società. C’è il Papa a cui guardare che fa vedere la vulnerabilità e chiede sguardi alti, che trascendono. E chiede la morte dei fondamentalismi e degli egoismi. E poi la cultura, che è muta. Pensi che faccio fatica a trovare per il Cortile dei gentili voci di atei che abbiano una visione alternativa e che non sia legata alla malattia della superficialità. Almeno fino all’avvento del coronavirus era tutto grigio, vivevamo come nella nebbia. Un tempo non era così. Nell’ 800 avevamo il pessimismo di Leopardi insieme a Dostoevskij che entrava nelle profondità del male elevandosi poi verso il bene. E Manzoni. E ancora la grande poesia. Nel ‘900 c’erano Ungaretti, Mario Luzi, Turoldo, Montale con la sua nostalgia del credere, eguagliata in un certo senso da una frase di García Márquez quando disse: “Sfortunatamente Dio non ha nessuno spazio nella mia vita, ma spero, se esiste, di avere io spazio nella sua”». Se dovesse suggerire come iniziare queste giornate cosa direbbe? «Proverei a iniziarle con la Bibbia: lo sa che per esattamente 365 volte ricorre l’espressione “non temere”? Per un anno si potrebbe ogni mattina fare propria una di queste espressioni, come una sorta di “buon giorno” da parte di Dio».preghiera per il tempo della prova

O beatissimo Egidio, tu che i pellegrini del Camino di Santiago hanno sperimentato come il più sollecito di tutti i Santi a giungere in soccorso dei bisognosi, dei tribolati e degli afflitti che a te si rivolgono, guarda alle nostre presenti necessità: non ci rallentino nel cammino della carità, non ci deviino dai sentieri della giustizia, ma ci aiutino a confermarci sempre più nella fiducia: del Padre, che ci ha sempre nelle sue mani, del Figlio che si è dato per salvarci, e dello Spirito d’amore che scalda i nostri cuori e dirige i nostri passi nelle freddezze della vita. Amen

Una favola africana, della serie ciascuno faccia il suo

Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all’avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà. Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l’incendio stava per arrivare anche lì. Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d’acqua, incurante del gran caldo, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento. Il colibrì, però, non si perse d’animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d’acqua che lasciava cadere sulle fiamme. La cosa non passò inosservata e ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: “Cosa stai facendo?”. L’uccellino gli rispose: “Cerco di spegnere l’incendio!”. Il leone si mise a ridere: “Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?” e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. Ma l’uccellino, incurante delle risate e delle critiche, si gettò nuovamente nel fiume per raccogliere un’altra goccia d’acqua. A quella vista un elefantino, che fino a quel momento era rimasto al riparo tra le zampe della madre, immerse la sua proboscide nel fiume e, dopo aver aspirato quanta più acqua possibile, la spruzzò su un cespuglio che stava ormai per essere divorato dal fuoco. Anche un giovane pellicano, lasciati i suoi genitori al centro del fiume, si riempì il grande becco d’acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata su di un albero minacciato dalle fiamme. Contagiati da quegli esempi, tutti i cuccioli d’animale si prodigarono insieme per spegnere l’incendio che ormai aveva raggiunto le rive del fiume. Dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie, il cucciolo del leone e dell’antilope, quello della scimmia e del leopardo, quello dell’aquila dal collo bianco e della lepre lottarono fianco a fianco per fermare la corsa del fuoco.

A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono a dar manforte ai loro figli. Con l’arrivo di forze fresche, bene organizzate dal re leone, quando le ombre della sera calarono sulla savana, l’incendio poteva dirsi ormai domato. Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco. Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: “Oggi abbiamo imparato che la cosa più importante non è essere grandi e forti ma pieni di coraggio e di generosità. Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d’acqua può essere importante e che insieme si può spegnere un grande incendio. D’ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte e la fame solo un brutto ricordo”.

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani (…).Giovanni 4,5ss

 

Libri 

La presenza pura di C. Bobin, ed AnimaMundi, pagg 75È il diario di un incontro molteplice, i cui protagonisti dialogano sul piano di parità. L’Inverno, la neve e la pioggia, il vento e le foglie, un padre e un figlio che semplicemente esistono. “Nel rovescio del mondo” la casa di cura in cui il padre dell’Autore viene a poco a poco sommerso dal morbo di Alzheimer, ciascuno è ricondotto a una identità essenziale, primigenia. I rami spogli, nel giardino della clinica, suggeriscono che il fallimento è legittimo nel percorso di una creatura verso la luce. Il racconto di Bobin, scandito dalla virtù rara in cui lo sguardo si fa parola, senza orpelli letterari, ma conducendo alla poesia più pura, qui si fa confidenza. Ciò che in noi è ferito chiede e trova nelle opere di Bobin l’equilibrio che salva. Dove le parole generano tenerezza, cura vicinanza: quello di cui occorre a ciascuno nelle diversità delle prove a cui è chiamato dalla vita. È il fascino di una letteratura meditativa, come l’ha definito nel 2016 l’Academie Francaise. 

I santi vanno all’inferno, di Gilbert Cesbron, Mondadori 2014 ( € 18,oo,) in Amazon, prime edizioni dal 1966 (€ 10,oo)

Romanziere francese del ventesimo secolo di ispirazione cattolica, Cesbron in questo romanzo racconta dell’impegno dei preti operai nella periferia parigina. Il protagonista, Pietro, sceglie infatti attraverso la sua condizione di prete operaio di predicare il Vangelo nella banlieu parigina Sagny, un posto dimenticato che non si trova neanche sulla cartina geografica di Parigi. L’autore usa un linguaggio molto efficace per descrivere la rassegnazione delle famiglie che vivevano in periferia. Si veda, ad esempio, la disperazione di Paoletta, che pensa di abortire perché non può sfamare un altro figlio. Un bel romanzo, che parla di qualcosa che non c’è più, non solo i preti operai, ma gli operai veri e propri. E non c’è più la lotta di classe, il comunismo etc. Eppure è un romanzo molto attuale se pensiamo al tema delle periferie e dei suoi problemi. La periferia come un luogo da evangelizzare, per umanizzarla. Ma anche un luogo che può aiutare cristiani tiepidi, o da salotto come li ha definiti Papa Francesco, a vivere la forza rivoluzionaria del messaggio cristiano La periferia non come un problema ma una risorsa. Il luogo geografico e umano da cui ripartire per costruire un mondo più giusto. Per finire, non ci vedo la lotta tra i bravi cristiani e la chiesa cattiva. No. È tutta la chiesa che è così, non ci sono buoni e i cattivi. Si vive insieme, si sbaglia e ci si aiuta, e si prega perché il signore illumini tutti. D’altronde il cardinal Suhard, anche personaggio del romanzo, non dovrebbe rappresentare l’istituzione cattiva? E invece no. – un libro da leggere o da rileggere –

Cinema

 Sorry We Missed You prende il titolo dalla frase standard stampigliata sugli avvisi lasciati dai corrieri ai destinatari dei pacchi in consegna che non hanno trovato in casa. In questo suo nuovo film, infatti, Loach racconta per l’ennesima volta le fatiche dei lavoratori più umili: che, in questo caso, sono appunto corrieri schiavizzati e costretti tour de force impensabili per rispettare scadenze, orari e numero di consegne imposte loro dai datori di lavoro e dalle leggi spietate dell’e-commerce, che comporta dinamiche pratiche e umane spesso invisibili e non considerate da coloro che acquistano con un click dai loro computer e dai loro smartphone. Nè Verga nè Dickens saprebbero raccontare la bolla del ” lavoro fluido”, del precariato travestito da lavoro autonomo 3.0 , meglio dello spietato Ken Loach di oggi. Dopo averci regalato lacrime e magoni con il sublime Daniel Blake ,che ci ha introdotti al mondo dei navigator e del sussidio di disoccupazione (id est reddito di cittadinanza) , Ken ci presenta la realtà vera della Gig economy, quella dell’ e-commerce che tutti ci attrae nel suo magico giro misterico. Belli gli acquisti on line, bello il fattorino che ci recapita l’agognato pacchetto, meno bello il sistema implacabile che strangola lentamente i “padroncini ” che coi loro furgoni si incaricano delle consegne “temporizzate”. La pellicola di Ken Loach è uno spaccato familiare che descrive ancora una volta il dramma del lavoro precario di oggi e come in ogni suo film, il microcosmo familiare è la lente per osservare meglio le derive della società inglese e di quella globale. Un film da non perdere.

Parasite, del regista Bong Joon-ho (in programmazione a Longuelo, Curno, Orio).  —  Un’opera solida, coesa e compiuta, visivamente ricercata ma sempre al servizio del tema che sceglie di mettere in scena con amara consapevolezza, spaziando tra commedia, dramma e thriller. Il regista mai come questa volta convince così tanto e profondamente. Ki-taek da una parte e Park dall’altra, è nell’incontro e contrasto tra le due famiglie che si sviluppa l’intrigante intreccio del film di Bong Joon-ho, che si sviluppa alternando con sapienza e perfetto equilibrio i generi, tra commedia, dramma e thriller. Tra i personaggi di Parasite, i Park sono ricchi, puliti e corretti quanto i Ki-taek sono poveri e sporchi. Se da una parte ci sono individui abituati a lottare quotidianamente per tirare avanti, a improvvisare e cercare le scorciatoie necessarie per arrivare a qualcosa di concreto, dall’altra i Park fanno capo al dirigente di una importante azienda informatica, sono abituati a essere serviti, a pagare lautamente per ogni propria esigenza, dalla governante all’autista e le lezioni di inglese e arte per i propri giovanissimi figli. Due facce della polarizzante medaglia che è il contesto sociale della Corea del Sud. Noi l’abbiamo visto un mese fa. Splendido per chi ama film da generi compositi, dalla commedia che fa sbottare in risate al dramma che chiama se non lacrime una accentuata commozione, e al giallo che mette in tensione. In questi giorni, dopo l’Oscar, è ritornato in programmazione a Bergamo e Milano: non lasciarselo sfuggire.

SPeS: Speranza Passione e Sentimento del vivere 

Mostra pittorica di Mario Giudici – Sospese tra le arcate della Chiesa Abbaziale, tredici tele raccontano trepidazione e lacerazione di un Papa dall’educazione ecclesiale ottocentesca alla svolta epocale di un Concilio. In una seconda sezione, ospitata nella chiesetta accanto all’Abbazia, una serie di tele che raccontano paesaggi “febbrili, da cui emergono soprattutto alcune figure con irresistibile impeto. Il toro, a rappresentare la sua forza per partecipare o per non esserne straziati … la grande nave ambigua e pericolosa, non sai se ormai arenatasi o in procinto di lasciarci”. “Il santo, figura di santità assolutamente esigente. Nulla di sentimentale. Santo profeta:: di fronte a noi appare tanto misericordioso quanto accusatore. giustizia e amore in uno. ferito in sé quando è costretto ad accusare e punire. lieto quando perdona”. (M. Cacciari)

LIBRI

Sorge, Perché il populismo fa male al popolo, ed Terrasanta, pagg 128 — L’equivoco di fondo del populismo sta nel ritenere che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo tutto intero, legittimando il comportamento trasgressivo dei leader eletti, che ambiscono a conquistare spazi di potere sempre maggiore. Occorre prendere posizione con coraggio su una serie di sintomi, espliciti indicatori di un cancro della nostra democrazia». Da questa forte provocazione prende le mosse la riflessione di un grande protagonista e testimone della storia politica italiana, che con sguardo lucido lancia un allarme sulle derive istituzionali in atto nel nostro Paese, in Europa e nell’intero Occidente. Pungolato dalle domande di Chiara Tintori, padre Sorge. Gesuita, denuncia la superficialità con cui l’attuale politica, ossessionata dal consenso, affronta problemi complessi – immigrazione, povertà, disoccupazione – evitando di indagare, con la necessaria competenza, le radici profonde dei mali che affliggono la società italiana. L’antidoto al populismo è per i due autori un “popolarismo” moderno, certamente ancora ispirato all’Appello ai liberi e forti di don Sturzo (1919) – che con straordinaria lungimiranza aveva posto i fondamenti di una “buona politica” e di una “laicità positiva” -, ma capace di declinarsi oggi nelle nostre società multiculturali e multireligiose.

 

“La xenofobia distrugge anche il popolo di Dio” —-

Giovedì 5 settembre, durante il suo viaggio in Mozambico, Papa Francesco ha incontrato in maniera privata un gruppo di 24 gesuiti. Il colloquio è avvenuto in Nunziatura, al termine della giornata di impegni del Pontefice. All’arrivo, i gesuiti hanno applaudito Francesco, che ha chiesto ai presenti di formare un cerchio con le sedie. Il Papa ha successivamente invitato i gesuiti a porre le domande.  (La civiltà cattolica, A. Spadaro).
I poveri si fanno affascinare da alcune sètte protestanti e sperano di diventare ricchi aderendovi. Come fare affinché la nostra evangelizzazione non sia proselitismo? «Ci sono sètte che non si possono davvero definire cristiane. Predicano Cristo, sì, ma il loro messaggio non è cristiano. Nulla a che vedere con la predicazione di un luterano o di un altro cristiano evangelico serio. Questi cosiddetti “evangelici” predicano la prosperità, promettono un Vangelo che non conosce la povertà, ma cercano semplicemente di fare proseliti. È proprio quello che Gesù condanna nei farisei del suo tempo. Oggi una signora mi ha avvicinato con un giovane e una giovane. Mi è stato detto che facevano parte di un movimento un po’ fondamentalista. Mi ha detto: “Santità, vengo dal Sud Africa. Questo ragazzo era indù e si è convertito al cattolicesimo. Questa ragazza era anglicana e si è convertita al cattolicesimo”. Me lo ha detto in maniera trionfale, come se avesse fatto una battuta di caccia con il trofeo. Mi sono sentito a disagio e le ho detto: “Signora, evangelizzazione sì, proselitismo no”».Come è cambiata la sua esperienza di Dio da quando è stato eletto Papa? «Credo che la mia esperienza di Dio non sia cambiata. Resto sempre lo stesso di prima. Avverto un senso di maggiore responsabilità, senza dubbio. La mia preghiera di intercessione poi si è fatta molto più ampia di prima. Ma anche prima vivevo la preghiera di intercessione e avvertivo la responsabilità pastorale. Parlo al Signore come prima. E poi commetto gli stessi peccati di prima. L’elezione a Papa non mi ha convertito di colpo, in modo da rendermi meno peccatore. Sono e resto un peccatore. Per questo mi confesso ogni due settimane. Mi conforta molto sapere che Pietro, l’ultima volta che appare nei Vangeli, è ancora insicuro come lo era prima. Leggere dell’ipocrisia di Pietro mi conforta tanto e mi mette in guardia. Soprattutto mi aiuta a capire che non c’è alcuna magia nell’essere eletto Papa. Il conclave non funziona per magia».Come si fa a evitare di cadere nel clericalismo nel corso della formazione al ministero sacerdotale? «Il clericalismo è una vera perversione nella Chiesa, pretende che il pastore stia sempre davanti, stabilisce una rotta, e punisce con la scomunica chi si allontana dal gregge. Insomma: è proprio l’opposto di quello che ha fatto Gesù. Il clericalismo condanna, separa, frusta, disprezza il popolo di Dio. Il clericalismo confonde il “servizio” presbiterale con la «potenza» presbiterale. Il clericalismo è ascesa e dominio. In italiano si chiama “arrampicamento”. Il clericalismo ha come diretta conseguenza la rigidità. Non avete mai visto giovani sacerdoti tutti rigidi in tonaca nera e cappello a forma del pianeta Saturno in testa? Dietro a tutto il rigido clericalismo ci sono seri problemi. Una delle dimensioni del clericalismo è la fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento. Una volta un gesuita mi disse di stare attento nel dare l’assoluzione, perché i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore “angelicità”: orgoglio, arroganza, dominio. E i meno gravi sono quelli che hanno minore angelicità, quali la gola e la lussuria. Ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne».Cosa pensa di questa xenofobia dilagante? «La xenofobia e l’aporofobia — fobia che rappresenta la paura per la povertà o per i poveri, ndr — oggi sono parte di una mentalità populista che non lascia sovranità ai popoli. La xenofobia distrugge l’unità di un popolo, anche quella del popolo di Dio. E il popolo siamo tutti noi: quelli che sono nati in un medesimo Paese, non importa che abbiano radici in un altro luogo o siano di etnie differenti. Oggi siamo tentati da una forma di sociologia sterilizzata. Sembra che si consideri un Paese come se fosse una sala operatoria, dove tutto è sterilizzato: la mia razza, la mia famiglia, la mia cultura, come se ci fosse la paura di sporcarla, macchiarla, infettarla. Si vuole bloccare quel processo così importante che dà vita ai popoli e che è il meticciato. Mescolare ti fa crescere, ti dà nuova vita. Sviluppa incroci, mutazioni e conferisce originalità. Il meticciato è quello che abbiamo sperimentato, ad esempio, in America Latina. Da noi c’è tutto: lo spagnolo e l’indio, il missionario e il conquistatore, la stirpe spagnola e il meticciato. Costruire muri significa condannarsi a morte. Non possiamo vivere asfissiati da una cultura da sala operatoria, asettica e non microbica».Ho sentito che i missionari francesi usavano dare come penitenza per i peccati di far piantare alberi. Cosa ne pensa? «Mi sembra un’intuizione pastorale molto creativa! Da quel che mi dici si è trattato di una penitenza sociale, ambientale, che si prende cura di costruire la società. Quando sono andato alla Città dell’amicizia, padre Pedro mi ha fatto vedere alcuni pini. Mi ha detto che li aveva piantati proprio lui 20 anni fa. Questo è davvero molto bello».«Non temo lo scisma e prego perché non ce ne siano». … in un suo DaQui lei don Attilio si è detto non impaurito daun possibile scisma purché si faccia pulizia presso il popolo della Chiesa che non scandalizzi più i credenti. Questo réportage credo che possa completare il suo pensiero … (Al. Man.)«Non temo lo scisma e prego perché non ce ne siano».  “Quando vedete cristiani, vescovi, sacerdoti, rigidi, dietro di loro ci sono dei problemi, non c’è la sanità del Vangelo”.L’aereo sorvola il Kilimangiaro quando Francesco raggiunge i giornalisti che lo hanno seguito in Mozambico, Madagascar e Mauritius. All’andata, nel commentare un libro sugli attacchi contro di lui dell’ultradestra cattolica americana, il Papa aveva esclamato: per me è un onore che mi attacchino. Ora risponde sereno ma secco: «Io prego che non ci sia uno scisma, ma non ho paura. Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi». Negli occhi ha l’immagine di innumerevoli bimbi: «L’africa è un continente giovane. Come ho detto a Strasburgo la madre Europa è quasi diventata la nonna Europa, è invecchiata, stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo. Ho un’opinione personale: penso che la radice sia il benessere, attaccarsi al benessere. Sì, ma stiamo bene, io non faccio figli perché devo comprare la villa, fare turismo, un figlio è un rischio, non si sa mai…».Santità, negli Usa ci sono forti critiche e alcune persone a lei vicine parlano di un complotto contro di lei… «Le critiche non sono soltanto degli americani ma un po’ dappertutto, anche in Curia, almeno quelli che hanno l’onestà di dirlo. E a me piace, non mi piace quando le critiche stanno sotto il tavolo, ti fanno un sorriso che mostra i denti e poi ti pugnalano da dietro. La critica delle pillole di arsenico non serve, non aiuta. Aiuta i piccoli gruppetti chiusi che non vogliono sentire la risposta. Invece una critica leale è aperta alla risposta e costruisce. Fare una critica senza voler sentire risposta e senza dialogo è non volere bene alla Chiesa, è andare dietro ad un’idea fissa, cambiare Papa, stile, o fare uno scisma». Ha paura di uno scisma nella Chiesa americana? «Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Concilio Vaticano I e l’ultima votazione, sull’infallibilità, un bel gruppo si è staccato dalla Chiesa e ha fondato i veterocattolici. Anche il Vaticano II ha creato queste cose, forse il distacco più conosciuto è quello di Lefèbvre. Sempre c’è l‘azione scismatica nella Chiesa, è una delle azioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi. Prego perché non ce ne siano, perché c’è di mezzo la salute spirituale di tanta gente, prego che ci sia il dialogo e la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino nello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa: tanti scismi, basta leggere la storia, ariani, gnostici, monofisiti… È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi. Gli scismatici hanno sempre una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo di Dio. Uno scisma è sempre una situazione elitaria, l’ideologia staccata dalla dottrina. Per questo io prego che non ci siano. Ma non ho paura. Questo è uno dei risultati del Vaticano II, non è che questo Papa o un altro Papa… Ad esempio le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni paolo II, le stesse, io copio lui. “Ma il Papa è troppo comunista, eh”! Entrano delle ideologie nella dottrina, e quando accade lì c’è la possibilità di uno scisma. E c’è ideologia, cioè la primazia di una morale asettica sulla morale del popolo di Dio. Oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro della Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudoscismatiche che alla fine finiranno male». Cosa pensa del fenomeno della xenofobia in Africa? «Non è solo dell’africa, è una malattia umana, come il morbillo. Ti viene, entra in un Paese, in un continente. I muri lasciano fuori tanta gente, ma coloro che li fabbricano rimarranno dentro soli e alla fine della storia saranno sconfitti da invasioni potenti. La xenofobia è una malattia, “la purezza della razza”, per nominarne una del secolo scorso. Le xenofobie tante volte cavalcano i cosiddetti populismi politici. Delle volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34. C’è un ritornello in Europa, ma anche in Africa c’è una xenofobia interna: il tribalismo».Gian Guido Vecchi, da Il Corriere della seraIl catechismo al SenatoDa tempo ha forzato la mano e ha deciso di cercare una contiguità con i segmenti di elettorato più estremi; non solo quelli politicamente più estremisti come Forza Nuova e CasaPound, ma anche con quelli religiosamente più integristi. Portatori di omofobia in nome del familismo, di islamofobia in nome di odii identitari, aree della devozione popolare — specialmente mariana — di cui qualche radio e qualche prete si è intestato la rappresentanza: che avrebbero dovuto restare ipnotizzati dall’agitazione ingrugnita del rosario, impugnato come fosse l’amuleto fallico del dio Po o un remake lombardo dell’esorcista. Quella scelta, che secondo gli sceneggiatori delle propaganda salviniana (La Bestia n.d.r.) avrebbero dovuto rendergli molto, ha sedotto solo qualche prete svitato e ha portato alle due lezioni di catechismo impartite nell’aula del Senato, quasi a dare il segno di una capacità di reazione del cattolicesimo che finora era rimasta afona ma non inesistente. Se Giuseppe Conte, devoto di padre Pio, ha denunciato la blasfemia spirituale e costituzionale di quel gesto nell’aula del Senato dove il rosario era già stato molte volte, ma rimanendo chiuso nelle tasche di La Pira o di Scalfaro, è perché ha sentito dentro di sé e attorno a sé, di qua e di là dal Tevere, l’indignazione di tutto il cattolicesimo. Tutti disgustati da una strumentalità che è apparsa anche in una citazione (alquanto insipida a dire il vero, ma almeno non manipolata come quella d’una esortazione post-sinodale usata altre volte sulle migrazioni) di Giovanni Paolo II. Matteo Renzi ha invocato lo sbarco per i migranti della Open Arms con la citazione della parabola del giudizio finale al capo 25 del vangelo di Matteo che ricorda ai giusti, che aver dato da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, vestito l’ignudo e via dicendo è un gesto fatto al Cristo in persona. Quando Salvini diede del “povero comunista” a un ragazzo con lo striscione “ama il prossimo tuo” — forse non rendendosi conto che usava lo stesso cliché usato in America Latina dai militari contro i vescovi e anche contro Bergoglio — le reazioni sono state poche: ma se quelle a cui ha dato voce l’ex segretario del Pd sono state di più è perché nel cattolicesimo la convinzione che l’Italia, pur dovendo regolare i flussi migratori in entrata e in uscita, non può diventare il Paese dove la fede resta muta quando l’unità della famiglia umana viene messa in discussione verbis et operibus. Qualcuno anche fra i leghisti avrà pensato fra sé e sé: «l’avevo detto» e si sarà ricordato dei fischi a Francesco in piazza Duomo e dell’adagio “chi mangia papa crepa”.                           Alberto Melloni, da La Repubblicanel caso vi possa sfuggire in quest’estate così calda e non solo per il sole, un bellissimo affondo di Selvaggia Lucarelli per bacchettare i “mori” con qualche sorriso intelligente  “Matteo, Medjugorje è Mark Caltagirone”. Lettera al leghista: “Mi tenga fuori dalla propaganda”Caro Matteo, mi presento: sono la Beata Vergine Maria, colei che ieri hai ringraziato in un tweet. Di solito non mi scomodo a rispondere ai tanti che mi invocano, ma visto che Papa Francesco mi ha definita l’influencer di Dio e tu sei l’influencer di una buona fetta di italiani che credono nel tuo verbo (nello specifico il verbo ruspare), scendo momentaneamente sulla Terra e ti spiego un paio di cose. Io ne ho sopportate tante nella vita, compreso Paolo Brosio. Avevo fatto la gnorri anche quando in piazza, a Milano, hai baciato il rosario e hai affidato il paese “all’Immacolato cuore di Maria”. Ho sperato che ti rivolgessi alla De Filippi, magari aspirando a un falò di confronto con la Isoardi. Adesso però non riesco più a tacere. TI SEI DEFINITO felice che il decreto Sicurezza bis sia passato proprio “il 5 agosto che per chi è stato a Medjugorje rappresenta il compleanno della Vergine Maria”. Tanto per cominciare: grazie per il pensiero, Matteo, ma come certi mariti distratti hai toppato la data. Io sono nata l’8 settembre. Il 5 agosto è nata la Madonna di Medjugorje, nello specifico una collega che non esiste, una che definirei la Mark Caltagirone delle apparizioni mariane, per fare un esempio alla tua portata. Guarda, te la faccio più semplice ancora: l’apparizione della Madonna di Medjugorje non è mai avvenuta, la sparizione dei 49 milioni della Lega invece sì. E, siccome il mio superiore è pure spiritoso, tu ti chiami Matteo come San Matteo, il santo protettore della Guardia di Finanza, pensa che graziosa boutade ti ha dedicato. Detto ciò, visto che ti piace credere a un legame simbolico tra date e avvenimenti, te ne rivelo uno io: tu sei nato il 9 settembre e sai chi è nato il 9 settembre come te a parte l’Inter (e tu sei milanista, che soave giubilo)? La Barbie! Vedi, il 9 settembre sono nati due dei pupazzi più famosi della storia! Non trovi che questo, sì, sia un preciso segno dell’esistenza di Dio? Un disegno divino? E ora passiamo a qualche lezione di mariologia. No Matteo, non ti stai confrontando con una giornalista, non mi rispondere con strafottenza che la biografia dell’amico Mario Giordano la conosci benissimo. La mariologia è la branca della teologia che studia me, Maria. Vedi, tu ti sei definito “padre di 60 milioni di italiani”. Ecco, io sono modestamente madre di un solo figlio, ma m’è uscito decisamente meglio dei tuoi. E credimi, tirarlo su non è stato facile. Tanto per cominciare, il suo arrivo mi venne annunciato da un giorno all’altro, con Giuseppe che all’inizio non ha capito né come sia stato concepito né il proprio ruolo in questa vicenda. Sì, lo so che anche il tuo di Giuseppe, Giuseppe Conte, non ha capito come sia stato concepito ’sto governo e il suo ruolo in questa vicenda, ma noi avevamo qualche problema in più. Giuseppe doveva partecipare a un censimento, tipo quello che vuoi tu per i rom, quindi eravamo in viaggio. Mio figlio è nato e siamo dovuti scappare in Egitto perché Erode lo voleva uccidere. Ecco, se ci fossero stati i tuoi decreti sicurezza, l’egiziano alla frontiera ci avrebbe detto: “Tornate indietro in Giudea, è un posto sicuro!” e oggi ai tuoi comizi ringrazieresti, al massimo, la madre di un altro Cristo, Krzysztof  Piatek. Non avevamo moto d’acqua per fuggire via mare, non avevamo cibo con cui fare selfie e, a dirla proprio tutta, Giuseppe era pure un bellimbusto che sembrava scappare da tutto tranne che dalla fame e dalla guerra. Gli mancava giusto l’iPhone ed è un vero peccato, perché almeno avremmo potuto twittare “Amici, se voi ci siete noi andiamo avanti! Le minacce non ci spaventano. E al ricco e viziato Erode diciamo: bacioni!”. Poi vabbè, mio figlio è diventato quello che è diventato, ma pensa, nonostante abbia camminato sulle acque anziché avanzare con le ruspe, nonostante abbia trasformato l’acqua in vino davanti al popolo anziché in mojito davanti a una consolle, nonostante sia stato capace di guarire i ciechi anziché di rendere ciechi i suoi discepoli come te, non si è mai fatto chiamare “capitano”. Anche perché io sarò pure piena di grazia, ma il battipanni, se mio figlio dovesse imboccare la tua deriva narcisistica, lo saprei usare anch’io. E a proposito di soprannomi, i miei sono Beata Vergine Maria del Soccorso, Ausiliatrice, Nostra Signora della Misericordia e anche Stella Maris, ovvero stella polare e guida per chi viaggia per mare. ORA CAPISCI BENE, caro Matteo, che ringraziare ME per un decreto che stabilisce che gli ultimi della Terra possono pure essere ingoiati dai flutti, mi ha fatto drizzare il velo. Ringrazia Schettino, se proprio cerchi un modello ispiratore. Infine, prima che suoni l’Ave Maria di Schubert al Papeete, ti chiedo di riporre i rosari e di lasciarmi fuori dalla tua propaganda. Prova, piuttosto, a seguire un consiglio cristiano che sembra fatto apposta per te: ama il prossimo tuo come te stesso. Cioè tantissimo. Ah. Solo un’ultima cosa: sai la storia che avrei pianto sangue, di tanto in tanto? Ecco. Era una bufala pure quella. Ma solo fino a ieri. Poi ho letto il tuo tweet.                 tratto da “il fatto quotidiano”Libri Preziosi, Indimenticabile. I 33 giorni di papa Luciani, ed Cantagalli / Railibri, pp 160. ll 1978 è un anno cupo e orribile. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, il massacro dei cinque uomini della scorta, i tormenti di Paolo VI, lo scandalo Lockheed e le dimissioni del presidente Giovanni Leone, le trame finanziarie di Calvi, Sindona e Marcinkus. “In Italia si respira un clima pesantissimo, in nome del quale si può alimentare ogni sospetto, ogni complotto, ogni illazione, in un intreccio mefitico di avvenimenti non chiari, di fatti, questioni, affari, persone e intrighi sui quali ancora oggi si fa fatica a fare luce”. L’elezione di Luciani arriva “come un vento di primavera che interrompe l’inverno del terrorismo e del piombo”. Il Patriarca di Venezia era un uomo umile e mite determinato a riportare la Chiesa alla purezza e povertà dei primi cristiani. I segni sono inequivocabili: il primo Papa che sceglie un nome doppio e rinuncia all’incoronazione», che parla di sé in prima persona e non col ”noi”, che interviene a braccio definendosi “povero Cristo, vicario di Cristo”, una cosa così inaudita che il giornale vaticano e i testi ufficiali lo censurano. Un libro anche per spiegare come sia nato il sospetto non vero e tuttavia “verosimile” di un complotto per uccidere il Papa. E per capire i più evidenti complotti contro papa Francesco; quando si predica Vangelo, i più riottosi sono gli affamati di potere: di vesti paonazze o violacce o nere siano rivestiti. Creandosi codazzo tra i credenti.libriSull’islam pensiamo di sapere tutto. Spesso la discussione pubblica viaggia sulla strada della semplificazione. E semplificare una religione che coinvolge oltre un miliardo di persone non le rende giustizia. Adrien Candiard, che l’islam lo studia da anni abitando in terra islamica, ci consegna in queste pagine una fotografia più realistica di cosa sono e di cosa significano gli islam: esistono quello sciita, quello sunnita e quello di altre minoranze; «salafita» non è sinonimo di islamista; non tutti i credenti in Allah parlano l’arabo. Grazie a una conoscenza approfondita del passato e ad uno sguardo sagace sull’attualità, Candiard smaschera tanti pregiudizi e ci apre a un dialogo intelligente insegnandoci il rispetto per la pluralità.CINEMACafarnao, della regista libanese Nadine Labaki. Se ne leggete le recensioni, potreste sentirvi esonerati dal vederlo, questo film: dicono di cinismo e del gusto per la manipolazione dei volti, delle fatiche e delle disgrazie di due bambini tutto sommato bravi e adorabili, del loro coraggio, e del loro pianto, per mettere lo spettatore di fronte all’obbligo di un’adesione emotiva. Dicono di un vero proprio ricatto morale. Ma se non lo vedete, potete senza accorgervi, lasciarvi prendere da quel “ormai è così” che i campi profughi del Libano e della Siria raccontati dai telegiornali sono poco più di cartoline. Un film contorto ma vero, fragile ma prezioso.Festa del 1^ maggio«8 ore di lavoro, 8 di svago, 8 per dormire» era lo slogan coniato in Australia nel 1855 e condiviso da gran parte del movimento sindacale del primo Novecento, che aprì la strada a rivendicazioni generali e alla ricerca di un giorno, appunto il Primo maggio, in cui tutti i lavoratori potessero incontrarsi per esercitare una forma di lotta e affermare la propria autonomia. A far ricadere la scelta su questa data furono i gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago e conosciuti come rivolta di Haymarket. A metà Ottocento, infatti, i lavoratori non avevano diritti: lavoravano anche 16 ore al giorno, in pessime condizioni, e spesso morivano sul luogo di lavoro. Il Primo maggio 1886 fu indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per ridurre la giornata lavorativa a 8 ore. La protesta durò tre giorni e culminò appunto, il 4 maggio, col massacro represso nel sangue: una vera e propria battaglia in cui morirono 11 persone.famiglie migranti separate: il drammaUn richiedente asilo dell’Honduras di due anni piange mentre sua madre viene perquisito e detenuto vicino al confine tra Stati Uniti e Messico il 12 giugno 2018 a McAllen, in Texas. Hanno fatto rafting attraverso il Rio Grande dal Messico e sono stati arrestati dagli agenti della pattuglia di frontiera degli Stati Uniti prima di essere inviati in un centro di elaborazione. La settimana seguente l’amministrazione Trump, sotto la pressione del pubblico e dei legislatori, pose fine alla sua politica contraria di separare i bambini immigrati dai loro genitori al confine tra Stati Uniti e Messico. Sebbene il bambino e sua madre rimangano insieme, sono stati inviati a una serie di strutture di detenzione prima di essere rilasciati settimane dopo, in attesa di una futura udienza.   >>>   Ci sono immagini che raccontano più di mille parole. Immagini che inchiodano chi osserva di fronte alla realtà,senza possibilità di equivocarne il significato. Ed è così anche con la foto della bimba honduregna di due anni che piange mentre la mamma viene perquisita al confine tra Messico e Stati Uniti. Una foto che ha fatto il giro del mondo, illustrando il dramma delle famiglie migranti separate, un tema in quel periodo al centro di contrasti al Congresso Usa e di prese di posizione da parte di organismi internazionali e associazioni umanitarie contro le politiche migratorie di Trump. Ebbene,l’immagine scattata da John Moore, di Getty Images, è stata scelta come foto dell’anno dal World Press Photo, il più importante premio internazionale di fotogiornalismo. Il vincitore è stato annunciato nella cerimonia di premiazione ad Amsterdam.

 

LE PAROLE SEMPLICI DEL BUONSENSO_ contro chi calpesta il pane 

Sembrava un “Aprile” a lieto fine, ma senza Nanni Moretti in tinello e Massimo D’Alema sullo schermo. Un giovane, ripreso dai telefonini di chi voleva irriderlo, che metteva in fila una via l’altra quattro cose se non di sinistra, di civiltà. Concetti di buon senso, ovvietà valoriali che ormai da questa parte del mondo, spesso barcollante, timorosa, inchiodata alla ricerca del consenso spicciolo o del quieto vivere, pensiamo destinate a una minoranza. Empiti di tolleranza che ci paiono, più che irricevibili, non consegnabili, circondati come sono dal crepitio delle tv, e dei social, che ripetono lo stesso gorgogliando la stessa parodia di insulto: “Buonisti!”. Nei 15 anni di Simone, c’è il gusto profondo della sfida al pensiero dominante. Il coraggio concreto di scandire i propri riferimenti culturali, più che politici, sapendo che sono impopolari tra chi lo circonda. Concretamente. Con la concreta possibilità di perdere un dente o più, non follower. La speranza che il “cosa” dici, quando speri di cambiare le regole del gioco, sia più importante del rumore altrui che ti fa velo. C’è, inoltre, un tono di voce che radical chic — altro rifugio espressivo dei cattivisti — proprio non è. Un lessico popolare che in pochi secondi fa giustizia della polemica anabolizzata tra élite e popolo, il cui sfruttamento da parte delle vere élite, comprese Lega ed elettori ex berlusconiani/neogrillini, rappresenta uno dei più clamorosi inganni della nostra Storia recente. Dal quale il popolo prima o poi si desterà. Prendendola malissimo. Il destino scampi e liberi il piccolo riformista riluttante dal consenso interessato di cui sarà oggetto da oggi (ieri, dai) in poi. Spero non disdegni il “grazie” di un vecchio signore che, affaticato pure ieri dal clangore dei social, per un attimo ha aperto la finestra e ha scorto un improvviso, promettente, scintillio. Luca Bottura

CINEMA

Green Book – Il titolo del film  viene da una guida pubblicata dagli anni 50 dedicata ai “viaggiatori negri” per aiutarli a trovare motel (non certo hotel di livello, rigorosamente riservati ai bianchi) e ristoranti che li avrebbero accettati.Chiunque veda questo film , in perfetto equilibrio fra risata e parabola sulla tolleranza, ne rimane conquistato. Gli americani hanno un termine per definire questo tipo di film: non stupisce che proprio attraverso le risate si possa veicolare un messaggio di rispetto della diversità, un invito a guardare al diverso con curiosità, magari per ribaltare un pregiudizio negativo. Sono tematiche sempre attuali, a maggior ragione in un’epoca in cui le minoranze stanno rivendicando a giusto titolo la dovuta attenzione anche a Hollywood.

LIBRI

G. Carofiglio, La versione di Fenoglio, ed Einaudi – Pietro Fenoglio, un vecchio carabiniere che ha visto di tutto, e Giulio, un ventenne intelligentissimo, sensibile, disorientato, diventano amici nella più inattesa delle situazioni. I loro incontri si dipanano fra confidenze personali e il racconto di una formidabile esperienza investigativa, che a poco a poco si trasforma in riflessione sul metodo della conoscenza, sui concetti sfuggenti di verità e menzogna, sull’idea stessa del potere. La versione di Fenoglio è un manuale sull’arte dell’indagine nascosto in un romanzo avvincente, popolato da personaggi di straordinaria autenticità: voci da una penombra in cui si mescolano buoni e cattivi, miserabili e giusti. Quando il “giallo” aiuta a capire l’uomo, e i suoi reconditi invisibili.

ORATE, di Giuseppe Delle Vergini

“Noi siamo quello che mangiamo!”.  Così disse Mara all’amico. Che fece silenzio. Lungi da lui l’essere trascinato in una battaglia sul cibo, in quella guerra infinita tra vegani e pastafariani, onnivori e carnivori, vegetariani contro erbivori! Aveva solo voglia di pranzare con qualcosa di buono data l’ora e l’acquolina in bocca. Inseguiva l’amica tra un banco e l’altro del mercato dove lei agile danzava, con addosso la gioia di una bambina quando entra in un negozio di dolci e la competenza di un chirurgo deciso tra quali ferri scegliere per l’operazione che l’attende. Per questo motivo lei aveva scelto quella città fatta di sole e di mare, fuori dall’assalto delle orde turistiche sfamate con falsi cibi tipici, dalla qualità pessima e impropriamente strapagati. “Qui si mangia bene…”. Che fosse tra i banchi dei mercati rionali o dai fruttivendoli in agguato coi loro motocarri agli angoli delle strade, lei riusciva ancora a sentire il profumo dei prodotti della terra e del mare, come succedeva solo a casa sua. Riempì prima una borsa di tela con cavolo e porri, cicoria, patate e carote – ottimi per un minestrone – l’altra con mele, arance, kiwi e pere tutti futuri protagonisti di una macedonia appena da inzuccherare e spruzzare con acre succo di limone. “Bene…”. Lui sperò che il rito della caccia al genuino fosse terminato, per prendere finalmente la via di casa e vedere quelle masserizie diventare cibo. Ah! Quanto a questo le mani di Mara erano come di fata. Bastava un niente, mentre canticchiava perché tutto si trasformasse in un capolavoro di alta cucina. “Solo se imparerai a gustare il cibo assaporerai l’amore – e sottolineava con malizia questa parola – vero per la vita…” era solita dire. Improvvisamente Mara, mentre già stava abbandonando i vicoli formati dai banchi del mercato, si fermò ed esclamò: “No! Stavo dimenticando il pesce! Ma come si fa!”. Lui rabbrividì. Questo significava un’altra mezz’ora persa alla ricerca di quello giusto. “Non temere. Andiamo direttamente da Pietro. Lui è il migliore!” e senza terminare la frase partì in direzione del banco del citato pescivendolo. “Signurì, buongiorno!” fu il saluto di Pietro. “Buon giorno Pietro. Cosa c’è di buono oggi?”.- “’Ca tutt’a robba è buona! ‘O ‘ssai! Che vi serve?”. “Qualcosa da fare al forno, di veloce… se no questo mi muore per la fame…” e lo indicò con la testa. “Nun sia mai! Ecco, tenimmo tutto! Cernie, dentici.. tonno, pesce spada… a voi la scelta!”. Mara guardò i pesci dalle belle forme adagiati su letti di ghiaccio. Indugiò solo un attimo, poi decisa disse: “Voglio un’orata! Una tra quelle là. Mi sembrano belle e saranno certamente saporite…”. “Avete l’occhio clinico, dottorè! Mai come quest’anno le orate del Mediterraneo sono belle grosse e dalla carne morbida, squisita. Mi raccomando – ma che ve lo dico a fare! – ricopritele bene di sale e insaporitele la pancia di rosmarino, olive, capperi e limone. Poi ne parliamo la prossima volta…”. Mara fu orgogliosa della scelta. Mise il cartoccio con il pesce in una delle borse di tela e si avviarono finalmente verso casa. Prima però sostò in edicola. Prese il giornale e lo infilò di fianco al pesce, lasciandolo fuoriuscire per metà dalla borsa. Lui sbirciò un titolo. “OIM: 2.217 persone morte in mare lo scorso anno nel tentativo di raggiungere l’Europa”. Le orate pescate nel Mediterraneo da qualche tempo sono davvero più grosse e saporite. Buon appetito!

DA UN ANNO ALL’ALTRO, di Carlo Verdelli

Secondo una previsione temeraria del presidente del Consiglio, l’avvocato Giuseppe Conte, il 2019 sarà un anno bellissimo. La speranza di tutti è che abbia ragione. L’evidenza di questi primi cinquanta giorni direbbe il contrario. Siamo entrati ufficialmente in recessione. Le previsioni di crescita del nostro Pil sono franate allo 0,2 per cento, il gradino più basso d’Europa. La produzione industriale è balzata all’indietro del 5,5 per cento. Si è scoperto che l’agognato reddito di cittadinanza non arriverà a destinazione per un milione e mezzo di lavoratori poveri: sei su dieci degli aventi diritto, più della metà. In Abruzzo, alle Regionali di dieci giorni fa, ha votato il 53 per cento, una percentuale allarmante, tranne per chi pensa che la democrazia parlamentare sia un orpello da smantellare, un ostacolo tra popolo e capipopolo. Le uniche cose che salgono, e non pare di buon auspicio, sono il livello dell’insofferenza verso chi rema contro, dal Quirinale al Vaticano, e il volume delle minacce contro i nemici, dovunque si annidino. Bankitalia e Consob? «I vertici andrebbero azzerati» è l’opzione zero di Matteo Salvini. Azzerati. Come gli sbarchi dei migranti. O le canzoni straniere, da intervallare per legge con musica nostrana doc. Il giorno di San Valentino, a Melegnano, provincia di Milano, sul muro della casa di una famiglia che aveva da poco adottato un ragazzo senegalese è comparsa questa scritta: “Pagate per questi negri di merda”. È come se la natura di tanti italiani si stesse rapidamente trasformando, incattivendosi. Insieme a molti diritti su cui si fonda la nostra comunità, stanno saltando i valori che quei diritti sottendono e sostengono. Stavamo seduti sopra un vulcano di rabbia e rancore, e non ce ne eravamo accorti. Se abbiamo forti dubbi su un 2019 bellissimo, abbiamo una certezza sul 2018: è stato un anno incredibile, l’eruzione di un’Italia delusa, spaventata, e anche un po’ spaventosa. È passato un anno, anche se sembra molto di più: 4 marzo 2018, un voto che cambia connotati e anima a un Paese, che da lì ha cominciato freneticamente a scollarsi, a disunirsi, a isolarsi da quell’idea di Europa che aveva contribuito a edificare, per inseguire pericolose alleanze con Paesi e concezioni del mondo lontani anni luce dai pilastri ideali della nostra Costituzione. Un anno durante il quale la sinistra ha assistito attonita al proprio disfacimento, dilapidando milioni di consensi e di speranze, in attesa di una rinascita che con fatica, e ci auguriamo con umiltà, proprio in queste settimane stava assumendo un qualche contorno riconoscibile (le ultime vicende di casa Renzi di certo non aiutano). Un anno dove la Terra che ci ospita ha visto peggiorare il suo già precario stato di salute, nell’incuranza e nello sfregio dei Grandi che dovrebbero invece proteggerne il cuore. E così la scienza, oltraggiata dall’incompetenza al potere. L’Internazionale dell’egoismo, del «me ne frego», ha rotto argini che sembravano incrollabili. E l’Italia è un fronte avanzato di questa ondata globale di “disumanesimo”. Alzi la mano chi, un anno fa, avrebbe potuto immaginare che il ministro dell’Interno sarebbe stato indagato per sequestro di persona, oppure che l’ambasciatore francese a Roma sarebbe stato richiamato in Patria in segno di protesta, o ancora che una parlamentare di Forza Italia avrebbe guidato un gommone per forzare un blocco e verificare lo stato di salute di un’umanità derelitta tenuta in ostaggio su una nave a cui era negato l’approdo a un porto. E chi poteva spingersi a prevedere che persino la vittoria al Festival di Sanremo di un cantante milanese, ma di origini egiziane, sarebbe stata additata come una mossa contro il popolo sovrano? C. Verdelli, da Repubblica 20.02.1919

istituzioni e parolacce

Questa lettera è apparsa su Repubblica: la ritengo consona agli umori di molti cittadini come me. Se lo è anche per voi, potete diffonderla E.B.

Egregi signori,
 in nome e per conto del sottoscritto ma anche, per usare un argomento a voi noto, dei cittadini italiani che vi remunerano e/o vi hanno remunerati molto al di là delle vostre modestissime competenze, sono a significarvi quanto segue: nel commentare le polemiche sulla realizzazione (o meno) della linea Tav tra le città di Torino (Italia) e Lione (Francia), avete utilizzato le espressioni “Salvini pro-tav? Torni da Berlusconi e non rompa i coglioni” (Di Battista) e “Ridimensionarla? Supercazzola!” (Di Maio). Benché tali enormità espressive siano rivolte a un Vostro alleato di Governo e facciano dunque parte di una patente, nonché patetica, commedia elettorale, è presumibile che il prossimo passo sia quello di eseguire la Marsigliese coi rutti e/o sostenere che i Vostri avversari, interni o esterni, ce l’hanno piccolo (già detto dal portavoce Di Stefano a Emmanuel Macron, peraltro). Sono perciò a pregarVi formalmente, in quanto rappresentanti del mio Paese, di rallentare l’escalation verbale e di attenerVi a un linguaggio più consono alle istituzioni che, contro ogni principio meritocratico, altresì rappresentate. Perché con questo lessico da bettola, questo modus exprimendi da trivio, questa sintassi comunicativa da perenne ora della ricreazione, state gettando un discredito pressoché irrimediabile sulle Istituzioni di cui, incredibile dictu, fate parte.  Traduco: con le parolacce, avete rotto il c…. .
 Cordialissimamente, il cittadino Luca Bottura

GATTONARE PER STRADA: IN CINA
Non sono riuscite a raggiungere gli obiettivi previsti per il 2018 e per questo – stando a quanto riporta il quotidiano internazionale The Epoch Times – sono state punite dai dai loro datori di lavoro, che le hanno obbligate ad avanzare carponi in strada. Un’umiliazione, come mostra il video finito sui social network cinesi, per giunta pericolosa: le donne si ritrovano su un tratto di strada su cui transitano anche delle auto. L’episodio si sarebbe verificato lo scorso 14 gennaio. Quelle in video sarebbero sei dipendenti di un beauty center di Tengzhou, città che si trova nella provincia dello Shandong, la regione più orientale del Paese. E’ già successo, in passato, di assistere – sempre attraverso video diventati virali sui social – a punizioni corporali e umiliazioni varie di dipendenti cinesi.  Nel 2016, per esempio, alcuni impiegati di una banca rurale cinese sono stati sculacciati in pubblico con un bastone. Nel 2013 invece, nella città di Chongqing, un gruppo di dipendenti – tutti vestiti di arancione – si sono ritrovati a gattonare in circolo in un’area commerciale. In quel caso, dopo un’indagine sull’accaduto, si scoprì che i datori di lavoro interpretavano quella curiosa marcia come una sorta di “stress test”. Questa notizia mi fa dire che è sempre la gogna – e ancora – che imperversa nel mondo. Anche in Italia, tanto da costringere i migliori a provare compassione persino per Battisti. 

Alla messa perenne dell’Aja per salvare i rifugiati. “Questa è l’Europa”

IL sermone più recitato è ovviamente quello del buon Samaritano, perché quanto accade nella chiesa evangelica di Bethel è proprio un atto di misericordia e compassione verso il prossimo, nel caso specifico verso una famiglia armena che vi ha trovato rifugio nel momento in cui le autorità olandesi volevano rispedirla in patria. “Ho perso il conto delle volte che abbiamo citato la parabola di Gesù”, dice Axel Wicke, il giovane pastore del tempio della via Thomas Schwencke, un palazzetto anni Trenta in un quartiere residenziale dell’Aia. Dal 26 ottobre scorso, dandosi il cambio giorno e notte con altri 750 preti, pastori e diaconi, il pastore Wicke recita ininterrottamente messa per impedire la deportazione dei Tamrazyan – madre, padre e tre figlie di 15, 19 e 21 anni – grazie a una legge del Paese che impedisce alla polizia di penetrare in un luogo di culto durante una funzione religiosa. “La nostra comunità ha deciso di accoglierli per onorare il principio di apertura e ospitalità, ma non mi aspettavo tanta solidarietà. A darci una mano sono arrivati sacerdoti cattolici, protestanti ed evangelici perfino dall’estero, e adesso diciamo preghiere anche in italiano, francese, tedesco e inglese”. L’interno della chiesa Bethel è spoglio. Il pulpito è un tavolino di legno sul quale arde un grosso cero. Sul grossolano mosaico di mattonelle che riveste l’abside giganteggia invece la foto di una donna con in braccio il suo bimbo, entrambi avvolti in una coperta di sopravvivenza, quelle dei migranti salvati in mare. Per accedervi si passa dalla cucina della parrocchia, dove in attesa che venga il suo turno sosta una mezza dozzina di religiosi, per lo più anziani ma non per questo meno determinati. Il pastore Wicke ha sistemato i Tamrazyan al primo piano, in sacrestia, ed è dovuto ricorrere ad un addetto stampa sia per proteggere i suoi ospiti sia per smistare le richieste di intervista che giungono da tutto il pianeta. Per evitare che attorno all’evento della messa-maratona si crei un circo mediatico, in chiesa i giornalisti possono entrare solo su appuntamento. Nell’ora in cui c’è consentito di assistervi, tra un canto e una lettura riusciamo a scambiare due parole con Hayarpi, la sorella maggiore delle Tamrazyan. E’ una ragazza minuta, dallo sguardo triste. Dice: “Non posso uscire altrimenti rischio di essere arrestata e rispedita in Armenia, dove non riuscirei mai a integrarmi. Siamo arrivati in Olanda più di 8 anni fa, e qui abbiamo costruito il nostro mondo, abbiamo i nostri amici, le nostre abitudini”. Hayarpi è iscritta in Econometria all’università dell’Aia ma due mesi fa è stata costretta ad abbandonare gli studi. “Pregando riesco a dimenticare i miei problemi e il grande sostegno che riceviamo da tutti ci dà forza, ma ho comunque tanta paura”. Nel 2010, dopo essere fuggito da Erevan perché oppositore politico del regime post-comunista che governava l’Armenia, suo padre sbarcò in Olanda portandosi appresso l’intera famiglia. Più volte il governo dell’Aia aveva cercato di rispedirla indietro, senza mai riuscirci. Fino al 25 ottobre scorso, quando pensava di aver finalmente raggiunto il suo obiettivo negandogli il cosiddetto children’s pardon, che consente alle famiglie con bambini residenti nei Paesi Bassi da più di 5 anni di ottenere un permesso di soggiorno. Come accade ogni anno alla metà delle oltre tremila richieste di asilo, è stata rifiutata anche quella dei Tamrazyan. La durezza della legge olandese sull’immigrazione è del resto nota. Lo scorso settembre, per ostacolare la decisione di espellere due adolescenti armeni residenti da anni nel Paese è servita una petizione con 200mila firme. E solo dopo un aspro dibattito in Parlamento il governo del liberale Mark Rutte è stato costretto a concedere ai ragazzi il permesso di restare: ci sono oggi 400 bambini a rischio deportazione, sebbene molti di questi abbiano vissuto gran parte della loro vita in Olanda, frequentino scuole olandesi e parlino soltanto il fiammingo. Il sottosegretario alla Giustizia Mark Harbers ha recentemente dichiarato che la messa-maratona non scalfisce l’intransigenza del governo sul caso Tamrazyan. Eppure, secondo il pastore Derk Stegeman, portavoce improvvisato della chiesa Bethel, nonostante la linea dura ostentata dall’esecutivo, molti suoi esponenti sarebbero pronti a cedere anche stavolta. “Del resto, come può un Paese che si dice civile accettare che venga inflitto tanto dolore a dei ragazzi deportandoli in una terra che è per loro diventata straniera?”, spiega Stegeman. “Ai Tamrazyan noi cerchiamo di offrire conforto e speranza e in attesa che la loro richiesta di asilo venga riesaminata andremo avanti finché sarà necessario”.  In tanta risolutezza si può anche leggere la riconoscenza della chiesa cristiana locale agli immigrati, perché sono loro che le hanno fornito nuova linfa dopo le copiose emorragie di fedeli degli ultimi decenni. Con quest’atto di disobbedienza civile il clero olandese dimostra anche la forza della sua fede. E che un’altra Europa esiste. Da La Repubblica, 13. 1.’19

iN ATTESA CHE ANCHE A BERGAMO IL DIACONATO DECOLLI

C’è un luogo, a Roma, dove la sinodalità sta diventando prassi, esercizio quotidiano, vita vissuta: è la comunità di San Stanislao, a Cinecittà, che da tre mesi è guidata da Andrea Sartori, un diacono che abita nella canonica con la moglie Laura e quattro figli – tre maschi di 20, 19 e 17 anni e una bambina di 10 – e che vorrebbe incidere su una targa “Casa della fraternità”. Alla Messa e alle confessioni pensa il viceparroco della vicina San Giuseppe Moscati (con un gruppetto di altri preti che stanno offrendo la loro disponibilità), mentre il lavoro pastorale viene portato avanti con un’équipe di diaconi. «Bisogna fare una storia sinodale, sperimentando la comunione con il popolo e con la comunità ministeriale», sottolinea il diacono che, con la sua famiglia, ha intravisto in questa vocazione il modo per «andare verso Dio e verso gli uomini». Del resto, il servizio è un filo rosso che attraversa l’esistenza di Sartori e la tesse con quella di Laura, conosciuta durante un’esperienza di volontariato con ragazzi disabili. «Prima del matrimonio – racconta – entrambi volevamo andare in missione. Così, appena sposati, abbiamo deciso di partire con i salesiani per il Togo per tre mesi per studiare la realtà e poi, con in mano un progetto che abbiamo elaborato in Italia, siamo tornati in Africa per un anno: di giorno giravamo per la Savana per formare animatori sociali che potessero essere leader nelle microimprese e di sera stavamo in una casa famiglia con 24 bambini di strada». Che il servizio fosse la sua dimensione, Sartori l’aveva già capito, ma non pensava affatto di diventare diacono. Nel 2003 però, su invito di alcuni sacerdoti, inizia l’iter e nel 2008 viene ordinato. «Vedevo questa figura solo come qualcuno che sta sull’altare, ma ora ho capito che il vero diacono porta Gesù in mezzo alla gente: quella goccia di acqua che metto nel calice, nel sangue di Cristo, è il segno dell’umanità che raccolgo e porto a Dio», spiega Sartori che ama definire il diacono come «la mano di Gesù che tocca, si sporca e tira fuori dalla tomba». Per dare ulteriore concretezza al servizio, Andrea e Laura pensano di «trovare un monastero dove poter fare comunità» e cominciano a parlarne con i figli. Così, quando arriva la proposta di accompagnare la comunità di San Stanislao, capiscono «che Dio, che fa bene tutte le cose, aveva preparato il terreno e che quella era per noi la conferma di ciò che avevamo intuito». Sebbene sia una tradizione documentata a Roma fin dal VII secolo, oggi la diaconia di Cinecittà rappresenta un unicum. Inizialmente c’è stata un «po’ di perplessità, un punto interrogativo che riguardava soprattutto il cosa sarebbe mancato, visto che siamo abituati ad avere un presbitero», osserva Sartori. Pian piano però le seimila anime di San Stanislao «hanno visto che la presenza eucaristica è rimasta e che, essendoci una famiglia, i giovani hanno dei coetanei con cui stare e i genitori si sentono compresi nelle fatiche e nelle difficoltà quotidiane». «Come tutti i papà di famiglia, anche io, che ho 49 anni, mi alzo alle cinque per andare a lavoro, so cosa significa litigare o discutere perché uno dei figli avrebbe bisogno di un paio di pantaloni nuovi ma non si ha la possibilità di comprarli», confida Sartori che si sente ripagato di tutto quando «quelli che incontro mi dicono che vogliono tornare in Chiesa».  Si respira “aria nuova” e, complice una giusta dose di curiosità, «in tanti si stanno avvicinando». «È bello che la gente voglia aiutare e non solo essere aiutata», rileva Sartori per il quale «la parrocchia non deve essere solo un centro di distribuzione, ma di comunione». Per questo, dal lunedì al venerdì «proponiamo l’adorazione eucaristica, perché una comunità prima prega e poi va in missione». Come il diacono che va per le strade, nelle case. Facendosi prossimo «per pregare, ascoltare, intuire quali sono le ferite e fasciarle».

 BERGAMO, LA CHIESA VENDUTA AGLI ISLAMICI: UN ERRORE CAMBIARE LE CARTE IN TAVOLA
Io, se fossi musulmano, sarei ferocemente offeso. E mi chiederei soprattutto che razza di Paese sia mai questo, un Paese in cui giustamente mi fanno le pulci dentro le moschee più o meno improvvisate per evitare che diventino centri di sovversione, ma in cui poi vincere una regolare asta diventa un terno al lotto, un gioco delle tre tavolette, pateticamente in bilico sulla squallida alta-lena delle beghe politiche. Se ne fossimo ancora capaci, dovremmo prima di tutto sbaraccare dal caso l’ipocrisia: ammettiamolo, ci girano pesantemente le scatole che una chiesa, in cui molti di noi sono andati al battesimo cattolico, una sacra casa del crocefisso, se la comprino proprio gli adepti della religione con cui fatichiamo di più a convivere, a dialogare, a fraternizzare. L’avessero comprata buddisti o taoisti, non ne faremmo una simile questione. Succede invece che il mondo cattolico se ne impippi bellamente della sua gloriosa chiesa, che la politica — in questo caso a trazione leghista — la metta sul mercato («come un garage», dice giustamente il sindaco Gori) senza che nessuno lo sappia e se ne accorga, per dire quanto fossimo appassionati al tema ideale, succede questo e improvvisamente l’affare commerciale diventa intollerabile. Ma non perché ridotto a volgare compravendita immobiliare, no: solo perché l’acquirente non ci garba. E allora torno all’inizio: io, acquirente che ho partecipato nel pieno rispetto delle regole all’asta pubblica, io musulmano che ho vinto la banale gara del mattone, cosa devo pensare adesso? Adesso che la politica improvvisamente viene colta da afflato mistico, che dalla sera alla mattina scopre l’importanza di difendere i simboli cristiani, che senza tante carinerie cerca goffamente il modo per cambiare le carte in tavola, per rivoltare le regole in corsa, in poche parole per gabbare alla furba i nuovi acquirenti? Per quanto mi riguarda, a me non interessa che questi nuovi acquirenti siano musulmani: potrebbero essere indù o devoti della Ferragni, ma fino a prova contraria hanno vinto l’asta. Anche a me girerebbero molto le scatole se domenica il Bologna battesse l’Atalanta (è l’Atalanta che ha battuto il Bologna! n.d.r.), ma se succede posso solo farmene una ragione. Già li sento, i nuovi spiritualisti: come si fa a paragonare una partita con una chiesa? Rispondo: non accetto lezioni ideali da chi fino all’altro ieri paragonava la chiesa a un garage. Piuttosto, sarebbe ora che in questa nostra civiltà svaccata tornassero a valere le regole delle aste pubbliche e della tolleranza. Senza se e senza ma. E comunque lo dico da cattolico: i nuovi inquilini sono musulmani, non indemoniati. (di Cristiano Gatti, dal Corriere)                             

                                                                                                                                                                                     cimiteri
   Cinema 

   Il verdetto – Fiona Maye, un giudice dell’Alta Corte di Giustizia britannica che ha colorato di grigio la sua esistenza e messo se stessa in un         cassetto, pensa che tutto sia giustificato in nome della legge e degli ideali. Per questo trascura, con molti sensi di colpa, il marito professore. La     crisi di coscienza arriva quando si tratta di autorizzare una trasfusione di sangue a un ragazzo malato di leucemia e Testimone di Geova che rifiuta   ostinatamente le cure in accordo con i genitori. Vostro Onore cerca di essere impermeabile ai sentimenti. Invece ne viene inevitabilmente travolta.   «Solo un regista sensibile come Richard Eyre poteva raccontare una storia così difficile», dice Emma Thompson, l’attrice che, da protagonista,   esalta con la sua presenza questo film. Fiona è una donna irrigidita nei suoi principi che si scopre capace di ascoltare senza pregiudizi. È un   giudice, svolge un compito sociale importante. Ma la cosa che le capita può riguardare tutti noi. Codici e arringhe a quel punto non contano più.   «Per dare il giusto spessore al personaggio ho incontrato tutti i giudici donna dell’Alta Corte che si occupano di diritto di famiglia». Tra Fiona e   Adam, il malato di leucemia, si crea una dipendenza reciproca. Lei lo salva e diventa per lui una seconda madre, una luce, una speranza. Anche se   l’esito non è “buonista”.
 Libri 

Scavo-Beretta, Fakepope le false notizie su papa Francesco, Ed Sanpaolo – Non è un libro apologetico. Un papa lo si può criticare, anzi in alcuni casi lo si deve. Le fake new riportano al centro il tema della verità, caro ai cristiani da sempre, ma non più alla stessa maniera oggi, se persino vescovi – e lasciamo perdere preti insoddisfatti di sé – cavalcano le ondate social. Il suo scagliarsi contro il pettegolezzo e il chiacchiericcio nella chiesa, contro la vanità e il carrierismo, ha provocato reazioni che forse non si erano mai viste contro un papa. E’ un libro che aiuta a discernere, a quel discernimento non tanto su Francesco, ma su coloro che imbastiscono calunniose non-verità.

_ nell’era dei cagnolini portati in braccio,
                l’era dei bimbi portati al guinzaglio _
foto by Carlo

Libri  

Piero Lazzarin , Paolo VI il papa della gioia, ed Messaggero – Per il suo carattere schivo e riservato, lo chiamavano «Paolo mesto»» il «papa del dubbio», «l’eterno Amleto». In realtà, il profilo umano e culturale di Paolo VI non corrisponde a questo superficiale stereotipo. Nonostante le apparenze, era uomo sensibile e aperto all’amicizia. Gli è toccato il compito di gestire l’utopia di papa Giovanni e traghettare nel mondo la chiesa del Concilio. L’ha fatto con intelligenza, avvedutezza e coraggio. E stato il primo papa del novecento a varcare i confini italiani. Alla gioia cristiana ha dedicato un documento, Gaudete in Domino, che egli stesso definisce «una specie di inno alla gioia divina». Nell’imminenza della canonizzazione, un bel libro per ridare presenza a un grande della Chiesa.

L. De Crescenzo, Tutti santi me compreso, ed Oscar Mondadori – Un libro di sette anni fa, che forse è difficile trovare in libreria 8ma on line magari sì). Ma in tempi in cui la Chiesa è chiamata a rivedersi, è un libro che può servire: staccando con umorismo i santi dalle loro nicchie, potremmo trovare posto per quella santità della quotidianità che è poi la vera santità possibile.

M. Pomilio, Il quinto evangelio,  Orma editrice –  A distanza di quarantasei anni dalla pubblicazione (pubblicato nel febbraio 1972), sempre più Il quinto evangelio appare «uno degli ultimi grandi romanzi italiani». Si presenta come raccolta di materiali dei quali l’autore si finge mero trascrittore. Così rinnovando, moltiplicandolo, lo stratagemma – anche di manzoniana memoria – del “manoscritto ritrovato”. Ma dando pure vita, come a caldo annotò lo stesso autore, a «un’opera totale che oltrepassa le solite barriere dei generi letterari e riesce insieme narrazione e saggio, dibattito d’idee, fantasia e, possibilmente, poesia». Ora, se c’è un testo che vive la sua unità, da sempre, nella collazione di versioni diverse questi sono appunto i Vangeli: da sempre facendo immaginare una fonte ulteriore, più vicina alla Parola di Cristo. È questa l’«emozione culturale» che ha ispirato a Mario Pomilio la vicenda di Peter Bergin, soldato americano che nel 1945, in una canonica bombardata di Colonia (sul finire, dunque, del «buio allo stato puro» della guerra), scopre dei materiali relativi proprio al mitico quinto evangelo. Inizia così una ricerca, che utilizza con inquietante frequenza l’apocrifo Vangelo di Tommaso (scoperto, giusto nel ’45, nel sito gnostico di Nag Hammâdi) e diviene la più profonda metafora del tormentato rapporto con la fede degli uomini del nostro tempo (nella «sfida sperimentale», come la definì l’autore, che meglio ha interpretato lo spirito del Concilio). Perché se «Iddio ci ha parlato una volta per tutte, attraverso i Vangeli» il suo silenzio, da allora, va preso «come un mutismo deliberato. O, più verosimilmente, come una delega permanente della Parola. Spetta ora a noi parlare di lui, e se è possibile in nome suo». (A.C.)

M. Balzano, Resto qui, ed Einaudi –  Un campanile che emerge appuntito dall’acqua, tanto affascinante e surreale da sembrare un fotomontaggio. Invece è ciò che rimane di Curon, paesino del Sudtirolo al confine fra Austria e Svizzera, sommerso nel 1950 per la costruzione di una diga. Marco Balzano, scrittore e insegnante milanese, Premio Campiello nel 2015, è partito proprio da questa immagine per il suo nuovo romanzo, Resto qui: «Non credo nei colpi di fulmine. Credo che le cose vadano metabolizzate, ma qua è successa una cosa diversa. Questo campanile che spunta dallo specchio del lago, mi è venuto incontro, mi è sembrato davvero una storia» (Marco Balzano, ospite a «Fahrenheit»). La storia è affidata alla voce di Trina, una donna caparbia, legata alla sua terra, al suo paese. Odia piangere, è abituata a lottare e lo fa tutta la vita. Quando i fascisti arrivano in quella valle, dove si sente solo l’eco della Storia, la vogliono italianizzare, occupano scuole e municipi, vietano la lingua tedesca, cambiano i nomi alle vie. Vogliono sradicare radici di secoli. Trina vuole fare la maestra, vuole insegnare ai bambini a leggere e scrivere in tedesco, è disposta ad «andare nelle catacombe», le scuole clandestine, rischiando l’arresto, la deportazione. Nonostante tutto resta lì, con suo marito Erich e i suoi due figli perché i fascisti non devono vincere, perché non si abbandonano le montagne, i masi e le strade, anche se cambiano nome. Resta lì nel ’31 quando Hitler dà ai sudtirolesi la possibilità di entrare nel Reich e il paese si divide tra chi vuole andare via e i restanti. Resta lì anche se l’adorata figlia scompare al seguito degli zii verso la Germania, procurandole una ferita non rimarginabile: è a lei che Trina scrive e racconta la storia del suo paese che non c’è più. Resta lì quando Erich sceglie di non tornare in guerra: «Le pagine del disertore in fuga, che prende per mano la moglie e con lei sale la montagna per cercare di raggiungere il confine svizzero, sono le più forti del romanzo» (Paolo Di Stefano, «La Lettura – Corriere della Sera»).

La Chiesa si mobilita contro il traffico di esseri umani

Il volto fiero di una giovane donna di colore e la scritta:  «My body is not for sale – Il mio corpo non è in vendita». È partita con questo tweet la campagna social della sezione “Migranti e Rifugiati” del Dicastero vaticano per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, in occasione della Giornata mondiale contro la Tratta indetta dalle Nazioni Unite per ogni 30 luglio. «La schiavitù è un’industria da 150 miliardi di dollari. Le persone non sono in vendita!», è uno degli altri messaggi diffusi dal Dicastero che ha lanciato tre giorni – dal 27 al 30 luglio – di mobilitazione sul web. Sullo sfondo anche i ripetuti appelli di Papa Francesco per fermare la tratta di esseri umani e le nuove forme di schiavitù; l’ultimo, in ordine di tempo, quello di ieri durante l’Angelus in piazza San Pietro.   Fra le diverse organizzazioni cattoliche che si sono mobilitate o lo stanno facendo in queste ore, l’Uisg (Unione internazionale superiore generali), le Caritas di numerosi Paesi europei e mediterranei (dall’Europa al Medio Oriente) che hanno lanciato una ricerca “transfrontaliera” al fine di «contribuire a migliorare le pratiche di assistenza delle vittime salvate, mettendo a disposizione dati sull’impatto della tratta, per realizzare metodi nuovi e più efficaci per sostenerle durante il processo di riabilitazione», il progetto ha come obiettivo anche quello di mettere a punto nuovi strumenti di contrasto dei trafficanti.  Ancora c’è l’Associazione Papa Giovanni XXIII, poi l’Ordine di Malta che opera da anni nel soccorso ai migranti. Si pensi che a livello mondiale il traffico di esseri umani riguarda circa 40 milioni di persone, fra le 50 e le 70mila donne sono sfruttate attualmente in questo “mercato” sulle strade italiane. In questo contesto, cresce il numero dei minori coinvolti nella tratta e delle donne.  Save the Children in occasione della Giornata mondiale, ha pubblicato un rapporto dal titolo: “Piccoli schiavi invisibili 2018”. «Si stima – afferma l’organizzazione – che quasi 10 milioni di bambini e adolescenti, nel mondo, solo nel 2016 siano stati costretti in stato di schiavitù, venduti e sfruttati principalmente a fini sessuali e lavorativi. Un numero che corrisponde al 25% del totale delle persone in questa condizione». Per quanto riguarda l’Italia, rileva Save the Children, «tra le evidenze contenute nel rapporto, significativa, alla frontiera di Ventimiglia, l’emersione del fenomeno del cosiddetto “Survival sex”, ovvero delle minorenni in transito provenienti per lo più dal Corno d’Africa e dai Paesi dell’Africa Sub-Sahariana che vengono indotte a prostituirsi per pagare i “passeurs” per attraversare il confine o per reperire cibo o un posto dove dormire».

La storia delle coperte grigie è una delle tante che non sono mai riuscita a raccontare e ha che vedere con il mio viaggio a Lesbo nel marzo del 2016. Frequentavo la scuola di giornalismo de El País e tre pompieri spagnoli, che lavoravano sull’isola come volontari, erano stati arrestati per traffico illegale di persone: una vicenda complicata che fece da apripista ad altre fino a che non si trovò la sintesi giornalistica al tema. Ora si chiamano «reati di solidarietà» e coinvolgono coloro che danno un passaggio a un «sin papeles» in una frontiera calda, talvolta senza conoscere la legge che stanno infrangendo. Il fondatore dell’associazione era un amico della mia coinquilina Pilar. Lo avevo intervistato e mi aveva invitato ad andare con loro. Lo dissi alla responsabile della scuola che mi chiese se avessi un’assicurazione a coprirmi in caso di necessità. Io le risposi che la Grecia era ancora Europa e che non avrei dovuto avere problemi. Mi sembrò una richiesta assurda, anche se con il senno di poi Belén forse non aveva tutti i torti: la Grecia era diventata qualcos’altro. L’emergenza del 2015 era agli sgoccioli; il mare era pattugliato da Frontex e si respirava già l’odore dell’accordo che l’Europa avrebbe firmato con la Turchia di lì a pochi giorni facendo crollare i flussi. Tuttavia in cinque giorni vidi qualcosa come venti sbarchi. Arrivano quasi sempre su dei gommoni, quasi sempre seduti allo stesso modo: gli uomini sul bordo, poi le donne, i bimbi al centro. Tutti con salvagenti il più delle volte inservibili. Dalle trenta alle cinquanta persone. La costa della Turchia si vedeva a occhio nudo: era una linea grigia a un soffio di distanza. La miriade di Ong di ogni nazionalità che si erano riversate sull’isola si organizzava con veglie in quattro punti della costa. La gestione avveniva attraverso un enorme gruppo di whatsapp che in qualche modo metteva tutti in contatto anche con Unhcr, non ho mai capito se in forma diretta o meno.  Mi sembrava che gli occupanti di quei gommoni avessero tutti lo stesso odore pungente e salmastro, ed era forse una suggestione impropria data dalla mia totale incapacità di comprendere cosa stesse accadendo davvero. Cominciavano a gridare non appena vedevano terra e allora i volontari si buttavano in acqua. Era fondamentale non lasciarsi prendere dal panico in quegli scarsi minuti che li separavano dalla battigia. Mi sembrava paradossale ma era di vitale importanza che non si alzassero in piedi, che non si ribaltassero, che non crollassero l’uno sull’altro. (…)

E poi la pornografia: le telecamere, i riflettori, i flash a ogni sbarco. E anch’io filmavo. Un tizio mi disse che stava girando un documentario che si sarebbe chiamato «Stardust» (polvere di stelle), per via della polvere della civiltà che dalla Siria si stava diffondendo nel mondo. “You are good people”. Una notte l’avvistamento di un gommone in difficoltà spinse i miei pompieri con il loro pick up a nord, dove la costa è più frastagliata. Arrivammo per primi e ad aspettarci non c’era il solito capannello di persone rodate da mesi di sbarchi. La procedura fu la stessa: entrare in acqua, spingerli in un punto sicuro, farli scendere in modo ordinato. Prima i bimbi tirati fuori e passati a chi si trovava già a terra. Quella volta, però, c’ero solo io. Non aveva più di due anni. Indossava una tutina grigia, un cappellino rosso ed era scalzo. Mi accorsi che era completamente bagnato. Mi guardava e non piangeva. “Dónde está su mamá?”. Nessuna risposta. Erano tutti troppo indaffarati col farli scendere tutti, col capire se stavano bene. «It’s ok!. Calm down!» gridavano. Mentre io cercavo di impormi: «Dónde está su mamá?!». Mi guardava e non piangeva. «Are you his mother?», presi a chiedere alle donne che cominciarono a passarmi davanti. Quante saranno state? Una, due, tre… Lo guardavano e scuotevano la testa.
«Do you know who’s his mother?». Scuotevano la testa. In pochi minuti il gommone si era svuotato. Raggiunsi il gruppo che era sfilato a fatica verso una zona dove la costa si faceva più gentile ed era illuminata dai lampioni della strada. Mi guardavo intorno cercando di cogliere un cenno da qualcuno che lo riconoscesse. Il peso del suo corpicino. Mi guardava e non piangeva. Mi precipitai da una delle infermiere dell’associazione non appena la vidi scendere dall’utilitaria bianca con la quale ci aveva raggiunto. “Este niño no llora, Merce”. Gli buttò un occhio e mi disse che non dovevo preoccuparmi, che era solo sotto shock e che dovevo guardarlo e scuoterlo. Abbracciarlo e scuoterlo. Guardarlo, abbracciarlo e scuoterlo. «Va tutto bene, va tutto bene». Mi è impossibile ricordare quanto tempo dopo sia scoppiato a piangere. Non so dopo quanto o chi mi abbia indicato chi era la madre. Si stava cambiando dei jeans bagnati. Mi fece un cenno stanca e lo lasciai nelle sue braccia. Senza che me ne accorgessi, era arrivato anche l’autobus di Unhcr che li avrebbe portati a Moria, nell’entroterra, dove li avrebbero registrati. Feci un passo indietro. Quanti erano? Cinquanta? Cento? Erano meno ma sembravano di più. Per terra c’erano sacchi neri pieni di vestiti di varie taglie, scarpe spaiate, coperte, buste con cracker e panini. Non riuscivo a muovermi. Un tizio, forse un funzionario di Unhcr, forse l’autista, si avvicinò: «stai bene?». «sì, penso di sì». «allora, dai loro delle coperte» e mi mollò una pila di coperte grigie.

di Denise Zani, da Futura, Corriere della Sera

per essere di sinistra non bisogna essere solo di sinistra è una mia convinzione che vedo rispecchiata in questo articolo di E. Galli Della Loggia, che credo i frequentatori del sito sono convinto troveranno illuminante e condivisibile – è un poco lungo, ma vale la pena. (gp. b.)

Per il Partito democratico quanto è accaduto domenica 24 giugno 2018 è qualcosa di ben diverso da una sconfitta, sia pure assai grave. È qualcosa di molto vicino a una autentica espulsione dalla storia che significa anche la fine di una storia. Una storia cominciata male, in modo ambiguo e pasticciato 25 anni fa: una forte matrice comunista mai rivisitata e indagata ma semplicemente rimossa, un vantato innesto con il cattolicesimo politico di tutte le tinte (da don Sturzo a Livio Labor), e infine la costruzione di un Pantheon di presunti antenati messo insieme come un mazzo di carte (Giovanni Amendola accanto a Nelson Mandela, Primo Levi con don Milani). Cominciata male, e proseguita peggio: staccandosi progressivamente dalla realtà di carne e sangue del Paese, identificandosi con tutti i peggiori settori di establishment disponibili, e assistendo compiaciuto (non rendendosi conto di assistere in realtà al proprio suicidio) alla trasformazione dell’antica egemonia culturale all’insegna di Marx e Gramsci nel fighettismo à la page del «ceto medio riflessivo» sotto l’alto patronato di Roberto Benigni e del prof Paul Ginsborg.
Ciò detto bisogna anche aggiungere però che solo dagli uomini e dalle donne che in qualche modo hanno avuto a che fare con il Pd, solo da spezzoni della sua vicenda, da qualcuno dei suoi molti retroterra, può ricominciare la storia di un’opposizione in Italia. Certamente non da Forza Italia, da Berlusconi costruita come un partito di plastica e di camerieri che oggi si apprestano a chiedere di essere assunti da un altro padrone. Ma per avere qualche speranza di successo deve essere una storia totalmente altra. Non bastano le sempre invocate «facce nuove» e neppure qualche idea nuova. Deve trattarsi di un’identità nuova. Un’identità diversa dal passato, e dunque pronta anche a contaminarsi con valori e prospettive che non abbiano a che fare con la sinistra tradizionalmente intesa. Per la semplice ragione che ormai è il mondo che non ha più molto a che fare con il mondo tradizionalmente raffigurato dalla Sinistra; e che la storia stessa ha imboccato vie inaspettate e contraddittorie. Sicché la società italiana, ad esempio, è oggi, sì, sospinta verso il futuro e ansiosa del sempre nuovo, ma insieme appare anche percorsa dal desiderio di ritorno a un po’ di ordine e di disciplina antichi, di recupero di una certa etica pubblica, del sentimento del lavoro eseguito con scrupolo, di servizi che funzionino, di una scuola fatta bene, del rispetto delle competenze e delle deontologie professionali. È un desiderio che riflette anche il bisogno di un rapporto effettivo tra politica e senso civico, tra politica e morale in cui l’opinione pubblica migliore ancora vuole credere (e del resto, a pensarci bene, non c’è forse proprio un tale sacrosanto bisogno in tanta agitazione contro la «casta»?).

Da tutto questo l’ovvia conseguenza che la nuova opposizione — non più del Pd, ma semplicemente di ascendenza Pd — non possa che avere un’identità colpevolmente «moralistica» ed «eclettica» agli occhi dei custodi di tutte le ortodossie cadaveriche delle varie Sinistre italiane (da quella marxista a quella liberal-democratica) ancora in cattedra a dispetto delle continue bocciature della storia. È il rischio inevitabile che oggi ciò che è nuovo deve correre per non assomigliare al vecchio. E consapevole di correre anch’io un rischio uscendo dal vago mi avventuro a mettere nero su bianco come secondo me dovrebbe più o meno essere il partito della nuova opposizione di domani, lontano parente del Pd di oggi:
1) sentirsi (e magari anche dirsi) culturalmente cristiano. Per ridare senso alla politica c’è bisogno di un’ispirazione alta e forte che oggi però non può venire da dottrine e valori esclusivamente politici. La «democrazia benevola» che vogliamo non è quella né di Pericle né di Cicerone: deve ad essi cose anche importanti ma è nata qui in Occidente dallo spirito delle Sacre Scritture rese universali dal Cristianesimo. E alla fine, come ha ben detto Massimo Cacciari, solo il Cristianesimo può tenere a bada i demoni della scienza, dell’economia e della tecnica riuniti assieme che incombono sul nostro futuro; e in generale, direi, anche quelli di ogni potere che si pretenda assoluto. Mi sembrano cose di una certa importanza.
2)Essere orientato alla modernità, ma non progressista. Progressismo è sinonimo di un ottimismo sempre alquanto ridicolo, di questi tempi poi decisamente ingiustificabile. Disfarsi disinvoltamente del passato per principio, come è tipico del progressismo di massa da tempo in voga, testimonia solo di una micidiale superficialità.
3) Essere un partito italiano. Il che significa rifiutare ogni autoreferenzialità nazionalistica ma, per dirne un paio, sentire come cosa propria il patrimonio storico-culturale della Penisola (non lasciando che l’istruzione vada a ramengo e che accadano altre empietà consimili), ovvero fare politica cercando di avere (e di comunicare) un’idea del passato del Paese e del suo futuro. Significa soprattutto avere in mente che nell’arena europea e mondiale l’interesse della sovranità italiana non sempre coincide con quelli altrui: e che per difenderlo si può anche alzare la voce. Non è scritto da nessuna parte che a farlo debba essere solo la Destra.
4)Essere orientato in senso comunitario, multietnico e internazionalista ma non già multiculturale e cosmopolita. Per stare insieme una società ha bisogno di un legame più forte e profondo della Costituzione e delle leggi (che servono ma non bastano). Ha bisogno di sentirsi una comunità caratterizzata da una storia e da una cultura. Solo in una comunità siffatta chi è di un’etnia diversa o viene da un’altra cultura può davvero integrarsi: no di certo in una compagine multiculturale. D’altra parte, mentre internazionalismo vuol dire solidarietà, vuol dire ideali e cause condivise con altri individui e popoli, il cosmopolitismo, invece, è quasi sempre solo la versione supponente di un individualismo privo d’identità. Non a caso la Croce Rossa e il Primo Maggio continuano ad essere dovunque più popolari dell’Onu.
5)Dichiararsi a favore di una «patrimoniale». Non soltanto è il modo più semplice per far capire da che parte si sta quando si tratta di economia, ma a un partito di sinistra le risorse così ottenute potrebbero servire per due impieghi importanti: a usarne la metà per ridurre sia pure di poco il debito del Paese (dando così un segnale importantissimo ai «mercati» e facendosi altresì carico di un compito nazionale decisivo quale l’inizio della liberazione del Paese dal cappio finanziario), e l’altra metà usarla, invece, per un grande progetto sociale a favore dei ceti più disagiati: ad esempio per un piano nazionale di risanamento e ristrutturazione delle principali periferie urbane. Lo so che è una misura che provoca in tanti un moto di rivolta: ma come ci si può rassegnare al fatto che chi in Italia detiene grandi quote di ricchezza si sottragga sempre in un modo o nell’altro all’obbligo dell’equità fiscale? Se lo si ritiene utile al Paese (personalmente è per questo che io sono disposto a dire sì a tale misura) un partito che si rispetti deve avere il coraggio di sfidare l’impopolarità.
6) Non temere di difendere con forza certi valori etico-culturali. In politica contano non solo gli interessi e i diritti, contano anche gli ideali e i sentimenti: e forse sempre più conteranno nei domani che ci aspettano. Un partito, specialmente se di sinistra, non può essere un partito solo di gestione, deve essere anche il portatore di una speranza e di qualche forma di rinnovamento forte. Ad esempio i tempi sono maturi, io credo, per un partito che riprendendo un filone sotterraneo cha va da Mazzini a Simone Weil, metta all’ordine del giorno una tematica dei doveri e del «limite» contro l’ideologia del menefreghismo edonistico e del «tanto non faccio male a nessuno», nonché contro la pratica orgiastica del futile e del superfluo. Nel fondo dell’animo la gente desidera vivere per qualcosa di più e di meglio che una vacanza alle Maldive o fare sesso nell’auto ultimo modello.
7)Proporre l’introduzione del servizio civile a 18 anni per tutti i ragazzi e le ragazze. Compiti: manutenzione del territorio (pulizia spiagge, greti dei corsi d’acqua ecc.), attività di protezione civile, assistenza a disabili, servizi di ambulanza, ecc. Tra ludopatia, alcool, impasticcamento e disgregazione familiare la gioventù italiana si sta perdendo: una svolta nel Paese dovrebbe cominciare anche da qui.
8) Per quel che riguarda la politica estera, invece, entrare nell’idea che in linea di massima a noi italiani conviene essere sempre diffidenti della Russia, con gli occhi ben aperti verso la Germania, emuli della Francia, legati alla Grecia e alla Spagna, nutrire simpatia per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Da soli possiamo poco, ma siamo necessari a molti per fare cose importanti.
9) Essere un partito europeista ma nel modo che attualmente è urgente e necessario: cioè proponendo che per arrestare la valanga migratoria che altrimenti ci sommergerà, almeno metà dell’intero bilancio dell’Unione sia devoluto ad un programma di assistenza e sviluppo dell’Africa subsahariana. Oggi il massimo interesse dell’Europa non è la crescita del reddito del Crotonese o della Bucovina, è lo sviluppo economico del Gambia e del Congo.
10)Prendere l’iniziativa per qualcuna, o magari tutte, delle seguenti misure:a) abolire il bicameralismo e il Cnel (è il caso di riprovarci); b) regolamentare lo sciopero nei servizi pubblici; c) reintrodurre il finanziamento pubblico dei partiti in misura adeguata ma in forme rigidamente controllate; d) separare le carriere dei magistrati; e) eliminare la presenza di rappresentanti designati dai sindacati in tutte le sedi direttive, amministrative e/o gestionali di qualunque ente, istituzione o organismo pubblico o azienda a partecipazione pubblica; f) sottrarre a tutti i Comuni dichiarati soggetti a pericolo d’infiltrazione criminale la gestione degli appalti superiori ai 50 mila euro e affidarli alle prefetture.
Non so — e in fin dei conti m’interessa assai poco — se i suggerimenti fin qui dati possono essere considerati di sinistra. Almeno storicamente alcuni di essi di certo non lo sono. Di una cosa però mi sembra di essere sicuro: che oggi — come del resto forse sempre — per essere di sinistra non bisogna essere solo di sinistra.

PEREGRINATIO – Tra le migliaia di visitatori della salma del Santo papa Giovanni, moltissimi ogni giorno salgono a Fontanella per aprire o concludere qui il loro pellegrinaggio. E certamente non c’è luogo più vicino alla spiritualità di Giovanni XXIII di questo: laggiù nella piana curiosità e devozione, qui silenzio e preghiera. Accolti dal Rettore, celebrano l’Eucarestia, cantano i Vespri, o si raccolgono soli davanti alla nostra preziosa icona.

Dall’ultimo DaQui, e da alcuni cenni in Abbazia, sembra che tu non abbia apprezzato il passaggio della salma di papa Giovanni 23^. È così? o abbiamo letto male le tue parole? scrivo al sito per una risposta per quanti hanno avuto la mia stessa impressione. (G:C:)
Come puoi rilevare dalla didascalia in colore, e dall’icona che ha dominato il sito per tutti i diciotto giorni della peregrinatio, non è vero che non ho apprezzato. Ho apprezzato l’ingente e intelligente organizzazione; ho apprezzato la scansione degli incontri per non lasciar fuori nessuna categoria; ho apprezzato, anche perché l’ho visto nel servizio come confessore che ho prestato (anche se disturbato dalla vanità di cui parlo nel DaQui). Non ho apprezzato l’idea, questo è vero. A me pare che più che fare di Lui, Giovanni, un pellegrino, ci si doveva essere noi pellegrini, al luogo del suo riposo all’altare di san Girolamo in Vaticano. Anche per: a. non sollecitare neppure lontanamente un uso superstizioso delle reliquie; b. non dare adito a pensieri di “bottega” della Chiesa; c. e soprattutto perché mi sembrava un controsegno rispetto a quella seminagione giovani che la diocesi ha intrapreso. Ho fraternamente sfidato a “contare “ tra quelli che sarebbero arrivati quelli che non sarebbero arrivati, e dunque a contare in percentuale i giovani. E credo, molto dispiaciuto, di aver vinto la sfida. Guarda le foto e conta le teste giovani. Dunque felice per chi ha aumentato il proprio tasso religioso; e ancor più felice per chi vi avesse trovato motivi nuovi di autentica fede. Ma sono convinto di vederlo sorridere meglio nel suo riposo nella basilica di san Pietro.

È morto, all’età di 86 anni, Ermanno Olmi.
Il grande regista bergamasco, autore di film bellissimi e amatissimi, se n’è andato avendo accanto la moglie e i figli. I funerali, come desiderava e in linea con una vita piena di affetti e amicizie ma riservata, si svolgeranno in forma strettamente privata. Se dovessimo sintetizzare in un solo aggettivo il grande cinema di Ermanno Olmi sceglieremmo ‘imprevedibile’. All’inizio della sua fama (erano gli anni Sessanta), per film come Il tempo si è fermato, Il posto, I fidanzati gli fu applicata l’etichetta di cantore della gente comune, delle piccole cose: definizione non immotivata e anche apprezzabile, in un panorama cinematografico omogeneo e poco permeabile, dopo la fine del neorealismo, alla rappresentazione del quotidiano. Nei decenni successivi, però, la tavolozza di Olmi si è ampliata fino a includere i toni e i generi più differenti: dal racconto storico all’allegoria, a varie declinazioni della fiaba. In origine il regista bergamasco, classe 1931, fece le sue esperienze nel documentario, curando il servizio cinematografico della Edisonvolta per la quale realizzò decine di titoli: tra i più noti La diga sul ghiacciaioTre fili fino a MilanoUn metro è lungo cinque. Si tratta sì di testimonianze dell’attività della società elettrica, come negli auspici dell’azienda committente, però già piene di attenzione per gli sforzi e l’operosità della gente che vi lavora. Con E venne un uomo (1965), biografia di papa Giovanni XXIII, il regista dà spazio al proprio sentire religioso, però in forma sempre terrena ed eminentemente umana. Dopo alcuni film variamente risolti, realizza quello che resta con ogni probabilità il suo capolavoro: L’albero degli zoccoli, fiaba contadina che a Cannes vince una Palma d’Oro di straordinario significato per un film parlato in dialetto bergamasco, recitato da attori non professionisti, tutto affidato all’espressività di gesti atavici. Colpito da una malattia invalidante, e da conseguente depressione, il regista resta lontano dal set per un lungo periodo. Vi torna nella seconda metà degli anni Ottanta con la parabola Lunga vita alla signora! (Leone d’Argento) e con La leggenda del Santo bevitore, Leone d’Oro a Venezia, tratto dal romanzo di Joseph Roth che il critico e amico Tullio Kezich (poi suo co-sceneggiatore nel film) gli ha fatto conoscere. Dal 2000 in avanti la filmografia olmiana inanella titoli di assoluta originalità. Intanto l’eccezionale Il mestiere delle armi, opera di respiro rosselliniano sugli ultimi giorni della vita di Giovanni dalle Bande Nere; poi Cantando dietro i paraventi, fiaba pacifista in costume interpretata da Bud Spencer assieme a un cast di attori orientali. Del 2007 è la parabola cristologica Centochiodi, che Olmi dichiara essere il suo ultimo film narrativo prima di dedicarsi esclusivamente al documentario. In realtà dirigerà ancora storie di fiction, col Villaggio di cartone e col dolente, bellissimo Torneranno i prati (2014), ambientato nelle trincee dell’altopiano di Asiago durante la prima guerra mondiale. (da La repubblica).

Cinema

WAJIB, di Anne-Marie Jacir  – Per Abu Shadi insegnante molto stimato, divorziato, che vive a Nazareth, in Palestina, è arrivato quello che può definirsi il giorno più bello della sua vita, il matrimonio della figlia Amal. Per l’occasione è tornato nella città natale anche Shadi, l’altro figlio che pur vivendo da tempo in Italia non si è sottratto al Wajib, cioè al dovere da parte dei familiari di consegnare personalmente le partecipazioni di nozze come forma di rispetto vesso gli invitati. Shadi e Abu Shadi si apprestano cosi a trascorrete insieme un’intensa giornata on the road dedicata a incontri e consegne proprio come vuole la tradizione. Ma se al cospetto degli invitati padre e figlio riescono a calarsi nel ruolo che tutti si aspettano, la diversa visione della vita che ormai li separa affiora man mano in superficie costringendoli a un inevitabile confronto. Con delicatezza e ironia e avvalendosi di due attori straordinari, Mohammed Bakri e Saleh Bakri, il film esplora la linea sottile che intercorre tra amore e dovere, modernità r tradizione, rivoluzione e compromesso. Wajib, per cinque titoli candidato Oscar per miglior film straniero, racconta la realtà della Palestina – ma la nostra come si sta sviluppando  tra generazioni – meglio di qualunque inchiesta, indagine o reportage. Da non perdere se appena possibile.

Libri

M Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, ed. Jaca Book – L’abbondanza di pubblicazioni che riguardano l’attuale Pontefice, è un’abbondanza tale da rendere spesso difficile distinguere e gerarchizzare i vari contributi. Con una sovraesposizione mediatica del Papa e a certa autoreferenzialità di molti testi, che tendono a staccare la sua figura dal popolo di Dio, facendone quasi un supereroe. Tentativi di segno diverso e talvolta opposto , che hanno come effetto quello di guardare al dito che indica la luna invece che la luna, cioè alla persona e alla personalità di Francesco invece che al suo messaggio.  Il libro di Borghesi si stacca nettamente da tutta questa sovrabbondanza di titoli e contributi, e aiuta a conoscere meglio la sua personalità, non solo intellettuale. Papa Francesco non ha la pretesa di definirsi “teologo? e il suo messaggio riesce a passare grazie alla grammatica della semplicità, che non è mai semplicismo, perché si concentra sull’essenziale. Le radici di questa impostazione è  evidente nel documento programmatico del pontificato, l’esortazione Evangelii gaudium. Un Libro per conoscere davvero il Papa attuale, contro quelle leggende metropolitane, come le ha chiamate il cardinal Scola (e dunque contro certi suoi compagni di viaggio di Comunione e Liberazione – dal vescovo  per fortuna emerito Luigi Negri al variegato esercito del soccipensiero)  che non riconoscono in Francesco un solido pensiero; “sfatando, continua Scola, il pregiudizio secondo il quale un pensatore cattolico, soprattutto un teologo, debba per forza essere un accademico. Non è così”.

Th. Frings, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché. Ancora edit. Serve una correzione di rotta! Questo il senso del lungo messaggio che Thomas Frings pubblica nel febbraio 2016 sulla pagina Facebook della sua parrocchia di Münster, storica città tedesca. Ha deciso di prendersi una pausa di riflessione, ritirandosi in un monastero per un anno, ma anche di rendere pubbliche le ragioni della sua scelta: basta con ”l’inutile sforzo” di una pastorale sclerotica e inadeguata! “Come prete ho avuto una vita gratificante e vorrei continuare a essere prete. Ma come parroco la vivo sempre più come servizio reso a tradizioni e disposizioni di una chiesa che a tutti i livelli lavora più per il suo passato che per il suo avvenire”. Un evento apparentemente marginale, ma dagli echi fortissimi e imprevisti, prima su internet, con migliaia di condivisioni e commenti al messaggio originale (un prete tedesco gli scrive: “La tua scelta è uno dei sogni proibiti che non oso pronunciare ad alta voce per paura di autoconvincermi… Ammiro il tuo coraggio!”), e poi sui media tradizionali, dalla tv ai giornali. In questo libro – rimasto per settimane nella classifica dei libri più venduti in Germania – Frings racconta in modo semplice, mai polemico, spesso ironico, la vita quotidiana di un parroco qualunque, ingabbiato in una «pastorale dell’inutile», e prova a immaginare vie nuove per una Chiesa del futuro. Un libro che dovremmo regalare ai nostri preti, perché non tentino il monastero (o altro) come via di fuga.

Al. Bevilacqua, la Pasqua Rossa, ed Einaudi –  Nel 1946 il carcere di San Vittore è una polveriera. Vi sono stipati più di tremila detenuti, tra delinquenti senza bandiera, ex repubblichini ed ex partigiani condannati per reati comuni: un microcosmo impossibile, che rispecchia con paradossale fedeltà un’Italia che stenta a scrollarsi di dosso «il sentimento delle macerie». Quella che passerà alla storia come una delle rivolte più imponenti del sistema carcerario mondiale, inizia non a caso come una farsa: con una recita di detenuti travestiti da animali. Se c’è più verità nella leggenda che nella nuda cronaca, Barbieri non fu solo il balordo dell’«Isola» milanese a capo della famigerata «banda dell’Aprilia Nera», fu soprattutto un enigma senza soluzione. Un uomo che seppe capire come nessun altro «i drammi in gabbia» dei detenuti e di molti italiani apparentemente liberi? Un profeta moderno, in grado di parlare con «il tono di chi sa e prevede»? Un sognatore? Certo, il suo sogno più grande fu che la Rivolta potesse scuotere e stimolare le forze vive e sane della nazione. Sia come sia, mentre fuori dalle mura del carcere qualcuno, con le macerie della guerra, occulta colpe e turpitudini, dentro le mura Ezio Barbieri e i suoi cercano di far deflagrare le contraddizioni che, inesplose, saranno destinate ad affollare di mostri gli anni a venire. Perché quell’aprile del 1946 è stato davvero un momento cruciale per il futuro dell’Italia. E dà ancora i brividi seguirne le vicende sconcertanti attraverso il risentimento di un uomo solo, accerchiato dall’esercito non meno che dal suo passato. «Con la sensibilità, la leggerezza e lo stile di cui è capace, Bevilacqua ha cercato di mettere a posto i pezzi di un’avventura personale e collettiva nella quale si mischiarono miseria, speranze, delusioni, dubbi, strascichi di odio». (G. A. Stella, Corriere della Sera). Un libro, che in tempi politici come questi, può servire a chi non dispera.

S. Noè, Vietato lamentarsi. Ed Sanpaolo – Vietato lamentarsi recita il cartello che papa Francesco ha appeso alla porta del suo studio. Quel cartello è un’idea di Salvo Noè, che ne ha fatto dono al Papa. Il cartello, vero e proprio monito a vivere al meglio la propria vita, nasce dal lavoro di psicologo e psicoterapeuta svolto da Noè e ora è anche un libro. Vuoi respirare un’aria nuova? Cerchi quella serenità e quella calma che aiutano ad affrontare meglio gli ostacoli e gli imprevisti della vita? Attiva nella tua vita più entusiasmo, più gratitudine e più responsabilità, per sviluppare le tue potenzialità e il desiderio della gioia di vivere.

Frédéric Gros, Andare a piedi. Filosofia del camminare, ed Feltrinelli. Un libro originale e delicato, che ci fa riscoprire la bellezza e la profondità del semplice camminare, il senso di libertà che genera, la crescita interiore. Attraverso la riflessione e il racconto magistrale delle vite di grandi camminatori del passato – da Nietzsche a Rousseau, da Proust a Gandhi – propone un percorso ricco di curiosità, capace di far pensare e appassionare. Nella visione limpida ed entusiasta di Gros, camminare in città, in un viaggio, in pellegrinaggio o durante un’escursione, diventa un’esperienza universale che ci restituisce alla dimensione del tempo e ci consente di guardare dentro noi stessi.

E. Bianchi, Da forestiero. Nella compagnia degli uomini, Piemme, Casale Monferrato 1995 “Stranieri e pellegrini” (Prima Lettera di Pietro 2,11): così il Nuovo Testamento definisce i cristiani. Possiamo tranquillamente affermare che questo principio ispiratore dello stare dei cristiani nel mondo e nella storia è stato dimenticato nei secoli della cristianità. Eppure ci sembra che quelle categorie bibliche che sintetizzerei sotto il neologismo di “stranierità” ridiventino essenziali oggi:  la chiesa è se vive la stranierità, è nella misura in cui è in cammino, in ricerca, impegnata nell’esodo.

Christian Bobin,L’uomo che cammina, Qiqajon, Bose, Qiqajon, Bose 
“Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato. Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine, potremmo fare a meno di quel libro e ricevere notizie di lui ascoltando il canto dei granelli di sabbia, sollevati dai suoi piedi nudi. Nulla si riprende dal suo passaggio e il suo passaggio non conosce fine. Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera”. Daria Bignardi, Storia della mia ansia, ed Mondadori –

Dopo Santa degli impossibili del 2015,  Daria Bignardi torna con una nuova pubblicazione, che “fa ridere, fa arrabbiare, fa anche un po’ piangere” come dice lei stessa del suo libro. Così la ex conduttrice de Le invasioni barbariche lancia al pubblico Storia della mia ansia, racconto di una vita che trascorre scandita, inesorabilmente, da quella compagna di viaggio – l’ansia – silenziosa ma estremamente presente. Non è la sua, ma potrebbe benissimo esserlo. A raccontare, in prima persona, è proprio la protagonista della storia, una musicista affermata che riesce a vincere concorsi, a entrare nelle Accademie più prestigiose, tutto proprio grazie all’ansia; la stessa che le permetterà di eseguire al Festival di Spoleto il suo primo pezzo. Fino a quando la situazione non degenera, e l’ansia si trasforma in malattia, la creatività generata proprio da quel malessere diventa inesorabilmente distruzione di tutto quello che di bello esiste intorno a lei: la musicista perderà la musica, la carriera, gli affetti. Il suo percorso è una discesa irrimediabile verso la patologia che avviluppa ogni cosa, trasformandolo in qualcosa di tremendo, in sabbie mobili da cui la protagonista non riesce ad uscire. Lei potrebbe essere benissimo l’alter ego di migliaia di persone attanagliate dall’ansia di vivere. La giornalista ferrarese regala un libro che è vero, palpabile come i sentimenti che descrive. Quel dubbio che prende la protagonista, è il medesimo dubbio di chi non vuole lasciarsi vincere dall’angosciosa sensazione ma al tempo stesso fatica a uscirne, a recuperare il proprio io. Questo romanzo è un pugno nello stomaco, ma è anche una liberazione da tutto ciò che è ipocrisia e avvolge le malattie mentali. Un libro che è stato scritto dalla Bignardi in giorni in cui è stata afflitta da un tumore (ha testimoniato: “La chemioterapia fa schifo, ma serve. Curarsi o operarsi non è divertente. Non ho rimosso niente, ma ho elaborato tutto anche scrivendo questo libro”). Pagine che hanno dunque la sincerità di una sofferenza.

Saranno beati i martiri di Algeria  ///   All’inizio degli anni ’90 in Algeria – indipendente dalla Francia trent’anni prima al termine di una lunga e sanguinosa guerra di indipendenza – prese sempre più spazio il Fronte Islamico di Salvezza, un partito politico ispirato al fondamentalismo. Per arginarne l’influenza nel 1992 un colpo di stato militare mise fuori legge il FIS. Come reazione si formarono diversi gruppi radicali islamici armati, tra i quali il Gruppo Islamico Armato. E proprio il GIA mise in atto una feroce guerriglia, che prese di mira anche le minoranze religiose. In questo quadro si inseriscono il martirio del Vescovo Pietro Claverie e quello dei monaci trappisti di Tibhirine. Il 27 marzo 1996 membri del GIA fecero irruzione nel monastero di Tibhirine, sequestrando 7 monaci francesi missionari in Algeria di età compresa tra i 45 e gli 82 anni: Christian de Chergé, Luc Dochier, Christophe Lebreton, Michel Fleury, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard e Paul Favre-Miville. I terroristi chiesero in cambio del loro rilascio al governo francese la liberazione di alcuni detenuti del loro gruppo. A seguito del rifiuto a trattare da parte della Francia, i terroristi del CIA uccisero i 7 religiosi, dandone l’annuncio il 21 maggio 1996. Dei 7 martiri furono recuperate solo le teste mozzate dai loro carnefici. I loro resti riposano nel cimitero del monastero di Tibhirine. Poco tempo dopo, il GIA torna a colpire. L’obiettivo è il Vescovo di Orano. Il 1° agosto 1996 i terroristi piazzano una bomba nei pressi dell’abitazione del presule che uccide il vescovo Pierre Claverie, frate domenicano,  e il suo autista algerino. L’assassinio del Vescovo di Orano voleva colpire il dialogo tra cristiani e musulmani. Claverie era infatti impegnato fin dal suo arrivo in Algeria nel confronto con il mondo islamico: aveva lavorato come insegnante di arabo classico ed era stato responsabile del Centro Diocesano di Algeri per lo studio e la formazione linguistica. Nel gennaio 2016 lo stesso Papa Francesco nella prefazione al volume “L’héritage” di Christophe Henning ha ricordato il sacrificio dei monaci di Tibhirine. “Gli assassini – scrive il Papa – non hanno preso loro la vita: l’avevano donata in anticipo, proprio come gli altri dodici religiosi e religiose, tra i quali il nostro fratello vescovo Pierre Claverie, ucciso in Algeria durante quegli anni bui. Siamo invitati a essere a nostra volta segni di semplicità e di misericordia, nell’esercizio quotidiano del dono di sé, sull’esempio di Cristo. Non ci sarà altro modo di combattere il male che tesse la sua tela nel nostro mondo. A Tibhirine si viveva il dialogo della vita con i musulmani; noi, cristiani, vogliamo andare incontro all’altro, chiunque egli sia, per allacciare quell’amicizia spirituale e quel dialogo fraterno che potranno vincere la violenza”.

Cinema ///  Morto Stalin, se ne fa un altro, dell’italo–americano Armando Iannucci.

Vi mando questa recensione di un film da non perdere sia per i contenuti sia per una recitazione straordinaria. Siamo a Carnevale,e ridere amaramente può solo far bene, in questa campagna elettorale dove gli argomenti girano attorno a quelli che gli altri non han fatto o non sapranno fare, invece di …  (gli eccetera eccetera li sapete bene). Le logiche del potere, mutatis mutandi, ma non  tanto!, dicono che anche oggi quelli che si preparano a governarci usano i metodi di squali delle poltrone (L. D.)
Siamo nel 1953, il periodo delle purghe, delle torture della polizia segreta e dei rastrellamenti di massa. Joseph Stalin crolla sul pavimento per un’emorragia cerebrale, ma la sua morte verrà annunciata alcuni giorni dopo. Il Paese si stringe attorno al feretro del suo leader, mentre nell’ombra si scatena una lotta in stile falce e martello. I fedelissimi di Stalin chiocciano come galline impaurite attorno al loro gallo senza vita, e si preparano a prendere il suo posto. Si aprono le danze, che vinca il più dannato. Morto Stalin, se ne fa un altro è una satira feroce sulla follia che regola un regime totalitario. I politici se ne infischiano del popolo e pensano solo al proprio tornaconto, con la tracotanza di ritenersi al di sopra della legge. I peggiori crimini rimangono impuniti e a pagare è la gente comune, che non ha i mezzi per difendersi. Passano i decenni, ma certe dinamiche non cambiano. I leader degli Stati continuano a dare scandalo, però non abbandonano il comando, e restano al vertice nonostante i processi in corso. Anche nelle cosiddette democrazie.

Libri

Il ritorno, di  Hisham Matar, ed Einaudi – ovvero una Libia sconosciuta
Hisham Matar racconta del suo rientro a casa, a Bengasi, dopo un’assenza, prima forzata poi voluta, di trentatré anni. Con una «prosa nitida, quieta e insieme inesorabile», come il viaggio che lo riporta alle sue origini, l’autore racconta l’esperienza terribile di una perdita e il tentativo di riconciliarsi con il passato. Il figlio torna in Libia dove il padre, ufficiale e diplomatico dissidente, è stato rapito dai servizi segreti; un potere brutale, quello di Gheddafi, lo ha tolto all’affetto dei suoi cari e lo ha fatto scomparire nei meandri della terribile prigione di Abu Salim. Hisham Matar era un ragazzino quando fuggì dal suo paese, ora torna per affrontare «un viaggio temerario» perché sa che ciò che ritroverà può essere «il disfacimento» di ciò che più amava. I dubbi lo hanno tormentato: da una parte c’era la fedeltà al suo paese, la nostalgia dei suoi colori e delle sue voci, la voglia ossessiva di conoscere la vicenda paterna fino in fondo, dall’altra il desiderio di imparare a vivere lontano dai luoghi che amava. Il lavoro di Matar, avvincente e coinvolgente, è il tentativo di un novello Telemaco che non può più stare senza sapere e va alla ricerca di un padre, ritrovando se stesso e la storia di un popolo.Grazie a questa fatica letteraria, che dimostra ancora una volta come la parola scritta possa sublimare il dolore, si percorre la storia di un paese martoriato, prima dalla violenza del colonialismo italiano, poi dalla dittatura e dalla cecità delle politiche europee, è il «trionfo dell’arte sulla tirannia, affascinante nella costruzione, emotivamente intenso, Il ritorno è un tesoro da lasciare ai posteri» (Peter Carey). È lo stesso autore a sostenere che «Il ritorno non è tanto un libro sulla sparizione di mio padre, ma su come si risponde ad una situazione del genere».

Cinema

L’insulto, del regista libanese Ziad Doueiri. Beirut, oggi. Yasser è un profugo palestinese e un capocantiere scrupoloso, Toni un meccanico militante nella destra cristiana. Un tubo rotto, un battibecco e un insulto sproporzionato, pronunciato da Toni in un momento di rabbia, innescano una spirale di azioni e reazioni che si riflette sulle vite private di entrambi con conseguenze drammatiche, e si rivela tutt’altro che una questione privata. Un’opera di immersione in profondità, dunque, tra lapsus e impulso, raccontata però in verticale, perché il conflitto, come la rabbia, come l’umiliazione, è qualcosa che monta. Raccontata in maniera diritta, appunto, attraverso tappe che si potrebbero dire prevedibili, eppure, non solo l’avverarsi del prevedibile è parte integrante del discorso, ma soprattutto è sfumato, colorato, drammatizzato da un ottimo copione, che si muove abilmente tra la sfera pubblica (e il film processuale) e il momento privato (dunque il dramma psicologico). Il film ha una forza comunicativa.  Perché parlare del peso simbolico delle parole e delle sue conseguenze reali, vuole anche dire parlare della responsabilità di chi si esprime attraverso un mezzo come la parola, che è megafono: oggi soprattutto dove insultare l’avversario diventa una merce quotidiana.  E dunque giustizia dev’essere e non rimozione, senza né vittime né colpevoli, solo affrontando fino in fondo le cose, per poter finalmente voltare pagina.

omelia di Capodanno del Papa

L’anno, sottolinea Bergoglio, «si apre nel nome della Madre. Ma perché diciamo Madre di Dio e non Madre di Gesù?». Infatti «alcuni, in passato, chiesero di limitarsi a questo, ma la Chiesa ha affermato: Maria è Madre di Dio». Perciò, «dobbiamo essere grati perché in queste parole è racchiusa una verità splendida su Dio e su di noi». E cioè che «da quando il Signore si è incarnato in Maria, da allora e per sempre, porta la nostra umanità attaccata addosso. Dunque, non c’è più Dio senza uomo: la carne che Gesù ha preso dalla Madre è sua anche ora e lo sarà per sempre». E «dire Madre di Dio ci ricorda questo: Dio è vicino all’umanità come un bimbo alla madre che lo porta in grembo». Il Papa riflette poi sulla parola madre (mater) che rimanda anche alla parola materia. Il Dio del cielo, il Dio infinito si è fatto piccolo, si è fatto materia, per essere non solo con noi, ma anche come noi. Ecco il miracolo, la novità: l’uomo non è più solo; mai più orfano, è per sempre figlio. «L’anno si apre con questa novità e noi la proclamiamo così, dicendo Madre di Dio: è la gioia di sapere che la nostra solitudine è vinta, è la bellezza di saperci figli amati, di sapere che questa nostra infanzia non ci potrà mai essere tolta; è specchiarci nel Dio fragile e bambino in braccio alla Madre e vedere che l’umanità è cara e sacra al Signore». Pertanto «servire la vita umana è servire Dio e ogni vita, da quella nel grembo della madre a quella anziana, sofferente e malata, a quella scomoda e persino ripugnante, va accolta, amata e aiutata». Francesco invita i fedeli a riflettere sul Vangelo di oggi, dove della Madre di Dio si dice una sola frase: «Custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Custodiva, semplicemente custodiva. Maria non parla: «Il Vangelo non riporta neanche una sua parola in tutto il racconto del Natale». Anche in questo «la Madre è unita al Figlio: Gesù è infante, cioè senza parola, Lui, il Verbo, la Parola di Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato, ora, nella pienezza del tempo è muto». Dunque, puntualizza Jorge Mario Bergoglio, «il Dio davanti a cui si tace è un bimbo che non parla, la sua maestà è senza parole, il suo mistero di amore si svela nella piccolezza». E «questa piccolezza silenziosa è il linguaggio della sua regalità, la Madre si associa al Figlio e custodisce nel silenzio». Questo insegna che anche a noi «se vogliamo custodirci, abbiamo bisogno di silenzio, abbiamo bisogno di rimanere in silenzio guardando il presepe, perché davanti al presepe ci riscopriamo amati, assaporiamo il senso genuino della vita. Guardando in silenzio, lasciamo che Gesù parli al nostro cuore: che la sua piccolezza smonti la nostra superbia, che la sua povertà disturbi le nostre fastosità, che la sua tenerezza smuova il nostro cuore insensibile». Il Papa invita pertanto a «ritagliare ogni giorno un momento di silenzio con Dio» perché questo aiuta a «custodire la nostra anima», a «custodire la nostra libertà dalle banalità corrosive del consumo e dagli stordimenti della pubblicità, dal dilagare di parole vuote e dalle onde travolgenti delle chiacchiere e del clamore». Proprio come Maria che, afferma il Vangelo, custodiva tutte queste cose, meditandole. «Quali erano queste cose?», si domanda il Papa, «erano gioie e dolori: da una parte la nascita di Gesù, l’amore di Giuseppe, la visita dei pastori, quella notte di luce. Ma dall’altra: un futuro incerto, la mancanza di una casa, perché per loro non c’era posto nell’alloggio, la desolazione del rifiuto, la delusione di aver dovuto far nascere Gesù in una stalla».   Speranze e angosce, luce e tenebra, precisa il Pontefice, «tutte queste cose popolavano il cuore di Maria e lei, che cosa ha fatto? Le ha meditate, cioè le ha passate in rassegna con Dio nel suo cuore. Niente ha tenuto per sé, niente ha rinchiuso nella solitudine o affogato nell’amarezza, tutto ha portato a Dio». Così, spiega Francesco, «ha custodito… affidando si custodisce: non lasciando la vita in preda alla paura, allo sconforto o alla superstizione, non chiudendosi o cercando di dimenticare, ma facendo di tutto un dialogo con Dio». Il quale, assicura Papa Francesco, «ci ha a cuore» e «viene ad abitare le nostre vite». Ecco «i segreti della Madre di Dio: custodire nel silenzio e portare a Dio». E «ciò avveniva nel suo cuore. Il cuore invita a guardare al centro della persona, degli affetti, della vita. Anche noi, cristiani in cammino, all’inizio dell’anno sentiamo il bisogno di ripartire dal centro, di lasciare alle spalle i fardelli del passato e di ricominciare da ciò che conta», sottolinea Francesco. «Oggi davanti a noi il punto di partenza: la Madre di Dio. Perché Maria è esattamente come Dio ci vuole, come vuole la sua Chiesa: Madre tenera, umile, povera di cose e ricca di amore, libera dal peccato, unita a Gesù, che custodisce Dio nel cuore e il prossimo nella vita».   Quindi «per ripartire, guardiamo alla Madre, nel suo cuore batte il cuore della Chiesa» e «per andare avanti, ci dice la festa di oggi, occorre tornare indietro: ricominciare dal presepe, dalla Madre che tiene in braccio Dio». Perché «la devozione a Maria non è galateo spirituale, è un’esigenza della vita cristiana». (a cura di G. Galeazzi)

Racconto di Natale
_Non avete mai pensato, a Natale, di regalare una bugia? Una di quelle che consolano e che smussano la realtà?

Il regalo di Natale per mia suocera

Oggi è ferragosto, non ho niente da fare e vado a trovare mia suocera. Quando entro la trovo al centro della sua stanza, in piedi, immobile, mansueta.
La cosa più difficile per me ogni volta che vengo a farle visita, non è tanto guardare quegli occhi in cui sembra che lei non ci sia più, ma mantenere una parvenza accettabile di conversazione, una successione fluida di domande e risposte. Quella è la cosa più faticosa e logorante, sul serio.
Per tenere viva l’attenzione bisogna parlarle di sua mamma morta trent’anni fa, o dei suoi cinque figli, o della casa in cui è nata a Roseto degli Abruzzi.
Mi avvicino a lei e l’abbraccio e sento che i suoi muscoli si irrigidiscono al contatto. La stringo a me, piano. Lei non fa nulla, non ricambia, rimane con le braccia lungo il corpo.
«Come stai?» le chiedo staccandomi da lei.
«Bene».
«Ti hanno già dato il Seroquel?»
«Che?»
«Le medicine».
«Non so, forse».
«Sono venuti a trovarti i tuoi figli?»
«Penso di sì, loro vengono sempre».
«Sai, sono tornato oggi dal mare, Irene e il bambino sono rimasti».
«Perché sei tornato?»
«Per stare un po’ con te».
«Ah».
«E anche per finire il mio libro».
«Fai… farai… vuoi fare lo scrittore?»
«Mi piace scrivere, dovresti saperlo, hai letto i miei romanzi».
«Mah…»
«Non ti ricordi di che parlano? Il protagonista è sempre lo stesso, il commissario».
Lei mi fissa senza parlare, nei suoi occhi una calma melmosa.
«Da un paio di giorni il mio personaggio sta seguendo un caso. Hanno ucciso uno scrittore, l’hanno trovato al Parco della Caffarella con la testa spaccata». «Mi dispiace».
Vorrei raccontarle un po’ di più della trama del nuovo libro perché altrimenti non so con chi parlarne: mia moglie, sua figlia cioè, non mi chiede mai niente, e anche il mio editor non si interessa, non mi telefona, non mi sprona a consegnare: forse il mio ultimo giallo ha venduto troppo poco e vogliono scaricarmi. Ma non importa, sono affezionato al mio commissario e le sue storie mi appassionano e provo sempre un piacere assurdo a scriverle. Infatti ora voglio andare subito a casa, ordinare una pizza boscaiola e ubriacarmi con vino scadente, e poi riprendere la storia dal punto in cui l’ho lasciata. Il mio commissario mi aspetta: l’ho mollato a casa della famiglia dello scrittore. È in salotto, seduto sul divano insieme alla moglie e al figlio di dieci anni della vittima. Il televisore è spento in segno di lutto.  «Francesca, io vado». «Dove?»
«A casa».
«Mi avevi promesso che mi portavi a Roseto».
«Un giorno ti ci porto».
«Avevi detto a Natale». «Ma adesso è ferragosto».

«Ah, peccato».
La prendo per un braccio e la conduco lentamente fino alla poltrona di velluto verde, accanto alla finestra.
«Siediti, ti accendo la televisione».
Ma lei rimane in piedi, si avvicina al vetro, guarda fuori.
«A quest’ora dovrebbe esserci Poirot. Te lo ricordi? Ti piaceva tanto con quei baffi arricciati».
«Se lo dici tu».
«Allora ciao, ci vediamo presto. Vedrai che verranno a trovarti i tuoi figli nei prossimi giorni, quando tornano dalle vacanze».
Esco dalla stanza, scendo le scale di corsa, arrivo nella sala delle attività ricreative: alcune ricoverate, spettinate come se si fossero appena alzate, sono sedute sui divani di pelle e fumano usando come portacenere i bicchierini di plastica del caffè. Altre mi passano di fianco e si fermano a guardarmi. Io le saluto con un leggero inchino della testa, oltrepasso la porta automatica, e faccio per andare verso il parcheggio.
Mentre cammino mi volto quasi casualmente a controllare la finestra del suo piano. Lei è ancora lì, sembra che guardi sotto, che mi stia cercando. So che non è possibile, non ci vede nemmeno bene, e poi si è già dimenticata della mia visita, ma non capisco che mi prende, non ce la faccio ad andarmene così, e all’improvviso non ho voglia di cenare da solo nella mia casa vuota.
Torno indietro, rientro, mi rifaccio tutte le scale, apro la porta della sua stanza e le dico: «Andiamo a Roseto».
Lei si gira, mi fissa qualche istante come se non mi riconoscesse, poi con una smorfia quasi infantile in quel volto invecchiato, mi dice: «Davvero? È Natale?»
Io mi avvicino a lei: «Sì, è Natale» le dico, sentendomi falso e ridicolo.
Poi la prendo sotto al braccio e usciamo dalla stanza, anche se lei indossa la vestaglia e le pantofole. Scendiamo al piano terra, l’infermiera al bancone non mi ferma perché mi riconosce e immagina che la porti a fare due passi nel giardinetto, dove c’è la statua dell’Immacolata, bianca e di gesso. Usciamo fuori, arriviamo alla macchina, la aiuto a entrare, mi siedo alla guida e parto.
Supero il cancello, prendo la strada principale, poi dopo un paio di chilometri svolto, faccio qualche giro intorno ai palazzi del quartiere, quindi mi fermo davanti a un portone. Spengo la macchina.
«Ecco», dico, «siamo arrivati».
Lei solleva lentamente la testa, guarda in alto, confusa.
«Mi avevi detto che era un palazzo rosa, rosa antico avevi specificato, con un portone di legno scuro. Te lo ricordi? Lo riconosci, Francesca?»
Lei non dice niente, annuisce appena, fissando il parabrezza. Non parliamo per diversi minuti, io mi guardo intorno e lei sembra scivolare lentamente verso il sonno. Ma a un certo punto sento che ha un tremito e cerca la mia mano, la trova, la stringe, e io intreccio le dita alle sue.
«Grazie, lo sapevo che mi ci avresti portato, tu sei il mio figlio preferito», mormora.
Io mi avvicino e la bacio sulla guancia.
«È il mio regalo di Natale», dico.
Poi dopo qualche minuto piega la testa e si addormenta e comincia a russare lievemente. Io rimango così, continuo a vegliarla e a tenerle la mano, come si fa con una fidanzata al cinema.

di Massimo Governi, da Futura, Corriere della Sera


libri

Quando pregate dite Padre nostro, di papa Francesco con Marco Pozza, ed Rizzoli

“Ci vuole coraggio per pregare il Padre nostro. Ci vuole coraggio. Dico: mettetevi a dire ‘papà’ e a credere veramente che Dio è il Padre che mi accompagna, mi perdona, mi dà il pane, è attento a tutto ciò che chiedo, mi veste ancora meglio dei fiori di campo. Credere è anche un grande rischio: e se non fosse vero? Osare, osare, ma tutti insieme. Per questo pregare insieme è tanto bello: perché ci aiutiamo l’un l’altro a osare.” Il Padre nostro è la preghiera che racchiude tutte le altre, quella che Gesù stesso ha donato ai suoi discepoli per rispondere alla loro richiesta: “Insegnaci a pregare”. In questo libro, Papa Francesco la illumina versetto per versetto rispondendo alle domande di don Marco Pozza, teologo e cappellano del carcere di Padova. Le parole insegnate da Gesù entrano in risonanza con episodi della vita di Jorge Mario Bergoglio, con la sua missione apostolica e con le inquietudini e le speranze delle donne e degli uomini d’oggi, fino a diventare la guida per una vita ricca di senso e di scopo. Ogni capitolo della conversazione si conclude con dei testi di Papa Francesco – pronunciati nelle udienze del mercoledì o negli Angelus – che approfondiscono e sviluppano temi cruciali come la paternità, la grazia, il perdono, il male. Alla fine, don Marco Pozza porta il Padre nostro dentro il carcere, e lascia che due suoi parrocchiani diano voce al dolore che percorre le loro esistenze e alla loro speranza di misericordia.

   A. M. Canopi, Come astri nel cielo, ed San Paolo

Anna Maria Cànopi propone un testo di lectio divina sulle stelle nella Bibbia, per guidare e accompagnare il lettore a contemplare le “stelle della vita”.  Fondatrice e abbadessa dell’Abbazia benedettina Mater Ecclesiae sull’Isola di San Giulio (NO), è voce autorevole nell’ambito della spiritualità biblica e monastica. Fra i suoi numerosi testi, ricordiamo le ultime pubblicazioni con Paoline: Vita nuova nell’amore (2016), Nel « sì » di Maria,  Una lettura spirituale della Regola di Benedetto (2017), I Salmi. Canto di Cristo e della Chiesa (2017), Parole di luce,365 giorni con Anna Maria Cànopi (2017).  Tutti i Santi e commemorazione dei defunti

La festa di Ognissanti risale alla fine del secolo VIII, quando l’episcopato franco la istituì per sostituirla al Capodanno celtico, che cominciava all’inizio di novembre. Ci vollero parecchi secoli per diffonderla in tutta l’Europa: soltanto nel 1475 Sisto IV la rese obbligatoria per la Chiesa universale. «Viene spontaneo chiedersi perché i Celti avevano fissato il capodanno nel cuore dell’autunno. Un contadino lo capirebbe immediatamente, perché questa è l’epoca in cui è finita una stagione agraria e s’inizia la nuova. Il grano è stato appena seminato, è sceso negli inferi, nel cuore della terra, e comincia il suo lento cammino verso la futura germinazione. Per cristianizzare questo capodanno la Chiesa franca istituì non soltanto Ognissanti ma anche la Commemorazione dei defunti». Che quest’ultima sia il residuo di una festa di Capodanno, lo si evince da un uso praticato anche ad Agnone, nel Molise. E’ credenza diffusa che, in occasione della festa dei Santi, tutti i morti lascino la loro sede nell’aldilà e sono liberi per quaranta giorni: fino alla festa dell’Epifania quando ognuno deve tornare al suo posto di pena o gioia eterna. Appena in libertà, i morti si dispongono in lunga processione (si crede che vengano seppelliti con gli abiti da festa, perché, in questa circostanza, possano fare bella figura) e, a mano a mano che ciascuno giunge in prossimità di quella che fu casa sua, lascia il corteo e torna fra i parenti. Perciò la sera del primo novembre si va a dormire presto altrimenti i morti non possono rientrare in casa. Si ha cura di lasciare la tavola apparecchiata e l’acqua nella tina, perché il morto resta in casa e, mestamente, la sera dell’Epifania, si appresta a lasciare i suoi con questo lamento: Vorrei che tutti i Santi andassero e venissero / e Pasqua dell’Epifania non venisse mai.
tratto da Le Feste di Agnone – Palladino Editore, CB 2001

Nuova Lepanto? Riproduciamo qui quanto già esposto sul “muro” dell’Abbazia domenica scorsa, per quanti han chiesto di avere il testo: ma soprattutto ora che nell’Est europeo si sta formando quel blocco nero che dal post comunismo sta passando a un fascio-populismo, appoggiandosi, o nascondendosi, dentro devozioni fuorvianti. >>>   “I vescovi polacchi si sono messi su una strada pericolosa… Il Rosario è una preghiera bellissima, ma i vescovi non hanno previsto né hanno capito per tempo che poteva essere usato come un’arma ideologica dalla propaganda del governo». È un giudizio severo quello espresso in una intervista a Famiglia Cristiana dal vescovo Tadeusz Pieronek, storico segretario della Conferenza episcopale polacca e membro della Commissione che ha scritto la Costituzione post-comunista, sulla manifestazione “II Rosario alle frontiere” che si è svolta lo scorso sabato 7 ottobre lungo tutti i confini del Paese. Una iniziativa che ha registrato la partecipazione di circa un milione di persone provenienti da 22 diocesi su un totale di 42, ricevendo l’appoggio dei vertici della Conferenza episcopale e della locale Radio Maria e della Tv pubblica polacca che l’hanno trasmessa in diretta. Secondo monsignor Pieronek, tuttavia, essa è stata strumentalizzata: «Oggi in Polonia – spiega – tutto viene trasformato in politica dal governo e dai media che sono quasi tutti praticamente controllati dal governo, il quale è contrario all’accoglienza dei profughi e degli immigrati. Non accorgersi di questo da parte della Chiesa è stata per lo meno una ingenuità molto grave» . «Anche se non è stata usata questa formula», afferma il presule, con questa preghiera di massa si è alzato un muro, per lo meno spirituale, contro gli immigrati e il resto dell’Europa: «In Polonia è in atto una battaglia per persuadere la gente che ogni profugo è un bandito che attenta all’identità polacca ed è una minaccia grave e reale per la salute e la vita dei polacchi». «È chiaro – aggiunge Pieronek – che tutti i polacchi che hanno partecipato al Rosario sono contro il pensiero e l’insegnamento di Papa Francesco. Purtroppo». E lo sono anche diversi rappresentanti del Governo: «Un ministro polacco ha detto esplicitamente che in questo caso specifico il Papa sta sbagliando». Da parte sua la Chiesa «appoggia il Governo. Le voci critiche sono poche». I vescovi «ritengono che con questo Governo, che si dichiara fedele alla Chiesa, si possa più facilmente convertire la gente. Ma purtroppo non è vero». Invece tra la popolazione solo il 40% esprime il suo consenso verso la classe politica dirigente: «È sbagliato dire che tutta la Polonia è d’accordo con il governo», sottolinea l’ex segretario dell’episcopato; lo dimostrano le manifestazioni organizzate quasi ogni giorno contro leggi e decisioni come la recente riforma della scuola e dei testi scolastici dai quali oltre a Darwin è stato fatto sparire anche Lech Walesa e l’esperienza di Solidarnosc. «Una cosa tragica», la definisce monsignor Pieronek. Che in particolare esprime la sua preoccupazione per il fatto che «a parole il Governo dice di voler restare in Europa. In realtà fa di tutto per uscirne». «Mi domando fin dove oserà spingersi», dice, «ogni giorno vediamo che il Governo si applica a smontare un pezzo di democrazia. Tutto è organizzato per contrastare e superare alla fine la democrazia liberale per realizzare una sorta di democrazia populista. La dirczione che il Governo ha intrapreso sta riportando indietro la Polonia ai tempi del regime comunista».

È un nostro problema, la tratta degli esseri umani

Vi segnalo questo articolo del cardinale arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols, per i lettori del sito. Ho preso davvero coscienza della schiavitù moderna per la prima volta nel 2012, sentendo parlare Sophie Hayes (una vittima del traffico di esseri umani che ha scritto un best-seller sulla sua esperienza). Mi colpì il fatto che lei fosse inglese e che era stata portata in Italia a lavorare come schiava del sesso. La cosa mi fece mettere in discussione tutte le mie idee preconcette sul fatto che il traffico umano era un problema altrove, che riguardava altri paesi. In seguito mi resi conto di quale centro per il traffico umano fosse Londra, e quindi diventò ancor più necessario comprenderlo. Poi, più o meno nel periodo delle Olimpiadi di Londra di quell’anno, la polizia cercò di cooperare con alcune religiose. Attorno a questi grandi eventi sportivi si crea sempre un’industria del sesso e vengono importate donne che sono letteralmente ridotte in schiavitù. Notai che le religiose svolgevano gran parte del lavoro in prima linea per dare sostegno a quelle donne. In seguito tenemmo un incontro pubblico sul traffico umano, al quale parteciparono molte donne filippine. Mi resi conto che la comunità cattolica, essendo tanto diversificata a Londra, aveva contatti con molte donne vittime del traffico umano. Kevin Hyland, che all’epoca stava alla Met (ora è il Commissario indipendente anti-schiavitù) venne da noi in cerca di cooperazione. Molte tra le religiose non erano inclini a cooperare. La polizia tendeva a perseguire le persone che ora consideriamo vittime di traffico, sicché Kevin ebbe un bel daffare per convincerle che a lui non interessava perseguire. Poco a poco si creò una collaborazione, basata sul suscitare consapevolezza e ricettività e offrire educazione nelle diverse comunità. Fu evidente che la cooperazione tra le risorse della Chiesa cattolica e la polizia era feconda. Parlammo con vescovi e capi della polizia in altri paesi e questa iniziativa avviata a Londra, chiamata Santa Marta Group, iniziò a diffondersi. Al nostro primo incontro nel 2014 è venuto Papa Francesco, insieme alle forze di polizia di venti nazioni. All’incontro più recente, lo scorso anno, hanno partecipato oltre trenta capi della polizia. Papa Francesco è stata una figura molto importante in tutto questo. Per oltre trent’anni ha lavorato con i moderni schiavi, quindi è particolarmente consapevole del problema. Intervistato in proposito, ha descritto la schiavitù moderna come una dolorosa ferita nel corpo dell’umanità e quindi, per i cattolici, una ferita nel corpo di Cristo. Ha detto che il mondo deve imparare di nuovo a piangere; e da qui comprendiamo la necessità di agire. Al termine di quel primo incontro mi ritrovai accanto a lui, che mi disse: «Si assicuri che questo continui, perché è molto più utile della maggior parte degli incontri ai quali devo partecipare». Con un mandato del genere, dunque, non posso non essere motivato, ma al centro di tutto ci sono le vittime di questo commercio crudele, davvero crudele, e dobbiamo sempre ricordarle e metterle al primo posto. «The Indipendent» ed «Evening Standard» hanno una diffusione straordinaria. Una delle speranze di questa analisi e di questo gruppo di esperti è di riuscire ad aiutare a mettere in guardia tutti i settori — finanza, affari, governo, media —, come anche la gente a Londra e in generale, così da poter contribuire a consolidare una risposta. Dobbiamo far sapere alle persone che cosa cercare, come denunciarlo e come evitare di procurare affari a questi criminali. La dignità della persona è legata al suo lavoro. Se il lavoro degrada o sfrutta, corrode l’essenza della persona e la sua dignità umana. Tutti noi dobbiamo impegnarci duramente per contribuire a porre fine a questa grande piaga.

Mi piacerebbe che nel sito poteste mettere questo sunto di A. Tornielli di un discorso del Papa in Colombia: mi pare dica tanto di quello che ascoltiamo nelle nostre celebrazioni a Fontanella (ma anche altrove, per grazia di Dio). (m.a.)

Il Papa da Medellin parla a tutta la Chiesa

Nell’omelia Francesco ricorda che Gesù spiegava ai dodici che «obbedire è camminare dietro a Lui, e che quel camminare li poneva davanti a lebbrosi, paralitici, peccatori. Questa realtà domandavano molto più che una ricetta, una norma stabilita», a coloro che invece si sentivano sicuri seguendo «alcuni precetti, divieti e comandi». «Per il Signore, anche per la prima comunità – afferma Francesco – è di somma importanza che quanti ci diciamo discepoli non ci attacchiamo a un certo stile, a certe pratiche che ci avvicinano più al modo di essere di alcuni farisei di allora che a quello di Gesù».  Dopo aver notato che la libertà di Gesù si contrappone alla mancanza di libertà dei dottori della legge di quell’epoca, paralizzati da un’interpretazione e da una pratica rigoristica della legge, Bergoglio osserva che Gesù «non si ferma ad un’attuazione apparentemente “corretta”» ma «porta la legge al suo compimento e perciò vuole porci in quella direzione, in quello stile di sequela che suppone andare all’essenziale, rinnovarsi e coinvolgersi». Tre sono gli atteggiamenti del discepolo, spiega Francesco. Il primo è «andare all’essenziale», che «non vuol dire “rompere con tutto” ciò che non si adatta a noi, perché nemmeno Gesù è venuto ad abolire la Legge, ma a portarla al suo compimento. È piuttosto andare in profondità, a ciò che conta e ha valore per la vita. Gesù insegna che la relazione con Dio non può essere un freddo attaccamento a norme e leggi, né tantomeno un compiere certi atti esteriori che non portano a un cambiamento reale di vita. L’essere discepoli non può diventare «una consuetudine, perché abbiamo un certificato di battesimo, ma deve partire da un’esperienza viva di Dio e del suo amore».  «Il discepolato – dice ancora il Papa – non è qualcosa di statico, ma un continuo movimento verso Cristo; non è semplicemente attaccarsi alla spiegazione di una dottrina, ma l’esperienza della presenza amichevole, viva e operante del Signore, un apprendistato permanente per mezzo dell’ascolto della sua Parola. E tale Parola, lo abbiamo ascoltato, ci si impone nei bisogni concreti dei nostri fratelli». La seconda parola indicata dal Papa è «rinnovarsi». Come Gesù «scuoteva i dottori della legge perché uscissero dalla loro rigidità, ora anche la Chiesa è “scossa” dallo Spirito perché lasci le sue comodità e i suoi attaccamenti. Il rinnovamento non deve farci paura. La Chiesa è sempre in rinnovamento – Ecclesia semper reformanda –. Non si rinnova a suo capriccio, ma lo fa fondata e ferma nella fede, irremovibile nella speranza del Vangelo che ha ascoltato». Rinnovarsi «richiede sacrificio e coraggio, non per sentirsi migliori o impeccabili, ma per rispondere meglio alla chiamata del Signore. Il Signore del sabato ci invita a ponderare le norme quando è in gioco il seguire Lui; quando le sue piaghe aperte, il suo grido di fame e sete di giustizia ci interpellano e ci impongono risposte nuove». La terza parola è «coinvolgersi». Coinvolgersi, «anche se per qualcuno questo può sembrare sporcarsi, macchiarsi». «Oggi a noi è chiesto di crescere in audacia, in un coraggio evangelico che scaturisce dal sapere che sono molti quelli che hanno fame, fame di Dio, fame di dignità, perché sono stati spogliati. E, come cristiani, aiutarli a saziarsi di Dio; non ostacolare o proibire loro questo incontro». «La Chiesa – ha aggiunto a braccio – non è una dogana, ha la propria porta aperta perché il cuore di Gesù non è solo aperto, ma trafitto per l’amore che si è fatto dolore». «Non possiamo – ha continuato – essere cristiani che alzano continuamente il cartello “proibito il passaggio”, né considerare che questo spazio è mia proprietà, impossessandomi di qualcosa che non è assolutamente mio». La Chiesa, infatti, ripete Francesco, «non è nostra, è di Dio; Lui è il padrone del tempio e della messe; per tutti c’è posto, tutti sono invitati a trovare qui e tra noi il loro nutrimento. Tutti, buoni e cattivi, sani e malati! Noi siamo semplici “servitori” e non possiamo essere quelli che ostacolano tale incontro. Al contrario, Gesù ci chiede, come fece coi suoi discepoli: “Voi stessi date loro da mangiare”; questo è il nostro servizio».

La singolare storia di un prete operaio a Cuba  —  Mons. José Félix Pérez, 70 anni, per più di due decenni Segretario generale della Conferenza dei vescovi cattolici di Cuba e in questa sua qualità una delle grandi segrete risorse della chiesa cubana per l’organizzazione e il successo della visita di tre Papi. Anzi, queste visite illustri e rilevanti hanno beneficiato enormemente dell’esperienza, impegno, lucidità e lavoro di questo prete straordinario seppure mite e schivo. Quando aveva 27 anni, l’allora giovane padre José Félix Pérez, ordinato da poco, chiese autorizzazione sia ai suoi superiori sia alle autorità statali per poter lavorare come operaio oltre ad esercitare, al tempo stesso, il suo ministero sacerdotale. “Volevo portare la mia piccola testimonianza della presenza di Cristo nel mondo del lavoro”, spiega oggi il sacerdote e poi aggiunge: “E volevo anche dimostrare che un sacerdote si può mantenere  con il suo lavoro”. In quel tempo José Félix era stato già nominato parroco di Jovellanos a 160 km ad est della capitale nella provincia di Matanzas. La richiesta del prete, come  lui stesso ricorda, provocò “perplessità, sorpresa, imbarazzo e disorientamento”, fuori e dentro della Chiesa. Erano gli anni in cui Cuba si definiva costituzionalmente uno stato ateo. Le tensioni tra Chiesa e stato erano molte e continue. “Certo, dice il cardinale Jaime Ortega, non erano tragiche come in altri luoghi, ma comunque dure e difficili”. Il desiderio di padre José Félix Pérez si collocava fuori da ogni categoria del momento socio-politico nonché religioso e cozzava con le abitudini e le regole sia dello stato che della chiesa. La riposta delle autorità arrivò 10 mesi dopo la richiesta ed era positiva, anzi, a padre José Félix veniva indicato il luogo e il posto dove poteva lavorare regolarmente come operaio: “pailero” (stagnaio-fabbro) presso la Fonderia “2 settembre” di Jovellanos. Allora tra alcuni circolava l’idea che il prete non si sarebbe mai presentato al lavoro richiesto e che tutto era poco serio, forse una “trovata” per accrescere ulteriormente le tensioni. Invece il prete si presentò il primo giorno come indicato e così fece tutti i giorni per sette anni. Juan Rodríguez, militante comunista, lavoratore esemplare e fra i dirigenti della Fonderia, oggi 75 anni ricorda: “Padre José Félix Pérez era un ottimo operaio. Lavorava sodo. Non criticava e rispettava tutti. Andava bene con tutti e con tutti collaborava senza problemi. Lo stesso facevamo noi con lui”.  Per il prete il lavoro in Fonderia, come confesserà anni dopo, era faticoso e a volte una sfida al di sopra delle sue capacità fisiche essendo debole e magrolino. Poi, dopo le otto ore di lavoro José Félix esercitava il suo ministero sacerdotale presso la parrocchia di Jovellanos così come ora, ultrasettantenne, fa presso la parrocchia di Santa Rita, La Habana. La figura di questo prete-operaio non è stata sempre vista e considerata con entusiasmo in alcuni settori ecclesiastici anche se “padre Pepe” – così lo chiamavano comunemente tutti -, aveva l’autorizzazione del suo vescovo, mons. José Domínguez, diocesano di Matanzas, il quale firmò regolarmente tutti i documenti del Ministro del lavoro richiesti al sacerdote.

Quando la tv deve essere spenta  —-   E’ polemica tra il giornalista di Internazionale Christian Raimo e il direttore del Giornale Alessandro Sallusti. Raimo, ospite della trasmissione di Maurizio Belpietro “Dalla vostra parte”, su Rete 4, ha interrotto con un cartello provocatorio l’intervento di Sallusti sui migranti. “Non c’avete un altro servizio sui negri cattivi?”, ha scritto il giornalista di “Internazionale” che ha poi abbandonato la trasmissione. Alcune ore dopo Raimo ha pubblicato un lungo Post su Facebook in cui si dice indignato di fronte a una trasmissione “orripilante, che si compone essenzialmente di servizi, girati con i piedi, su neri che stuprano, neri che rubano, neri che minacciano bambini, neri che occupano le case degli italiani, neri che sono troppi, neri che se ne dovrebbero andare, neri che è già tanto che li sopportiamo e non li facciamo affogare tutti”. Dopo aver criticato forma e contenuti della trasmissione condotta da Belpietro, Raimo si è scagliato contro la televisione che crea paura sfruttando disinformazione e “ignoranza storica e contemporanea”. Il post del giornalista ha scatenato un ampio dibattito sui social tra chi sposa completamente la linea di Raimo e chi, al contrario, si trova su posizioni completamente opposte. Non sono mancati insulti, offese e volgarità a sfondo razzista rivolte al giornalista.

libri da rileggere
C’è un tempo per tutto; e il tempo dell’estate si presta a rileggere i libri della memoria; qui alcuni titoli che si mettono in comune: non saranno stati i vostri?  lasciatevi prendere dalla curiosità. e troverete forse nuove trivellazioni dello spirito.
Nel 1953 Goffredo Parise si trasferisce a Milano: ha il vago desiderio di scrivere un romanzo che diverta e commuova “tanto da cacciare il freddo e la solitudine”: un romanzo “con molti personaggi allegri”, ma soprattutto “estivo”. Uscito nel maggio del 1954, “Il prete bello” riscuoterà un clamoroso successo. E rileggendolo oggi ci accorgiamo che il suo segreto sta tutto in quella genesi: nella festosa eccentricità dei personaggi che popolano un labirintico e fiabesco caseggiato nella Vicenza del 1940, e di colui che saprà stregarli tutti: don Gastone, il “prete bello”: vanesio, si infiltra come una passione oscura, violenta ma capace di dare improvvisamente vita – e ci si trova di fronte a “una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definiti” come avrebbe scritto Eugenio Montale.

Di Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, ed Einaudi, pagg 345. Per decenni venne considerato fulcro essenziale delle Memorie di Adriano il giovane e bellissimo Antinoo e la felicità dei sensi, l’amore e il passaggio dall’appagamento alla stanchezza, il suicidio rituale di Antinoo e la conseguente disperazione dell’imperatore, la divinizzazione dell’amato, l’incolmabile vuoto. Eppure nelle Memorie di Adriano non era certo una storia d’amore il fine dell’autrice. L’attualità di questo libro, al di là della rievocazione storica e delle riflessioni sapienziali, sta proprio nel senso di una fine che è cominciata nel secondo secolo dopo Cristo, che si è riprodotta nei grandi drammi del Novecento e che forse riviviamo anche oggi. “È certo possibile dire  che ci troviamo davanti a un tentativo, forse tra i più concentrati ed estremi, di narrazione esperienziale, e quindi di meditazione interiore spirituale e filosofica”.   Il miracolo di padre Malachia, di Bruce Marshall Ed  Jaca Book, Pag 247_ Il protagonista Malachia Murdoch, un vecchio benedettino scozzese,  si è appena lanciato in una sfida temeraria contro un ministro della Chiesa riformata. Pubblicato in Inghilterra nel 1931, resta uno dei tornanti del pensiero cristiano: miracoli, sì o no? Ma la fede è nel successo o nel nascondimento?

ll potere e la gloria, di Graham Greene, ed Mondadori —-  La religione non odora sempre di santità. Anzi. La vocazione del prete del romanzo di Greene nasce dalla voglia di diventare ricchi e rispettati, di occupare un posto in società e di essere desiderati e resi necessari dagli altri, anche soltanto perchè una donna ti ferma per strada per baciarti la mano in segno di rispetto. La religione non solo non é pura e disinteressata ma é anche inestricabilmente legata al peccato.  Lettura che lascia il segno e stimola la meditazione su importanti scelte di vita. E’ un classico che, a distanza di decenni dalla sua pubblicazione, riesce a colpire sempre.

George Orwell, La fattoria degli animali. È un romanzo satirico del 1945, ambientato in una fattoria dove gli animali, stanchi dello sfruttamento dell’uomo, si ribellano. Dopo aver cacciato il padrone, decidono di dividere il risultato del loro lavoro seguendo il principio «da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni». Il loro sogno fallisce perché i maiali, gli ideatori della “rivoluzione”, prendono il controllo della fattoria, diventando sempre più simili all’uomo, finché non diventano peggio dell’uomo stesso. Una parabola degli animali politici che tentano la rivoluzione, oggi: e già si vede che partendo da sé, e non dalla saggezza della storia, finiranno per arrivare a sé. E dunque sconfiggendo ciò per cui si sono dati.

IL FIGLIO INTERROTTO, di Andrè Miquel. Non è un romanzo. È il diario tenuto da un padre registrando la malattia per cancro del proprio figlio. Una scansione di giorni che diventa una scansione di vita. rileggerlo (o leggerlo per la prima volta) mette di fronte all’enigma dell’amore genitoriale per una crescita che si sa sarà interrotta. E dunque al drammatico tema della imponderabilità degli sforzi per trattenere quanto è chiamato altrove. Una parabola che si addice alla vita quando – ed è sempre – chiama a un interruzione. Ed Sei, 1971, pagg 148

I santi vanno all’inferno, di Gilbert Cesbron, Massimo Editore, pp. 336 —  Romanziere francese del ventesimo secolo di ispirazione cattolica, Cesbron in questo romanzo racconta dell’impegno dei preti operai nella periferia parigina. Il protagonista, Pietro, sceglie infatti attraverso la sua condizione di prete operaio di predicare il Vangelo nella banlieu parigina Sagny, un posto dimenticato che non si trova neanche sulla cartina geografica di Parigi. L’autore usa un linguaggio molto efficace per descrivere la rassegnazione delle famiglie che vivevano in periferia. Si veda, ad esempio, la disperazione di Paoletta, che pensa di abortire perché non può sfamare un altro figlio. Anche se il nome della periferia di cui si narra è pura invenzione, alcuni personaggi del racconto sono realmente esistiti: come il cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi, che si fa accompagnare a bordo di una vecchia utilitaria per visitare i sobborghi di Parigi e comprendere una realtà distante da quella più confortevole della sua residenza vescovile. Il romanzo fu pubblicato (1982) durante una vivace polemica, in ambienti ecclesiastici, nei confronti della figura del prete operaio, ma nel romanzo non si vuole entrare nel merito di questa scelta: quello che si vuole invece evidenziare è lascelta sempre attuale di tutti quei religiosi che scelgono di vivere in maniera umile accanto a chi vive ai margini della società per realizzare nella loro vita la predilezione di Cristo per i poveri e testimoniare una religiosità non fatta di formalismi ma più vicina alla persona. Questo romanzo è stato infatti citato e fonte di ispirazione nel tempo per tanti preti che hanno voluto portare la propria testimonianza di fede a contatto con la gente, vivendo il Vangelo per strada e non nel chiuso di una Chiesa. Molto interessante per capire lo spirito del romanzo è la nota finale nella terza edizione da parte di Padre Voillaume, in cui si evidenzia lo spirito del libro che testimonia il desiderio di una religione più vicina alla gente, dove appunto dice che il libro “avrà fatto qualcosa di buono se riuscirà a convincere il cristiano che la carità di Cristo lo sollecita a sorpassare in sé i limiti di separazione, conseguenza dell’appartenere a questo o quell’ambiente, che si oppongono all’unione degli uomini e alla diffusione del regno di Dio sulla terra”.

La lezione di padre Kolbe 

Ad Auschwitz, luogo che forse più di altri condensa simbolicamente in sé gli orrori del Novecento, per promuovere oggi il dialogo, la riconciliazione e la pace: protagonisti del workshop organizzato dall’11 al 16 agosto dalla fondazione Maximilian Kolbe sono giovani provenienti da quattordici paesi, tra cui Russia, Ucraina, Stati Uniti, Germania e Polonia. Quattro i partecipanti inviati dal Consiglio interreligioso della Bosnia ed Erzegovina in rappresentanza delle comunità serbo-ortodossa, cattolica, musulmana ed ebraica. L’arcivescovo di Bamberg, Ludwig Schick, presidente della commissione Chiesa nel mondo della Conferenza episcopale tedesca, ricorda soprattutto quanto oggi sia importante conoscere il passato per promuovere la riconciliazione: «C’è ancora molto da fare in Europa a questo riguardo. Non c’è pace — afferma il presule — e la pace non si mantiene senza un impegno costante. La riconciliazione e la pace sono un impegno permanente e non hanno data di scadenza. Chi tralascia questo impegno, perde la pace». Ed è per costruire un futuro di pace che si rivolge in particolare alle nuove generazioni la fondazione intitolata al santo martire francescano, che proprio nel campo di concentramento di Auschwitz offrì la propria vita.
6 agosto, a ricordo di Paolo Sesto, beato
Ricordo con nostalgia i giorni sereni e spensierati a Melchtal, piccolo paese della Svizzera tedesca, non lontano dall’abbazia benedettina di Engelberg, dove eravamo soliti trascorrere un periodo di vacanza nel mese di agosto, dopo la festa della Madonna Assunta. Lo zio era particolarmente sensibile e attratto dalla spiritualità benedettina dell’ora et labora e presso questi monaci trovò sempre ospitalità premurosa e gentile. Pranzavamo insieme, ci faceva giocare, andavamo a visitare abbazie, eremi, ospizi alpini e con le cremagliere salivamo verso grandi vette innevate; a volte, percorrendo stretti e ripidi sentieri la sua mano stringeva la mia, dandomi sicurezza e forza che mi pare avvertire ancora oggi. Gli incontri si diradarono anche a causa della salute precaria del papà, ma non le telefonate che i fratelli continuarono a scambiarsi. Durante la difficile e tormentata stesura dell’enciclica Humanae vitae lo zio chiese più volte un parere al fratello medico: mi pare ancora di rivedere il papà con la cornetta del telefono all’orecchio, discutere a lungo con don Battista. In occasione della festa della natività della Madonna, l’8 settembre, tanto cara alla nostra famiglia, eravamo attesi a Castel Gandolfo. Qui si ricreava quella intimità antica e familiare tra lo zio e il papà. Il primo incontro era molto presto la mattina. Alle 7 partecipavamo alla messa celebrata dallo zio nella cappella privata. Uscivo da quella piccola cappella con una sensazione di grande pace, di gioia completa, di pienezza interiore. Dopo la funzione, il papà faceva colazione con il fratello mentre noi raggiungevamo la cucina dove le carissime e sempre allegre suore di Maria Bambina ci offrivano il caffelatte con fette di torta paradiso. A quei tempi le donne, oltre a coprirsi sempre la testa con il velo, nero la mamma e bianco noi bambine, non erano ammesse alla tavola del Papa. Durante i pochi giorni trascorsi a Castel Gandolfo, mentre gli adulti sedevano su delle poltroncine di vimini a conversare, noi potevamo liberamente scorrazzare per i giardini della villa pontificia alla scoperta di labirinti, laghetti, passaggi segreti, antiche rovine, scalando alberi o giocando a nascondino fino ad arrivare alle fattorie dove vi erano coltivazioni e animali di vario genere. Col passare degli anni, anche noi ci siamo sedute sulle poltroncine di vimini ad ascoltare lo zio e a rispondere alle sue domande. Ricordo i due fratelli seduti vicini, così simili nei tratti e nei gesti, ascoltarsi reciprocamente con attenzione calma e profonda, passeggiare per i viali ombrosi dei giardini vaticani, parlare o lasciare che il silenzio li avvolgesse complice più di tante parole.Rivedo la sua figura alta e sottile, i suoi occhi grigi, azzurri, chiari: lo sguardo non si limitava a guardarvi ma penetrava nei recessi del cuore; le sopracciglia accentuate, le labbra fini e delicate sceglievano con cura le parole, la fronte distesa e senza rughe: il suo viso emanava calma e pace profonda. Il suo passo era lieve e discreto ma teso in avanti ad accogliere con le braccia aperte il visitatore, qualunque esso fosse.                                         di Chiara Montini Matricardino vaccini, no democrazia?  Una aggressione a deputati dopo il voto sui vaccini. Qualunque sia la posizione che si ha sui vaccini (anche se la scienza non è una opinione) aggredire un deputato perché ha votato in un certo modo nell’adempimento del mandato popolare ricevuto è un atto di squadrismo che ci riporta indietro, molto indietro, a tempi che vorremmo non tornassero mai.
Quel che accade in certi settori (nemmeno troppo marginali) della pubblica opinione trova eco ed appoggio in svariati settori politici e parlamentari. Soprattutto nelle fila del Movimento Cinque Stelle (per la Lega il discorso è un po’ diverso) che di quella cultura complottista si è nutrito sin dagli albori del movimento. I «no-vax» e i «no-Tav», come qualunque altro movimento «no», hanno costituito buona parte della base di consenso per il progetto di Grillo e Casaleggio. Al contrario, una linea politica istituzionale, governativa, d’ordine, che non poteva non essere a favore dei vaccini e della obbligatorietà della loro somministrazione, ha trovato nel Partito democratico e nei suoi alleati di centro gli interpreti più coerenti. Anche Forza Italia si è schierata a favore del decreto Lorenzin ma la posizione del partito berlusconiano è apparsa meno «di punta» di quella del Pd e di Renzi,e dunque anche meno esposta, meno oggetto di polemiche e di attacchi. Dunque sono soprattutto i grillini e il centrosinistra a guerreggiare su questo campo estremamente importante, non solo dal punto di vista politico e sanitario, ma anche simbolico, culturale, antropologico. E la contrapposizione è radicale, senza alcuna possibilità di dialogo: alla Camera e ancor di più al Senato si è visto benissimo che si trattava di un dialogo tra sordi che poteva portare solo ad una prova di forza: chi ha i numeri impone la sua soluzione. Va da sé che il M5S già da adesso dice che se vincerà le elezioni una delle prime cose che farà sarà cancellare il decreto Lorenzin. Insomma, dentro e fuori Montecitorio si sono contrapposte due Italia, divise non tanto e non solo dalle opzioni politiche, ma ben più profondamente da due visioni della vita e della società. E quel che più colpisce è il rancore che divide quei due fronti, o meglio il rancore che la parte «emergente», para-istituzionale, porta-vessillo dello scontento verso tutto ciò che è «istituzione», potere, governo. Parallelamente chi si sente portatore di una cultura di governo neanche nasconde il disprezzo verso questo parlamentarismo scapigliato pronto in ogni occasione a gridare «vergogna» (molto meno, diciamo noi, a dare prova concreta di capacità amministrativa). È una spaccatura che non ci lascia tranquilli perché non porta bene ad un Paese inquieto e in difficoltà come il nostro: sarebbe bene che i benintenzionati della classe politica, tutti, si rendessero conto di quanti pericoli essa contenga.(A. Ferrari) la Chiesa in una nuova tempestaI giornali hanno vistosamente riportato i risultati dell’inchiesta voluta dalla diocesi di Ratisbona su quanto avvenuto dal 1945 al 1990 ai ragazzi del Regensburg Domspatzen, il coro della cattedrale.  Violenze varie, che nei titoli di giornali e telegiornali mettono  nello stesso calderone ceffoni e abusi sessuali, che sono cose del tutto diverse. Non si vuole banalizzare le oltre sessanta malversazioni sessuali riscontrate, o le punizioni corporali, a volte, più che severe, crudeli. Solo registrare che si è voluto dare un impatto devastante alla notizia e il numero 500 abbinato alla voce “pedofilia” si prestava meglio allo scopo. Ma, invece di rallegrarsi per l’opera di pulizia che la Chiesa sta realizzando – unica istituzione al mondo che ha intrapreso questa strada anche se non certo l’unica funestata da tale piaga – si è usato di tale scandalo per gettare fango sul Papa emerito tramite il fratello Georg, che di quella scuola di canto fu a lungo maestro. A lui si rimproverano gli scapaccioni dati agli alunni, quelli presi anche da tanti di noi nelle scuole pubbliche e che un tempo erano quasi prassi. Ma soprattutto il fatto che non poteva non sapere – formula magica usata spesso in casi simili – quel che accadeva nella scuola annessa al coro, che si trovava peraltro in un altro paese. Al di là, quel che è  certo è che la sicurezza con la quale si è scritto che egli abbia celato di proposito quegli abusi sessuali, è un’accusa più che indebita, scorretta. Ma l’operazione Ratisbona, ha fatto emergere cose altrettanto scandalose nella Chiesa e attorno alla Chiesa: qualcuno ha cavalcato la notizia, da una parte e dall’altra, per opporre Francesco a Benedetto XVI: quella lotta che partendo da un immotivato attaccamento al papa emerito, ne oppone il magistero a quello del successore, in nome di una ortodossia che si avvale di barocco e trine e latinorum, con cui purtroppo stanno mandando alla storia il pontificato di Joseph Ratzinger: che fu ben altro e di ben altra luce rispetto alla opacità dei suoi attempati papaboys. Che il Signore Gesù abiti sempre la barca dei suoi discepoli, per sedarne le tempeste che offuscano la purezza del suo Vangelo. (almanatt) Il Corpus Domini, del vescovo Tonino Bello

Non riesco a liberarmi dal fascino di una splendida riflessione di Garaudy a proposito dell’Eucaristia: «Cristo è nel pane. Ma lo si riconosce nello spezzare il pane». Sicché oggi, festa del Corpo e del Sangue del Signore, mi dibatto in una incertezza paralizzante.  Ma ecco che mi sovrasta un’altra ondata di interrogativi.
Perché non dire chiaro e tondo che non ci può essere festa del «Corpus Domini» finché un uomo dorme nel porto sotto il «tabernacolo» di una barca rovesciata, o un altro passa la notte con i figli in un vagone ferroviario? Perché aver paura di violentare il perbenismo borghese di tanti cristiani, magari disposti a gettare fiori sulla processione eucaristica dalle loro case sfitte, ma non pronti a capire il dramma degli sfrattati? Perché preoccuparsi di banalizzare il mistero eucaristico se si dice che non può onorare il Sacramento chi presta il denaro a tassi da strozzino; chi esige quattro milioni a fondo perduto prima di affittare una casa a un povero Cristo; chi insidia con i ricatti subdoli l’onestà di una famiglia?
Perché non gridare ai quattro venti che la nostra credibilità di cristiani non ce la giochiamo in base alle genuflessioni davanti all’ostensorio, ma in base all’attenzione che sapremo porre al «corpo e al sangue» dei giovani drogati che, qui da noi, non trovano un luogo di accoglienza e di riscatto? Perché misurare le parole quando bisogna dire senza mezzi termini che i frutti dell’Eucaristia si commisurano anche sul ritmo della condivisione che, con i gesti e con la lotta, esprimeremo agli operai delle ferriere di Giovinazzo, ai marittimi drammaticamente in crisi di Molfetta, ai tanti disoccupati di Ruvo e di Terlizzi? Purtroppo, l’opulenza appariscente delle nostre quattro città ci fa scorgere facilmente il corpo di Cristo nell’Eucaristia dei nostri altari. Ma ci impedisce di scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, del bisogno, della sofferenza, della solitudine. Per questo le nostre eucaristie sono eccentriche. Miei cari fratelli, perdonatemi se il discorso ha preso questa piega. Ma credo che la festa del Corpo e Sangue di Cristo esiga la nostra conversione. Non l’altisonanza delle nostre parole. Né il fasto vuoto delle nostre liturgieTonino Bello – Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo – Ed. San Paolo

CINEMA  

La Tenerezza, di Gianni Amelio  –  Che tenerezza La tenerezza, e che struggimento che vien fuori vedendolo, non uno struggimento da Sturm und drang (letteralmente “tempesta e assalto”), ma una tumultuosa dolcezza intrisa di malinconia e permeata di una sincerità disarmante. La sincerità di Gianni Amelio, innanzitutto, che sceglie un protagonista suo coetaneo in cui far traboccare stille del suo io più irrequieto e insofferente dinanzi al passare del tempo e che racconta la bellezza di noi uomini ma anche la nostra sgradevolezza, la nostra insofferenza, la nostra incapacità di amare fino in fondo e, sopra ogni cosa, il coraggio che dimostriamo nell’ammetterlo. E la bellezza dei personaggi non proprio inventati dal regista (che ha preso spunto da un romanzo) ma da lui riplasmati è proprio questa dolorosa autoconsapevolezza: la capacità di riconoscere, in conversazioni grondanti verità o in dialoghi più brevi – e con una franchezza disarmante – di non essere all’altezza del proprio ruolo sociale e delle altrui aspettative. Succede così che un anziano avvocato ammetta di non aver amato la donna che ha sposato e che un timido uomo venuto dal nord dichiari di non aver nulla da dire ai suoi bambini, vergognandosi un po’. Ma forse non si tratta esattamente e solamente di vergogna. Ne La tenerezza, piuttosto, ci si rammarica: in una bellissima scena in cui l’uomo del nordaggredisce un extracomunitario che vende sciarpe e poi si pente, e negli scoppi di umanità di chi si è schermato il cuore per egoismo, paura o noncuranza ed evita di risolvere conflitti. La cosa bella è che questa pulsione a volte mortificante e a volte accettata di buon grado il regista la lascia venir fuori inaspettatamente e d’improvviso, sorprendendo per esempio chi credeva che il suo film fosse destinato a prendere soltanto la direzione della poesia o dell’istantanea di una tranche de vie. Certo, ognuno dei suoi protagonisti in qualche modo cerca la gentilezza o magari la dispensa, ma per poterla invocare il regista ha bisogno di sfiorare la violenza immotivata, facendo sì che la sua storia, da iniziale ritratto di una quotidianità, si faccia viaggio inquieto, continuo peregrinare fra le strade di una Napoli piena di aule, scale, cucine, piazze e camere d’ospedale che rappresenta benissimo uno stato d’animo diffuso e squisitamente contemporaneo: l’ansia di chi sa che sta franando e non capisce bene a cosa aggrapparsi, o il malessere di chi a un certo punto comincia a sentirsi solo in mezzo agli altri e allora impazzisce. (C. Proto)

I poverelli d’Assisi – A proposito di chi ha detto che il suo è un movimento francescano, vi mando l’ultimo  BUONGIORNO di Mattia Feltri, che scrive sulla Stampa. Credo valga la pena condividerlo, per un sorriso tra il malinconico e l’ironico, su quelli che ci sono toccati, e continuano a toccarci.

Siccome in natura e quindi anche in politica nulla si crea e nulla si distrugge, non c’è niente di strano né di nuovo nell’ispirazione che Beppe Grillo conta di trarre da San Francesco d’Assisi. E gli sembrerà straordinariamente rivoluzionario, come tutto ciò che gli passa per la testa, senza verificare che non sia già passato per la testa di altri. E che teste. Silvio Berlusconi diceva che «il ruolo dell’Italia si colloca nell’eredità religiosa di San Francesco»; Gianfranco Fini trovava molto francescana la guerra all’Iraq perché «San Francesco non condannò l’uso delle armi per legittima difesa»; Sandro Bondi si sentiva affratellato a Fausto Bertinotti «nel nome di San Francesco»; Piero Fassino affrontava il dovere quotidiano «col conforto del ricordo di San Francesco»; Pierferdinando Casini contava di rifarsi alla fede di San Francesco «nella ricerca del bene comune»; Massimo D’Alema lo citò ad Assisi come impegno personale (un po’ disatteso), «non dobbiamo crederci il centro del mondo»; Umberto Bossi scrisse sulla Padania che la vita di San Francesco ormai guidava più la Lega che il Vaticano; Mario Monti riteneva San Francesco modernissimo, «e deve diventare l’esempio del mondo di oggi»; Giorgio Napolitano intendeva «riaffermare i valori di San Francesco nel mondo». In fondo per un politico indicare San Francesco per modello è come per un giornalista indicare Indro Montanelli e per un magistrato Giovanni Falcone: un bel modo di cavarsela quando non si sa più a che santo votarsi.

CINEMA  Tutto quello che vuoi  –  Ci troviamo nella Roma odierna, dove la gente si muove in fretta, spinta da rumori esterni ed interni. I giovani trascorrono le giornate cullati dalla maestosità della città che li ha visti nascere e crescere, ma non riescono proprio a tener testa alla signorilità della stessa, presentandosi invece scanzonati e senza alcuna poesia emotiva. Nella zona in cui si incrociano generazioni ed etnie di ogni tipo, Trastevere, vivono Alessandroe Giorgio uno scapestrato, l’altro malato di Alzheimer. Alla Roma odierna si alterna lo scenario della guerra. Giorgio, a causa della propria malattia, si ritrova immerso nei contesti che hanno accompagnato la sua infanzia. Sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, è stato messa in salvo da un gruppo di soldati americani le cui immagini vanno così a sovrapporsi con quelle di Alessandro ed i suoi amici. In una continua altalena di lucidità e sbalzi temporali, Giorgio si lascerà coinvolgere da varie dinamiche giovanili e, allo stesso tempo, prenderà per mano il gruppo di giovani scalmanati, ignoranti e allergici alle biblioteche, e li accompagnerà verso la conoscenza di quello che finora hanno letto solo sui libri di scuola, non comprendendo mai fino in fondo la disperazione e la povertà dell’epoca e la ricchezza emotiva di chi riconosce più valore in un paio di scarponi che in un forziere pieno d’oro. Tutto quello che vuoi è un film che accarezza e solletica le corde più intime dell’animo umano, riunendo poesia (ebbene sì, i poeti ancora esistono) e sentimento, in un mix di dettagli curati talmente bene da trasmettere tutto l’amore che il regista ha posto in fase di scrittura e lavorazione. Amicizia, amore e affetto famigliare scriveranno così la chiusura del cerchio nel caso di Giorgio e la rinascita nel caso Alessandro, il quale nell’uomo aveva trovato l’unica persona che con molta naturalezza gli aveva chiesto di rimanere invece di scacciarlo, ed ora è pronto a far tesoro di ogni insegnamento e prezioso esempio lasciatogli in eredità dall’amico perduto.

L’altro volto della speranza, di Aki Kaurismäki 

 –  L’insoddisfazione esistenziale sembra essere ormai connaturata con la vita dell’uomo occidentale. Non è un caso che il film si apra con un co-protagonista che se ne va da casa lasciando sul tavolo la fede nuziale. Il regista ha già però provveduto a metterci sull’avviso: ci sono ben altre tensioni che attraversano il mondo: il regista finlandese continua a visitare il suo mondo di emarginati ed autoemarginati dalla vita. Kaurismaki non crede in una religione ed esonera da questo compito anche il suo protagonista siriano, liberandolo così da quel marchio che l’ISIS gli ha imposto e che l’Occidente più retrivo è stato ben lieto di potergli indiscriminatamente applicare. Crede però nell’umanità e i suoi personaggi sono buoni samaritani in cui l’egoismo cerca magari di farsi strada ma senza troppe possibilità di successo. Ciò che fanno, come reagiscono, quello che dicono sembra a tratti surreale contrapponendosi quasi alla concretezza del dolore e della morte che accompagna nell’intimo chi ha abbandonato la propria terra per cercare scampo da una sorte univoca. Ma al contempo ci ricorda che se anche solo una minima parte di quel sentire surreale si impadronisse della società tutti potremmo vivere un po’ meglio. Mettendo magari in condizione di non nuocere non chi chiede giustamente una gestione seria del problema ma chi ne approfitta per seminare una paura che si traduce in odio. Questa è la lezione più importante del film (e di tutta l’opera di questo regista). Non dimenticando di farci anche qua e là sorridere come solo i grandi del cinema hanno saputo fare. E dunque, se volete qualche pugno nello stomaco per uscire da quella assuefazione che inevitabilmente prende anche i migliori – in questo succedersi di persone che salpano annegano o approdano – vedetevi questo film: Khaled, un rifugiato siriano, e Wilkström, un venditore di camicie di Finlandia, si incontrano e si aiutano. Nella società che li circonda non mancano i rappresentanti del razzismo più becero. Non tutti i finlandesi sono xenofobi; alcuni sì. Così come non tutti gli italiani sono razzisti, ma alcuni (sempre troppi) sì. Siamo avvertiti.

ELEVAZIONE MUSICALE *

  Martedì Santo 11 APRILE 2017  ore 21, in Abbazia

parte prima
Giovanni Paisiello                                        (Taranto 1740 – Napoli 1816)(Eisenach 1685 – Lipsia 1750)da Passione di Gesù Cristo
(libretto Pietro Metastasio)
Coro finale Preghiera Santa Speme”
Johann Sebastian Bach                         (Eisenach 1685 – Lipsia 1750)
da Matthäus Passion BWV 244   Aria Erbarme dich
soprano solo/violino/basso continuo  (originale per mezzosoprano solo)
 
meditazione dettata dal Rettore

parte seconda
Quirino Gasparini                                    (Gandino 1721-Torino 1778)
da Passio in Die Sexto (Bologna – 1753) (secondo Matteo – frammento: Quem vultis dimittam vobis?  Barabbam an Jesum qui dicitur Christus?…)
Coro maschile/basso seguente (continuo)
Giuseppe Sarti                                            (Faenza 1729-Berlino 1802)
da Miserere in fa minore – soli, coro e strumenti
n.1 Miserere coro
n.3 Aria Tibi soli tenore solo – Ut iustificeris coro
n.4 Ecce enim coro
n.12 Libera me de sanguinibus coro
n.13 Sacrificium Aria soprano/violoncello solo e strumenti
 Johann Sebastian Bach                          (Eisenach 1685 – Lipsia 1750)
da Johannes Passion BWV 245
n.35 Aria Zerfliesse soprano solo /violino (orig.flauto)/basso conti
Complesso Polifonico e Strumentale: Ghirlanda Musicale: direttore Marco Maisano,
solisti Zara Dimitrova soprano, Maria Elena Chiappa contralto,  Michele Mauro tenore,  Ettore Begnis violino,  Flavio Bombardieri violoncello, Riccardo Crotti contrabbasso.

* offerta dai parrocchiani di S. Alessandro in Colonna nell’annuale pellegrinaggio pasquale alla nostra Abbazia. 

 Venerdì santo: nella mia Via Crucis risuona il dolore del mondo

La biblista francese Anne-Marie Pelletier, docente di Sacra Scrittura ed ermeneutica biblica allo Studio della facoltà “Notre Dame” del Seminario parigino, non sa perché papa Francesco ha affidato proprio a lei le meditazioni che il 14 aprile scandiranno le stazioni della Via Crucis al Colosseo. “Non ho cercato di indagare…. In ogni caso, è sembrato giusto quest’anno assegnare a una donna laica un compito riservato finora a sacerdoti e religiosi. Questa innovazione fa parte di quei gesti che indicano come le donne comincino a comparire un po’ di più negli sguardi dell’istituzione ecclesiale. Una buona notizia per le donne ma ancor più, ai miei occhi, per la Chiesa. Con una sottolineatura riferita all’attualità e un’altra alla Rivelazione: “Nel nostro presente, un numero sempre maggiore di Paesi scivola verso un autoritarismo molto maschilista; va di moda esaltare la virilità da conquistatore. Invece la Chiesa fa un gesto, mi sembra, che sta andando nella direzione opposta: si ricorda e ricorda che furono le donne a essere le ultime accanto a Gesù nella sua Passione e le prime a ricevere l’annuncio della Risurrezione. Quando ho ricevuto la richiesta di scrivere la Via Crucis, ero molto sorpresa ed emozionata. Ma anzitutto perché si trattava di preparare le meditazioni su un momento decisivo della celebrazione cristiana del mistero pasquale. La morte di Gesù sulla croce rimanda al cuore della fede. Perché affronta il paradosso assoluto: Dio subisce la violenza degli uomini, entrandoci dentro per vincerla con l’amore e il perdono. Una realtà da capogiro! Quindi mi ha toccato il fatto che mi venisse affidata la missione di essere l’interprete della fede della Chiesa durante la Via crucis del Venerdì santo, memoria di un avvenimento che ha cambiato la storia”.

libri

T. Bello, Non c’è fedeltà senza rischio. Per una coraggiosa presenza cristiana, Sanpaolo ed.
Una nuova serie, inedita, di testi raccolti dall’archivio di don Tonino che esprimono i desideri e le direttive di un Vescovo particolarmente sensibile alle esigenze del tempo presente. In evidenza le riflessioni sull’Avvento, Natale, Epifania, Pasqua e Pentecoste. Don Tonino (così tutti affettuosamente chiamavano mons. Antonio Bello) nacque ad Alessano (Lecce) nel 1935. Ordinato sacerdote nel 1957, fu educatore in seminario e parroco. Nel 1982 divenne vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi. Campione del dialogo, costruttore infaticabile di pace, dal 1985 presidente nazionale del movimento “Pax Christi”, fu pastore mite e protettore dei poveri, degli immigrati e degli ultimi, che ospitò anche in casa sua. Colpito da male incurabile, visse il suo calvario facendone un “luminoso poema”. Morì il 20 aprile 1993. Promossa dalla Fondazione Don Tonino Bello, è in corso la pubblicazione del suo archivio in questa serie “La sfida della speranza” (Edizioni San Paolo), che comprende: Maria, donna dei nostri –  Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo – Cirenei della gioia. Esercizi spirituali – Vegliare nella notte – Il vangelo del coraggio sull’impegno politico e sociale – Le mie notti insonni – La speranza a caro prezzo sulla pace. Questo volumetto  (pagg 170) Non c’è fedeltà senza rischio, per una coraggiosa presenza cristiana, di cui i nostri tempi chiedono contro la marea montante di ignoranza che pure raccoglie nelle nostre chiese tanti battezzati, reduci da piazze urlanti contro gli “altri” figli di Dio.

cinema

S’intitola Vedete, sono uno di voi, il film documentario che Ermanno Olmi ha dedicato al ricordo del cardinale Carlo Maria Martini. Sul grande schermo, dunque, va la storia personale di un protagonista del nostro tempo. Accompagnati dalle sue parole, intessute da memorie visive, Olmiripercorre accadimenti e atti dell’uomo Carlo Maria Martini per conoscere come questa figura cruciale della Chiesa cattolica ha speso i giorni della sua vita rigorosamente fedele alla sua vocazione e ai suoi ideali. “Primo fra tutti – sostiene l’autore Marco Garzonio, giornalista e biografo di Martini che ha scritto con il regista Ermanno Olmi la sceneggiatura del film – la Giustizia, e dunque l’Uomo consapevole che senza giustizia non c’è libertà”.Attraversando eventi drammatici, dal terrorismo degli anni di piombo a Tangentopoli, dai conflitti alla corruzione e alla crisi del lavoro fino alle solitudini, il cardinale gesuita ha dato senso a smarrimenti e inquietudini della gente, che in lui ha trovato l’autenticità della sua testimonianza e lo ha riconosciuto come punto di riferimento per credenti e non credenti. Uno spirito profetico, che sapeva farsi interrogare dalla realtà storica, interpretandola alla luce del Vangelo. Un profeta di speranza, anticipatore di papa Francesco.

Silence, di Martin Scorsese – Per essere il film di una vita, Silence sembra assai poco un’opera di Scorsese. L’ambientazione in un Giappone medievale, lontanissimo nel tempo e nello spazio dalle strade di Little Italy e dai suoi gangster; il ricorso a volti attoriali nuovi, con cui finora non aveva mai lavorato, in luogo dei soliti, fedelissimi alter ego (da De Niro a Di Caprio).  Silence mette in scena la tragedia di un uomo arrogante. Un uomo convinto di poter cambiare il mondo, prima di soccombervi. Non è un caso che quell’uomo sia anche un uomo di Dio. Il film parte come una detection: due gesuiti dovranno recarsi in Giappone per scoprire se davvero il loro padre spirituale ha abiurato per salvarsi la pelle (i nipponici del Seicento consideravano la buona Novella assai pericolosa). In realtà l’oggetto di questa ricerca sarà la natura stessa del loro credere, dunque di Dio. Scorsese coglie del romanzo di Endo, basato peraltro sulla storica realtà dei lapsi (i preti apostati, letteralmente gli scivolati,  quelli che non ce l’hanno fatta a sopportare le persecuzioni e hanno abiurato la loro fede), il nocciolo dei dilemmi che da sempre lo coinvolgono. Fino a che punto, torna a chiedersi il regista, è lecito seguire Dio se così facendo rechiamo sofferenza agli uomini? Vale di più la misericordia – in fondo il comandamento supremo che Gesù trasmette ai suoi discepoli, Ama il prossimo tuo come te stesso – o la fedeltà alla Parola, che pure invita ad evangelizzare il mondo perché è Verità? La questione non è solo teologica perché tocca qualsiasi ideologia e credo. E’ anche assai moderna, sembra di leggere in filigrana i principali nodi della Chiesa di Francesco, tormentata al suo interno da analoghe questioni di natura etica e dottrinaria (pensiamo ai conflitti su divorzio, eutanasia, aborto). La soluzione optata da Scorsese è più problematica: per amore dell’uomo sì, si può e anzi si deve rinnegare la propria fede. Meglio, occultarla. Rinunciare così anche alla pratica della condivisione e dell’indottrinamento, in definitiva all’eucarestia e al proselitismo. La fede deve restare come confinata in una dimensione privata, meglio ancora se intima, interiore. Il finale azzarda questo. Non che Scorsese neghi l’altra via, quella dei martiri, il cui sangue come ci ricorda è il seme della Chiesa. Ma si tratta anche in questo caso di una scelta individuale. Non a caso qui tutto il destino della Chiesa in Giappone si riduce alla sorte di due preti, che però prenderanno strade diverse. Scorsese sposta in ogni caso la religione per far posto alla persona. Con tutte le contraddizioni e le questioni aperte del caso. (rielaborazione su testo di G. Arnone)

Moonlight –Questo film racconta una madre che può non essere una madre, e uno spacciatore che può essere il più amorevole e protettivo dei padri; racconta che essere gay non impone come modello comportamentale di sfilare a ogni Pride in tanga, piume e autoreggenti; ed essere un maschio nero nell’America periferica e degradata di oggi non deve necessariamente dover rispecchiare l’immaginario machista e gangsteristico. E non sono ovvietà, oggi. Curioso come un film che vorrebbe spingere a rifiutare i ruoli imposti dall’esterno (dagli altri, dalla società, dai media), che vuole rigettare le etichette, accumuli al suo interno dosi elevatissime di luoghi comuni cinematografici: dallo spacciatore buono , al modo in cui è raccontato il bullismo nelle scuole e il turbamento legato alla scoperta di sé, fino alla parabola riservata al protagonista. Un titolo lirico, quello della pièce, un racconto impressionista: tanto da spingere il regista a ricercare la poesia del momento e dell’immagine in maniera quasi ossessiva: un finto naturalismo che,  a forza di ricercare il chiaro di luna, lo squallore suburbano elevato a foto artistica, può risultare fastidiosa estetizzazione. Ma vale la pena di lasciarsi raccontare la storia di una educazione sentimentale. È  la storia  di una vita: che scopre lo sconosciuto che ancora è nello spettatore.

libri

Per la giornata delle donne – un’ebrea, una protestante, una cattolica
Glikl bas Yehudah Leib, commerciante ebrea di Amburgo, Marie de l’Incarnation, mistica orsolina fondatrice della prima scuola per amerindie, Maria Sibylla Merian, pittrice e naturalista tedesca protestante, indignate chiedono all’autrice perché abbia deciso di affiancare le loro vite in modo così arbitrario. Risponde Natalie Zemon Davis: «Vi ho messo insieme perché volevo imparare dalle vostre somiglianze e differenze». In apparenza accomunate solo dal secolo in cui vivono, il Seicento, le tre donne si muovono in contesti diversi e lontani. > Glikl sposa a 14 anni un ricco commerciante e mette al mondo 14 figli, di cui otto sono ancora piccoli quando il marito muore. La vedova non si perde d’animo ma prosegue e sviluppa gli affari del marito viaggiando in tutta Europa finché si stabilisce con un nuovo marito a Metz, dove morirà a 78 anni. Viaggia, commercia, e intanto scrive. In trent’anni scrive sette libri in cui racconta la propria vita, la famiglia, le nascite, le morti, la forza necessaria ad affrontarle, i peccati in cui cade: in una parola, «discute con Dio». > Anche Marie de l’Incarnation scrive: quaderni su quaderni in cui spiega perché, rimasta vedova, abbandona il figlio undicenne per entrare nel convento delle orsoline; descrive il proprio amore per Dio e «la condotta che Dio ha tenuto nei suoi confronti», descrive visioni mistiche e apparizioni diaboliche; racconta di come abbandona la Francia per farsi missionaria in Canada, per obbedire agli ordini del direttore spirituale ma anche per rispondere ai richiami di uno spirito «che non poteva essere rinchiuso». Il viaggio, l’insegnamento alle «giovani selvagge» sono — scrive Marie — «una tale fonte di piacere che ho peccato, semmai, per averli troppo amati». > E anche Maria Sibylla Merian scrive e viaggia. Dipinge pure, non per passione religiosa ma per passione scientifica. Non abbandona i figli per questo: abbandona il marito, un pittore di Francoforte, per unirsi ai labadisti, una comunità di protestanti che aveva messo radici nella provincia olandese della Frisia, in un’esperienza di rinuncia e distacco da ogni bene e preoccupazione terrena. Dopo qualche anno però, forse insofferente delle gerarchie della comunità o della separazione dal mondo, Maria Sibylla parte di nuovo, sempre insieme alle figlie, e si stabilisce ad Amsterdam. Nel 1699 parte con la figlia più piccola per il Suriname, dove africani e amerindi la aiuteranno nella ricerca e nello studio e dove redigerà la sua opera più importante, le Metamorfosi degli insetti del Suriname. Poi tornerà ad Amsterdam, dove morirà nel 1717.  > Vite diverse dunque, ma con molti punti di contatto: spirito di iniziativa, propensione al viaggio e all’avventura, passione per la scrittura, una spiritualità profonda e una religiosità che la portano a conoscere e a esprimere le parti più nascoste della propria interiorità.   >>>   Natalie Z.  Davis, Donne ai margini, Ed Laterza   <<<

CRESCE LA TENSIONE TRA I BEDUINI JAHALIN 

Ieri mattina, 19 Febbraio 2017, rappresentanti dell’Autorita’ Israeliana, accompagnati da soldati israeliani armati, sono andati al villaggio Beduino di Khan Al Ahmer nel West Bank, dove si trova la famosa “Scuola di Gomme”, per consegnare un nuovo ordine di demolizione effettivo dal 23 Febbraio prossimo. La scuola e l’intero villaggio sono a rischio di demolizione e spostamento. Lunedi’ mattina, 20 Febbraio 2017, abbiamo ricevuto la telefonata da Abu Soliman, il capo dei Beduini, che ci informava dell’arrivo dei bulldozer e dei soldati israeliani al villaggio di Tabna, che si trova nella stessa area di Khan Al Ahmer, e dove abbiamo un piccolo asilo. Ci siamo recate sul luogo dove abbiamo visto che era stata demolita una casa. Parlando con le donne abbiamo saputo che altre due abitazioni sono in lista di demolizione per il giorno 27 Febbraio. Facendo poi visita all’asilo, pochi erano i bambini presenti a causa di quanto successo di primo mattino. I bambini, testimoni dell’accaduto, erano alquanto scioccati e spaventati all’arrivo di qualsiasi macchina. Le stesse insegnanti si vedevano provate e in ansia per il loro incerto e precario futuro. Per la prima volta abbiamo letto sui loro volti rassegnazione e stanchezza. Parlando con Abu Raid, il capo del villaggio e membro del comitato della “Scuola di Gomme, e con alcune donne del villaggio, abbiamo colto in loro la seria preoccupazione per il futuro educativo dei loro figli in caso di distruzione della scuola. Nel pomeriggio abbiamo visitato Khan Al Ahmer e ascoltato Abu Khamis il quale ci ha raccontato quanto e’ successo il giorno prima, 19 Febbraio. I soldati israeliani, senza rivolgere parola agli abitanti del villaggio, hanno lasciato 42 ordini di demolizione (tale e’ il numero delle baracche del villaggio comprese alcune aule scolastiche) con scadenza effettiva il prossimo 23 Febbraio. Anche qui tra gli abitanti del villaggio e tra gli studenti della scuola abbiamo visto paura, preoccupazione e tanta incertezza. Proseguendo per il villaggio di Abu Nawar, vicino all’insediamento di Ma’ale Adumim, abbiamo sentito che il piano israeliano di spostamento forzato prevede oltre al villaggio di Khan Al Ahmer, anche quelli di Abu Nawar e di Abu Hindi. Nel villaggio di Abu Nawar i soldati israeliani si recano in sopralluogo quasi ogni mezzora lasciando dietro di loro sentimenti di sconforto negli abitanti e un grande punto interrogativo sulla nuova rielocazione. In questa situazione di grande incertezza, anche noi abbiamo sperimentato frustrazione di fronte a tanta ingiustizia e violazione dei diritti umani, oltre alla incapacita’ di trovare parole di conforto e di consolazione o altro. Abbiamo cercato di fare causa comune con loro attraverso la nostra presenza solidale. In questo ultimo periodo abbiamo toccato con mano una crescita di tensione nei beduini e grande preoccupazione per l’incertezza della loro sistenza. Chiediamo preghiera e giustizia per questi nostri fratelli e sorelle e che il Signore della misericordia intervenga in loro favore. Sr. Azezet & Sr. Agnese,Suore Missionarie Comboniane
libri

 A. Schiavone, Ponzio Pilato, ed Einaudi, pagg 184.   È un testo audace e spiazzante, non solo per la sapienza con cui ha saputo fondere la sua profonda conoscenza storica e giuridica del periodo con la materia incandescente che tratta, non solo per la scrittura veramente appassionante, che coinvolge in una suspense il lettore anche quando sa già benissimo come andrà a finire. Il libro è bellissimo perché ha capito che si poteva indagare su Pilato, e raccontare chi era il prefetto della Giudea, solo raccontando chi era Gesù. Anche se Schiavone ha dato di Gesù un’interpretazione certo approfondita sul piano storico — splendidi sono i passi sulla legge giudaica e sul modo diverso e rivoluzionario di Gesù di intendere il rapporto con il potere — ma in fondo riduttiva, perché lo studioso evita volutamente di toccare il tema teologico della salvezza. Le ragioni di questa lacuna si possono cogliere in una frase dell’introduzione: «La verità dei Vangeli risiede ormai molto di più nella potenza millenaria del cristianesimo che nella riscontrabilità oggettiva del loro racconto». Affermazione che in realtà viene smentita proprio da questo libro e dalla sua trascinante bellezza: il racconto è così bello perché l’autore si è lasciato prendere da quelle parole, è entrato in quella scena, ha assistito a quel confronto nel momento in cui si svolgeva. Il libro è splendido perché Schiavone ha “visto” Gesù. Certo, l’ha “visto” attraverso gli occhi di Pilato, ma ha capito — e in questo sta la principale grandezza del testo — che Pilato lo aveva “visto”. Al contrario di quanto racconta la copertina (ma forse perché l’iconografia non ha altre immagini) Pilato non è colui che “se ne lava le mani”. Forse invece Pilato è stato veramente, come ha scritto Tertulliano, pro sua conscientia Christianus. In ogni caso, come sottolinea Schiavone, il suo nome doveva restare unito per sempre a quello di Gesù.

cinema
Viaggio intimo nella vita dell’artista impressionista più amato e nei luoghi che lo hanno ispirato, attraverso decine di opere riprese in alta definizione e le lettere agli amici più cari.Tremila lettere di Claude Monet. È a partire da questo immenso patrimonio che si snoda Io, Claude Monet, il nuovo docu-film di Phil Grabsky. Proprio a partire dagli scritti di Monet (Parigi, 1840 – Giverny, 1926), accostati alle straordinarie opere conservate nei più importanti musei del mondo, il film rivela la tumultuosa vita interiore del pittore di Giverny, tra momenti di intensa depressione e giorni di assoluta euforia creativa, offrendone così un ritratto complesso e commuovente. Attraverso più di cento dipinti filmati in alta definizione lo spettatore potrà conoscere la vita emotiva e creativa del pittore che con il suo Impression. Soleil levant, esposto nell’aprile del 1874 nello studio del fotografo Nadar, fece parlare il critico Louis Leroy della prima “esposizione degli impressionisti”, dando involontariamente vita al termine che avrebbe segnato buona parte della storia dell’arte europea di fine Ottocento. Riportate alla vita dall’acclamato attore britannico Henry Goodman, le lettere di Monet narrano infatti il percorso dell’artista da enfant prodige e appassionato caricaturista a maestro indiscusso di fama internazionale e registrano con attenzione gli incontri più importanti, come quelli col pittore Eugène Boudin e col primo ministro e amico Georges Clemenceau, che nel 1899 gli scrive “Voi ritagliate dei pezzetti di cielo e li gettate in faccia alla gente. Niente sarebbe così stupido come dirvi grazie: non si ringrazia un raggio di sole”. Purtroppo film come questi – e occorre vederli nell’ampiezza e nel mistero del ventre di una sala cinematografica – non restano in cartellone se non pochi giorni. Ma vale la pena di restare attenti a un loro ritorno.

sulla vendetta, un fatto atroce e un film da vedere

A Vasto – Non ci azzarderemo a spendere una sola parola sull’uomo che a Vasto ha ammazzato il ragazzo di 21 anni che gli uccise la moglie passando col rosso. Solamente un pazzo o Fëdor Dostoevskij oserebbero mettere dito nell’anima di un uomo disperato a tale punto. Ma vogliamo dire qualcosa su una comunità – su tutti noi – che chiedeva giustizia prima del processo, come funzionava nel Far West coi ladri di cavalli. È stata chiesta con manifestazioni di piazza e sentenze spietate e inappellabili sul web, e giustizia equivaleva a carcerazione preventiva. E cioè, in galera subito, per placare la rabbia, e poi si vedrà, e nonostante il ragazzo la sera dell’incidente guidasse a poco più cinquanta all’ora, non fosse né drogato né ubriaco, non fosse fuggito e insomma non c’era un solo appiglio per rinchiuderlo prima del giudizio in tribunale, se non attraverso la logica della corda insaponata.  È (…) la pretesa di una giustizia di piazza, è anche il «fuori i nomi» di qualche giorno fa sui ritardi di Rigopiano, è anche la periodica speranza di una «giustizia esemplare», che esiste in Cina, mentre in una democrazia esiste la giustizia e punto, senza aggettivi, ed è anche rispondere a ogni emergenza con lo sbrigativo «inasprimento delle pene», e sono tutti fuochi del cuore che portano il nome del linciaggio: il modo più comodo e sommario di sentirsi migliori del linciato. (M. Feltri, da La Stampa, 3 marzo)

Il Cliente – Asghar Farhadi, il regista iraniano di “Una separazione” (premio Oscar per il Miglior Film Straniero) torna a Teheran (dopo “Il passato”, girato in Francia ed in francese) ed affronta la complessità delle relazioni umane. Può un uomo buono consegnarsi alla vendetta la più cattiva? Un ottimo insegnante, comprensivo e incoraggiante, trasformarsi in un aguzzino? Il Cliente mette in luce la differenza apparentemente sottile ma fondamentale fra vergogna e umiliazione: l’una protesa verso se stessi ed un proprio codice morale, l’altra verso l’opinione altrui, che nel film appare di importanza primaria, se non assoluta. I protagonisti lottano per riscattare il loro orgoglio ferito, dando vita a comportamenti in cui l’empatia lascia spazio ad una vendetta che assume la prioritaria forma di estrema difesa della propria dignità pubblica. Un’opera profonda ed evocativa che, partendo dal vacillare di un palazzo, simbolo dell’instabilità e dell’incertezza di un Paese intero – l’Iran – entra prima nelle case e poi nelle coscienze dei suoi abitanti per esplorarne le contraddizioni, in un gioco di matrioske il cui fulcro è rappresentato da un duro faccia a faccia con se stessi e con i propri princìpi, una resa dei conti non più revocabile.

libri

C. Saletti e F. , Auschwitz. Guida alla visita all’ex campo di concentramento e del sito memoriale, Marsilio ed. – Un libro prezioso non solo per i visitatori del campo, in particolare gli studenti delle scuole, ma anche per chi, senza andare nel campo, vuole chiarirsi le idee sulla sua storia, sulla sua organizzazione e sul percorso che ci ha portato a considerare la città concentrazionaria di Auschwitz come il paradigma del Male assoluto, il simbolo stesso della Shoah.

E. Hillesum, Il Bene quotidiano. Breviario degli scritti (1941-1942), San Paolo ed  – A settant’anni dalla morte, una breve antologia dei testi più importanti di Etty Hillesum, una delle maggiori autrici spirituali del Novecento. Una selezione curata che invita a leggere la notevole opera della Hillesum con un approccio semplice, immediato. I brani sono perfetti per semplici e profonde meditazioni sui grandi temi.

ancora palude e verità  

Carissimo  Don Attilio, come suggerito nei tuoi auguri di Natale sono entrato nel  sito di Fontanella. In particolare mi sono dedicato alla  rubrica “Da Qui” perché, da subito, l’ho trovata di grande l’interesse. Quanto da te scritto meriterebbe ben altra qualità  di  riscontri (ma io non ne ho la preparazione) e quindi  mi limiterò a parteciparti un paio di considerazioni legate ai temi più “terreni” da te trattati nei paragrafi “la palude” e “verità”.
La palude: (parafrasandoti) ebbene sì, ho votato boh? Inizio con il dirti, sull’argomento, che ho provato una certa invidia nei confronti di coloro che:
+ o perché ritenevano valesse comunque di dare avvio ad un cambiamento che, seppur con uno strumento imperfetto, cominciasse a incidere sugli annosi e sempre più scandalosi  privilegi e privilegiati;
+ o perché desiderosi di mantenere (o di essere nuovi destinatari di) detti privilegi;
+o (anche se non avrebbe dovuto essere questo il criterio ispiratore della scelta)per simpatia o antipatia politica;
hanno pressoché da subito, avuto le idee chiare su come votare.
Io purtroppo no. Forse anche un po’condizionato dai miei studi (Scienze Politiche) non sono mai riuscito a convincermi che le incongruenze della riforma (o come tu le hai definite imperfezioni), soprattutto se combinate con la appena approvatala legge elettorale, fossero sufficientemente compensate dagli aspetti positivi pur presenti nella riforma: tutt’altra cosa sarebbe per me  stata se il quesito referendario (come suggerito da qualcuno) fosse stato “spacchettato”.
Ritenendo comunque che fosse più che un mio diritto un mio dovere quello di votare, mi sono avviato ancora dubbioso al mio seggio sperando che il cammino mi portasse consiglio. Non riuscendo a risolvermi sul versante tecnico legale, ormai quasi arrivato, non  mi è rimasto che affidarmi a (seppur del tutto non pertinenti)  considerazioni di mera simpatia (o minor antipatia) politica. Il primo pensiero è stato non posso certamente dare il mio voto  ai fascisti (ancor che ex)e alla lega. Con questa convinzione, ormai munito di scheda e di matita, sono entrato nella “gabina” per porre la croce sul sì. Lo stavo facendo quando mi è apparsa un’improvvisa “visione”: quella di Renzi che in una conferenza ufficiale aveva  bandito la bandiera europea dallo sfondo… Sono rimasto con la matita a mezz’aria, ho posato la matita, ho chiuso con cura la scheda chepoi ho imbucato immacolata nell’urna (restituendo anche la matita). Quando, a volte, mi capita di ripensarci e, contestualmente, mi viene in mente  “ti sputo dalla mia bocca perché non sei né caldo né freddo” provo un po’ di disagio, ma non sono ancora riuscito a pentirmi della mia scelta un po’ plilatesca…
Concludo il capitolo con il pensiero sollecitatomi dal termine Bauscia da te citato (e mi sembra in modo poco convinto) riferito a Renzi. Anch’io  non sono tanto d’accordo con questa definizione (a parte che io avrei preferito il termine ganassa, visto che ci stiamo rifacendo al milanese). Non sono tanto d’accordo perché per Bauscia o ganassa in Lombardia (anche prima dell’avvento della lega) si è inteso e si intende un individuo che le spara grosse: ma, normalmente,  nei suoi riguardi e non nei riguardi degli altri. Forse con una interpretazione toscaneggiante del termine si può arrivare (per me un po’ cinicamente) millantare prossimi e certi primati sociali ed economici dell’Italia all’interno del contesto europeo senona dirittura mondiale. E ciò quando è vero che sì siamo  tra i primatisti  ma del disagio sociale, della disoccupazione, della corruzione, dell’ evasione fiscale e ancor peggio della bassissima scolarizzazione. Don Attilio so bene che tutto questo non lo ha causato Renzi e che il frutto di troppi anni di cattiva politica e di cattivi politici che certo non è mia intenzione difendere, che però fatico a riunire tutti in una sola accozzaglia. Vedi (scusa se sono un po’ impreciso ma vado a memoria peraltro acciaccata dell’età) Moro diceva che compito di un politico è quello di guidare il popolo; Andreotti (di cui devo confessare sono stato per lungo tempo estimatore) diceva che invece il popolo va ascoltato perché solo così si potevano vincere la elezioni. Purtroppo io oggi vedo tanti Andreotti, pochi Moro e nessuno disposto a fare loperazione di verità di cui il paese necessita. Se però è vero che il mondo è dei miti  chissà se Mattarella e Gentiloni…
Verità. Nei riguardi di questo capitolo sarò brevissimo: una suggestione e un’immagine che ha risvegliato in me la frase lì riportata:  “quelli a cui è stato ricordato che vestono rosso per una missione al martirio”. Non so per  quale strano meccanismo, la mente mi ha fatto rivedere la scena (trasmessa dalle televisioni) dell’incontro di Papa Francesco con la Curia Romana. Una sgargiante tenaglia di eleganti porporati attorno al papa (lui bianco come un agnello sacrificale). Lascio a te ulteriori considerazioni su martirio e martiri. Ricambio l’abbraccio e anche se ti conosco come persona non particolarmente amante di abusati (e perciò ormai poco significativi) convenevoli ti auguro un buon 2017. L. N.
1 P.S. in questo scorcio di anno non solo la pigrizia mi ha tenuto lontano da Fontanella.
2 P.S. l’immagine che a te piace tanto del Cristo che già piccolo si allontana dalla madre per protendersi verso di noi mica l’avrai sottratta alla parrocchia?

Papa Francesco: “Il dramma di Lampedusa mi ha fatto sentire il dovere di mettermi in viaggio”

Esce nelle librerie martedì 10 gennaio il libro A. Tornielli, «In viaggio» (Piemme edizioni, pagg. 348, 18 euro), il racconto dei viaggi internazionali di Papa Francesco. E si apre con un capitolo che contiene un lungo colloquio con Francesco sui suoi viaggi.
Santità, lei ama viaggiare?
«Sinceramente no. Non mi è mai piaciuto molto viaggiare. Quando ero vescovo nell’altra diocesi, a Buenos Aires, venivo a Roma soltanto se necessario e se potevo non venire, non venivo. Mi è sempre pesato stare lontano dalla mia diocesi, che per noi vescovi è la nostra “sposa”. E poi io sono piuttosto abitudinario, per me fare vacanza è avere qualche tempo in più per pregare e per leggere, ma per riposarmi non ho mai avuto bisogno di cambiare aria o di cambiare ambiente».
Si aspettava, all’inizio del pontificato, che avrebbe viaggiato così tanto?
«No, no, davvero! Come ho detto, non mi piace molto viaggiare. E mai avrei immaginato di fare così tanti viaggi…».
Come ha cominciato? Che cosa le ha fatto cambiare idea?
«Il primissimo viaggio è stato quello a Lampedusa. Un viaggio italiano. Non era programmato, non c’erano inviti ufficiali. Ho sentito che dovevo andare, mi avevano toccato e commosso le notizie sui migranti morti in mare, inabissati. Bambini, donne, giovani uomini… Una tragedia straziante. Ho visto le immagini del salvataggio dei superstiti, ho ricevuto testimonianze sulla generosità e l’accoglienza degli abitanti di Lampedusa. Per questo, grazie ai miei collaboratori, è stata organizzata una visita lampo. Era importante andare là. Poi c’è stato il viaggio a Rio de Janeiro, per la Giornata Mondiale della Gioventù. Si trattava di un appuntamento già in agenda, già stabilito. Sempre il Papa è andato alle GMG (…). Il viaggio non è mai stato in discussione, bisognava andare, e per me è stato il primo ritorno nel continente latinoamericano».
La GMG era un appuntamento a cui il Papa non poteva mancare. Ma gli altri?
«Dopo Rio è arrivato un altro invito e poi un altro ancora. Ho risposto semplicemente di sì, lasciandomi in qualche modo “portare”. E ora sento che devo fare i viaggi, andare a visitare le Chiese, incoraggiare i semi di speranza che ci sono».
Quanto le pesano le trasferte internazionali, dal punto di vista fisico?
«Sono pesanti, ma diciamo che per il momento me la cavo. Forse mi pesano dal punto di vista psicologico più ancora che dal punto di vista fisico. Avrei bisogno di più tempo per leggere per prepararmi. Un viaggio non impegna soltanto per i giorni durante i quali si sta fuori, nel Paese o nei Paesi visitati. C’è anche la preparazione, che solitamente avviene in periodi nei quali c’è anche tutto il lavoro ordinario da svolgere. Quando ritorno a casa, in Vaticano, di solito il primo giorno dopo il viaggio è abbastanza faticoso e ho bisogno di recuperare. Ma porto sempre con me volti, testimonianze, immagini, esperienze… Una ricchezza inimmaginabile, che mi fa sempre dire: ne è valsa la pena».
Ha cambiato qualcosa nell’agenda già consolidata dei viaggi papali?
«Non molto. Ho cercato, ad esempio, di eliminare del tutto i pranzi di rappresentanza. È naturale che sia le autorità istituzionali del Paese visitato, sia i confratelli vescovi, desiderino festeggiare l’ospite che arriva. Non ho nulla contro lo stare a tavola in compagnia. Ricordiamoci che il Vangelo è pieno di racconti e di testimonianze che descrivono proprio circostanze come questa: il primo miracolo di Gesù avviene durante un banchetto di nozze (…). Ma se l’agenda del viaggio, come accade quasi sempre, è già pienissima di appuntamenti, preferisco mangiare in modo semplice e in poco tempo».
Quali sentimenti prova di fronte all’entusiasmo della gente che l’aspetta per ore per vederla passare sulle strade?
«Il primo sentimento è quello di chi sa che ci sono gli “Osanna!” ma come leggiamo nel Vangelo, possono arrivare anche i “Crucifige!”. Un secondo sentimento lo traggo da un episodio che ho letto da qualche parte. Si tratta di una frase detta dall’allora cardinale Albino Luciani a proposito degli applausi che un gruppo di chierichetti accogliendolo gli aveva tributato. Disse più o meno così: “Ma voi potete immaginare che l’asinello su cui sedeva Gesù nel momento dell’ingresso trionfale a Gerusalemme potesse pensare che quegli applausi fossero per lui?”. Ecco il Papa deve aver coscienza del fatto che lui “porta” Gesù, testimonia Gesù e la sua vicinanza, prossimità e tenerezza a tutte le creature, in modo speciale quelle che soffrono. Per questo qualche volta a chi grida “viva il Papa” ho chiesto invece di gridare “Viva Gesù!”. Ci sono poi espressioni bellissime a proposito della paternità in uno dei dialoghi del beato Paolo VI con Jean Guitton. Papa Montini confidava al filosofo francese: “Credo che di tutte le dignità di un Papa, la più invidiabile sia la paternità. La paternità è un sentimento che invade lo spirito e il cuore, che ci accompagna a ogni ora del giorno, che non può diminuire, ma che si accresce, perché cresce il numero dei figli. È un sentimento che non affatica, che non stanca, che riposa da ogni stanchezza. Mai, neanche un momento, mi sono sentito stanco, quando ho alzato la mano per benedire. No, io mi stancherò mai di benedire o di perdonare”. Paolo VI diceva questo subito dopo essere tornato dall’India. Credo che siano parole che spiegano il perché i Papi nell’epoca contemporanea, abbiano deciso di viaggiare».
Ricordi dei viaggi che le sono rimasti indelebili nella memoria?
«L’entusiasmo dei giovani a Rio de Janeiro, che mi tiravano di tutto nella papamobile. E poi, sempre a Rio, quel bambino che riuscendo a intrufolarsi ha salito le scale di corsa e mi ha abbracciato. Ricordo la gente accorsa al santuario di Madhu, nel nord dello Sri Lanka dove ad accogliermi ho trovato, oltre ai cristiani, anche i musulmani e gli indù, un luogo dove i pellegrini arrivano come membri di un’unica famiglia. O l’accoglienza nelle Filippine. Ho ancora davanti agli occhi il gesto di quei papà che alzavano i loro bambini, perché li benedicessi, e mi sembrava che volessero dire: questo è il mio tesoro, il mio futuro, il mio amore, per lui vale la pena di lavorare e di fare sacrifici. E c’erano anche tanti bambini disabili, e i loro genitori non nascondevano il loro figlio, me lo porgevano perché lo benedicessi affermando con i loro gesti: questo è il mio bambino, è così, ma è mio figlio. Gesti nati dal cuore. Ancora ricordo le tante persone che mi hanno accolto a Tacloban, sempre nelle Filippine. Pioveva tanto quel giorno. Dovevo celebrare la messa per ricordare le migliaia di morti provocati dal Tifone Hayan, e il maltempo per poco non faceva saltare il viaggio. Ma non potevo non andare: mi avevano tanto colpito le notizie su quel tifone che aveva devastato quella zona nel novembre 2013. Pioveva e io indossavo un impermeabile giallo sopra le vesti per la messa che abbiamo celebrato lì, come si poteva, in un piccolo palco frustrato dal vento. Dopo la messa un cerimoniere mi ha confidato che era rimasto colpito e anche edificato perché i ministranti, nonostante la pioggia, mai avevano mai perso il sorriso. C’era il sorriso anche sul volto dei giovani, dei papà e delle mamme. Una gioia vera, nonostante i dolori e la sofferenza di chi ha perso la casa e qualcuno dei suoi cari».
Dopo un viaggio, che cosa accade: come ricorda le persone incontrate?
«Le porto nel mio cuore, prego per loro, prego per le situazioni dolorose e difficili con le quali sono venuto in contatto. Prego perché si riducano le disuguaglianze che ho visto».
Tanti viaggi nel mondo, quasi nessuno nei Paesi dell’Unione Europea. Perché?
«L’unico Paese dell’Unione Europea che ho visitato è stata la Grecia, con il viaggio di appena cinque ore a Lesbos per incontrare e confortare i profughi, insieme con il miei fratelli Bartolomeo di Costantinopoli e Hyeronimos di Atene (…). Sono poi andato al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa a Strasburgo, ma quella è stata piuttosto una visita a un’istituzione, non a un Paese. Ma ho comunque visitato altri Paesi che sono europei pur non facendo parte della Unione: l’Albania e la Bosnia Erzegovina. Ho preferito privilegiare quei Paesi nei quali posso dare un piccolo aiuto, incoraggiare chi nonostante le difficoltà e i conflitti lavora per la pace e per l’unità. Paesi che sono, o che sono stati, in gravi difficoltà. Questo non significa non avere attenzione per l’Europa che incoraggio come posso a riscoprire e a mettere in pratica le sue radici più autentiche, i suoi valori. Sono convinto che non saranno le burocrazie o gli strumenti dell’alta finanza a salvarci dalla crisi attuale e a risolvere il problema dell’immigrazione, che per i Paesi dell’Europa è la maggiore emergenza dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale».
Tra le novità dei viaggi papali c’è, immagino, un protocollo diverso riguardante la sicurezza. È così?
«Io sono grato ai gendarmi e alle guardie svizzere per essersi adattati al mio stile. Non riesco a muovermi nelle macchine blindate o nella papamobile con i vetri antiproiettile chiusi. Comprendo benissimo le esigenze di sicurezza e sono grato a quanti, con dedizione e molta, davvero molta fatica durante i viaggi mi sono vicini e vigilano. Però un vescovo è un pastore, un padre, non ci possono essere troppe barriere tra lui e la gente. Per questo motivo ho detto fin dall’inizio che avrei viaggiato soltanto se mi fosse stato sempre possibile il contatto con le persone. C’era apprensione durante il primo viaggio a Rio de Janeiro, ma ho percorso tante volte il lungomare di Copacabana con la papamobile aperta, salutando i giovani, fermandomi con loro, abbracciarli. Non c’è stato un incidente in tutta Rio de Janeiro, in quei giorni. Bisogna fidarsi e affidarsi. Sono consapevole dei rischi che si possono correre. Devo dire che, forse sarò incosciente, non ho timori per la mia persona. Ma sono invece sempre preoccupato per l’incolumità di chi viaggia con me e soprattutto della gente che incontro nei vari Paesi. Quello che mi impensierisce sono i rischi concreti, le minacce per chi viene e partecipa a una celebrazione o a un incontro. C’è sempre il pericolo di un gesto inconsulto da parte di qualche pazzo. Ma c’è sempre il Signore».

nel 2017, un concilio ecumenico delle chiese ?
a Gerusalemme tutti i cristiani insieme per la pace

Riunire a Gerusalemme, in occasione della Pentecoste 2017, l’intera famiglia cristiana per pregare per la pace in Terra santa e nel mondo. È la proposta lanciata dal pastore luterano Olav Fyske Tveit, segretario generale del World Council of Churches (Wcc) in un intervista rilasciata all’Osservatore Romano. Nel colloquio, svoltosi il 19 dicembre a Ginevra, Tveit si è soffermato in particolare sui rapporti, «molto buoni», con la Chiesa cattolica, sull’impulso dato da Papa Francesco alle relazioni ecumeniche, sulla comune commemorazione della Riforma, sul fondamentale ruolo delle donne e dei giovani nella missione ecclesiale, sulla lotta all’ingiustizia e alla violenza. Al termine dell’incontro, cui ha preso parte Marianne Ejdersten, responsabile della comunicazione per il Wcc, vi è stato un omaggio alla targa che ricorda l’arcivescovo luterano svedese Nathan Söderblom che nel 1917 lanciò l’idea di un Consiglio ecumenico di chiese per costruire la pace in un mondo in guerra.

Libri

AA. VV., Storie di Natale, ed Sellerio 2016 — Natale, quanti modi ci sono per declinare questa parola? Presepe, albero, stella, auguri, vacanza, bianco, famiglia, messa, cena… Sette scrittori si misurano in questa antologia con il tema del Natale. Liberi di sviluppare una narrazione sul tema che da duemila anni in qua è vissuto a tutte le latitudini, si sono sbizzarriti. E non si tratta certo di storie scontate o necessariamente di buoni sentimenti. La letteratura è piena di storie natalizie, non c’è autore classico che non abbia provato a raccontare a suo modo questa festa cristiana e pagana insieme. Non è detto che il 25 dicembre si diventi più buoni, né che si accendano le luci dell’albero. In questa antologia ci sono racconti di ogni tipo: favole natalizie, storie malinconiche e di solitudine, ma anche di amicizia e di allegria, di regali mancati e di interni familiari. Un buon libro per serate dei giorni post natalizi, per continuare a credere oltre ogni fede.

Ch. Péguy, Lui è qui. Pagine scelte, Ed Rizzoli

Con il passar degli anni è cresciuta negli studiosi e in chi si è accostato all’opera di Péguy la certezza di trovarsi di fronte a un gigante del nostro secolo, affiancabile per importanza a nomi come Heidegger, Benjamin, Rilke ed Eliot. La sua polemica contro il “mondo moderno” rivela sempre più il suo carattere profetico e la sua ira contro i dogmatismi di ogni specie risuona con persuasività. L’affermazione strenua del valore del “carnale”, del “temporale” e la centralità della categoria di “avvenimento” come chiave di comprensione del fenomeno umano (e del cristianesimo), la difesa contro ogni riduzione spiritualistica o politica dell’azione ideale, fanno di Péguy una voce carica di attualità. Un’antologia che offre uno strumento per conoscere un autore fondamentale per comprendere il nostro presente. “La battaglia non è fra gli eroi e i santi; la battaglia è contro gli intellettuali, contro chi disprezza egualmente eroi e santi (…). La battaglia è contro quelli che odiano la grandezza, che si sono fatti i rappresentanti ufficiali della meschinità, della bassezza, della viltà”.Quest’antologia a cura di Davide Rondoni e Flora Crescini ci aiuta a comprenderlo meglio. Troviamo qui tutte le pagine più famose di questo grande scrittore convertitosi al cattolicesimo: da Véronique a Il mistero della carità di Giovanna d’Arco; da Il portico del Mistero della seconda virtù a Il Mistero dei santi innocenti alla Tapisserie de Notre-Dame. Pagine di una bellezza infinita e di una verità profondissima. Ma sono da segnalare anche i passi scelti dalle opere in prosa, dove Péguy analizza impietosamente e lucidamente l’età secolarizzata a cavallo tra Ottocento e Novecento, quel “mondo delle persone che non credono più a niente, neppure all’ateismo” che poi è anche il nostro mondo. Una società in cui “il denaro è tutto” e in cui la Chiesa è debole, perché manca non di ragionamento, ma di carità.

a proposito della palude
Caro d.A. Anche qui a Firenze stanotte si attende l’arrivo di Santa Lucia. Per i regali e nonostante i virus di stagione. Ho votato no. Per difesa della Costituzione e non per chi quel fronte rappresenta. Non ho nulla a che fare con Lumbard e Pentastellati all’inizio interessanti e solo allora. Se la Chiesa non va bene non modifico il Vangelo. Forse il Catechismo o i diritti canonico ed ecclesiastico. E per uno Stato la Costituzione è come il Vangelo. Il resto passa da leggi costituzionali e regolamenti parlamentari. Il dramma è che mancano le scuole di partito ma spadroneggiano le satrapie e i personalismi. Certo è stato un voto contro Renzi. Ma sul personale l’ha messa lui in un delirio di onnipotenza. Poi come avrai sentito in tv non  è cambiato poi tanto. Angelino e suo fratello alle Poste li abbiamo sempre. La colpa  sarà anche mia indaffarato eccome ad arrivare a fine mese e a tenere unita la famiglia invece di impegnarmi in politica sul presupposto da provare che sappia meglio farla. Comunque ti sento appassionato e sereno nella battaglia della fede. Qui si vivacchia e questo non è un bene. Nella preghiera ti ricordo e vivi un fervido Avvento.
Un abbraccio.Giuseppe
Grazie per la tua attenzione, che travalica il Po. Sarà bello vederci: serve guardarsi per parlare di questo dramma italiano. Non ancora tragedia, ma ricomporre la razionalità di chi ha scelto non scegliendo – e, converrai, è stata la maggior parte di chi ha votato no – non sarà facile. I miei ragionamenti partono da questo fatto: siamo in una società che non sa neppure riconoscere quel po’ di nuovo che si è fatto, e quel tanto a cui ci si chiama. Perché è vero che la Carta è sacra, ma lo è se non fa della sacralità un tabù. Persino il Vangelo, permettimi, non è la lettera morta del Corano: si fa, si dipana: dalle prime quattro versioni alle predicazioni che lo incarnano nel vissuto del nostro quotidiano. Per questo è una noia diffusa il prete al pulpito, oggi: perché il Vangelo non lo vive, non lo fa vivere, ma crede di offrirlo o come una lezione esegetica o come lo stantio ripetersi di formule, che diventano, e da subito, un insopportabile luogo comune (c’è cosa peggiore del Vangelo ridotto a luogo comune?). Che vuol dire oggi essere poveri? miti? o pacificatori? e la persecuzione oggi dei cristiani, che vengono ammazzati in blocco, e non più crocifissi uno a uno? Se dai oggi una risposta vera, t’accorgi che il Vangelo assume linguaggio diverso. E dunque un tratto diverso di vita. Se lo è per il Vangelo, non può esserlo per una Carta che rimane intatta nei principi, ma cerca di svoltarsi verso l’oggi di un popolo che in settant’anni si è ritrovato politicamente diverso? Se no, appunto,  satrapie e personalismi non cambieranno mai. Quel no, anche nella miglior buona fede che con te ha contraddistinto altri (la minoranza del no) ha rimandato alle calende greche la speranza di uscire dalla palude. Senza pretendere di uscirne del tutto puliti: ma almeno aria nuova. Come distruggere (con ironia) l’evoluzionismo  Lo sguardo acuto dello scrittore non solo esplora le teorie scientifiche, ma ci mette di fronte a uomini in carne e ossa, ritratti nel loro ruolo sociale, nel loro carattere e nelle loro meschinerie. Meschinerie che — Wolfe lo spiega con leggerezza nel libro (T. Wolfe, Il regno della parola Firenze, Giunti, 2016) — sono parte inevitabile nel definire quello che poi viene chiamato il progresso della scienza. Così racconta la vicenda che ha reso credibile l’evoluzionismo, cioè la scoperta del meccanismo che farebbe scattare l’evoluzione — la sopravvivenza del più forte — sia in Darwin che in Wallace: in entrambi l’idea nasce dalla lettura di Malthus, che non era uno scienziato, e viene poi trasferita in ambito scientifico. Ma mentre Wallace, simpatico avventuriero di umili origini e autodidatta, scrive subito un articolo sulla scoperta, Darwin, agiato gentiluomo che aveva studiato a Cambridge, tergiversa da anni. Sarà solo la lettera di Wallace, che gli manda il manoscritto in cui narra la scoperta, a dargli la spinta necessaria a scrivere qualcosa delle sue elucubrazioni. Ma l’establishment della scienza inglese è tutto dalla parte di Darwin, gli assicura il primo posto nella scoperta e lo aiuta a raggiungere e a mantenere quella posizione preminente che i libri scritti successivamente — benché lunghi e farraginosi rispetto a quelli più brevi e più chiari di Wallace — gli assicureranno. L’agiatezza familiare grazie alla quale si può dedicare solo allo studio e alla scrittura permetteranno a Darwin di sviluppare la sua teoria facendone una nuova cosmogonia, da contrapporre a quella religiosa. Wolfe sottolinea come questa cosmogonia sia in realtà solo una creazione letteraria, proprio come tutte le altre cosmogonie che vengono chiamate miti. Ma la pretesa scientifica di Darwin, insieme alla sua importanza sociale, vengono accettate in un ambiente dove la scienza sta diventando l’unica spiegazione accettabile per qualsiasi fenomeno. Fondamentale poi fu il fatto che Darwin, il quale si dichiarava agnostico, offrisse una versione delle origini del mondo che permetteva di fare a meno di Dio e questo, in società che si stavano rapidamente secolarizzando, costituiva una caratteristica decisiva per decretare il successo del libro. Gli attacchi che fecero scricchiolare il darwinismo non arrivarono dal clero, intimidito dalla sua rispettabilità scientifica, ma da altri due scienziati:  il solito vivace autodidatta Wallace che, dopo avere militato nelle fila del darwinismo, scrisse un’opera nella quale ne denunciava i punti deboli. Fra questi, in particolare, il fatto che l’evoluzione non spiega come mai l’uomo avesse fin dalle origini un organo specificamente sviluppato con capacità assai superiori a quelle che gli servivano per sopravvivere, un organo che sembra preparato in anticipo per uno sviluppo quasi illimitato, e che spiega il linguaggio: il cervello. Nello stesso periodo, Max Muller, il più noto e stimato linguista britannico, affermò coraggiosamente che «il linguaggio è il nostro Rubicone, né alcun bruto ardirebbe varcarlo». Lo studioso andava cioè dicendo che l’uomo aveva un superpotere difficilmente spiegabile con l’evoluzione: il linguaggio. Nonostante tutti i tentativi messi in atto da Darwin per superare questo ostacolo, esso rimase tale, e per circa settant’anni nessuno affrontò più il problema finché, con Noam Chomsky, si ripresentò la questione con modalità che somigliavano molto al confronto fra Darwin e Wallace. Chomsky — sostenuto dal plauso generale della scienza — sosteneva di avere risolto finalmente il problema della compatibilità fra linguaggio ed evoluzione: secondo la sua teoria, infatti, in ogni essere umano esisteva una sorta di organo predisposto al linguaggio, che garantiva così il veloce apprendimento della parola nei bambini. La prova era che al di sotto di tutte le lingue esisteva una struttura comune, che provava quindi il funzionamento dell’organo al di là delle infinite varianti linguistiche presenti nel mondo. Nessuno osò mettere in discussione la sua scoperta, basata su osservazioni teoriche, non certo su osservazioni linguistiche sul campo, fino a quando uno studioso autodidatta, Daniel Everett, dopo trent’anni di vita in una comunità sperduta del Brasile pubblicò articoli e libri in cui presentava una lingua che non aveva nulla a che fare con la struttura originaria scoperta da Chomsky: una lingua molto primitiva che corrispondeva esattamente al livello culturale della tribù. Esperienza che portava il ricercatore ad affermare che la lingua era un artefatto umano, e non frutto dello sviluppo di un organo preesistente. Everett sostenne che la lingua era uno strumento che spiegava la supremazia della specie umana sugli altri animali, come la sola evoluzione non potrebbe mai fare. Il duro e coraggioso attacco al patriarca della linguistica veniva non solo da un autodidatta, se pure eccezionalmente dotato per la ricerca, ma da un giovane che si era recato presso quella tribù con la famiglia, come missionario evangelico. Chomsky cercò di ignorarlo, lo trattò da povero ciarlatano, ma i libri del «Davide» Everett alla fine riuscirono a far fare marcia indietro al «Golia» Chomsky, che cominciò a cassare dai suoi scritti la teoria dell’organo predisposto, senza però fare mai autocritica. Fino a giungere all’ammissione del carattere misterioso del linguaggio, dalla quale prende inizio il libro di Wolfe. Lo scrittore statunitense denuncia proprio in questo mistero il fallimento di ogni teoria evoluzionista: «Il linguaggio, e solo il linguaggio, ci ha permesso di conquistare ogni palmo di terra di questo mondo, di soggiogare ogni essere abbastanza grande da rendersi visibile e di mangiarci la metà della popolazione dei mari». E può finalmente così concludere: «Dire che gli animali si sono evoluti nell’uomo è come dire che il marmo di Carrara si è evoluto nel David di Michelangelo. Il linguaggio è ciò a cui l’uomo rende omaggio in ogni istante che possa immaginare».

di Lucetta Scaraffia

Nell’ Amoris laetitia la compassione del Dio vivente_
così Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli

Quando parliamo di Dio, il linguaggio descrittivo che adottiamo è quello dell’amore. E quando parliamo di amore, la dimensione fondamentale attribuitagli è quella divina. Per questo l’apostolo dell’amore definisce Dio come amore (cfr. 1 Giovanni 4, 8). Quando all’inizio dell’anno il nostro caro fratello e vescovo di Roma, Sua Santità Francesco, ha pubblicato l’esortazione apostolica Amoris laetitia, era più o meno il periodo in cui ci siamo recati insieme nell’isola di Lesbo, in Grecia, per manifestare la nostra solidarietà con i rifugiati perseguitati provenienti dal Medio oriente. Il documento papale sulla «gioia dell’amore», sebbene si occupi di questioni pertinenti alla vita familiare e all’amore, riteniamo che non sia scollegato da quella storica visita ai campi profughi. Di fatto, ciò che è subito apparso chiaro a entrambi mentre guardavamo i volti tristi delle vittime ferite della guerra è stato che tutte quelle persone erano singoli membri di famiglie, famiglie spezzate e lacerate dall’ostilità e dalla violenza. Ma come nostro Signore ci ha detto esplicitamente riguardo al rapporto tra potere e servizio (cfr. Matteo 20, 26), non dovrebbe essere così tra noi! L’immigrazione non è altro che il rovescio della stessa medaglia dell’integrazione, che certamente è responsabilità di ogni credente sincero. Naturalmente Amoris laetitia tocca il cuore stesso dell’amore e della famiglia, proprio come tocca il cuore di ogni persona vivente nata in questo mondo. Ciò accade perché le questioni più delicate della vita familiare rispecchiano le questioni più fondamentali dell’appartenenza e della comunione. Sia che riguardino le sfide del matrimonio e del divorzio, sia che riguardino la sessualità o l’educazione dei figli, sono tutti frammenti delicati e preziosi di quel sacro mistero che chiamiamo vita. Negli ultimi mesi sono stati numerosi i commenti e le valutazioni su questo importante documento. Le persone si sono chieste in che modo la dottrina specifica è stata sviluppata o difesa, se le questioni pastorali sono state modificate o risolte, e se norme particolari sono state rafforzate o mitigate. Tuttavia, alla luce dell’imminente festa dell’Incarnazione del Signore — tempo in cui commemoriamo e celebriamo il fatto che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni 1, 14) — è importante osservare che Amoris laetitia ricorda anzitutto e soprattutto la misericordia e la compassione di Dio, e non soltanto le norme morali e le regole canoniche degli uomini. Indubbiamente, ad avere soffocato e ostacolato le persone è stata in passato la paura che un “padre celeste” in qualche modo detti la condotta umana e prescriva le usanze umane. È vero esattamente l’opposto e i leader religiosi sono chiamati a ricordare a loro stessi, e poi agli altri, che Dio è vita e amore e luce. Di fatto, sono queste le parole ripetutamente sottolineate da Papa Francesco nel suo documento, che discerne l’esperienza e le sfide della società contemporanea al fine di definire una spiritualità del matrimonio e della famiglie per il mondo attuale.I padri della Chiesa non hanno paura di parlare apertamente e onestamente della vita cristiana. Tuttavia, il loro punto di partenza è sempre la grazia amorevole e salvifica di Dio, che risplende su ogni persona senza discriminazione o disprezzo. Questo fuoco di Dio — diceva nel VII secolo abba Isacco il Siro — porta calore e consolazione a quanti sono abituati alla sua energia, mentre brucia e consuma quanti si sono allontanati dal suo fervore nella loro vita. E questa luce di Dio — aggiungeva nel x secolo san Simeone il Nuovo Teologo — serve da salvezza per quanti l’hanno desiderata e permette loro di vedere la gloria divina, mentre porta condanna a chi l’ha rifiutata e preferito la propria cecità. Nei primi mesi dell’anno giubilare della misericordia, è stato davvero opportuno che Papa Francesco abbia sia incontrato le famiglie dei rifugiati sconfortati in Grecia sia abbracciato le famiglie che sono sotto la sua cura pastorale in tutto il mondo. Così facendo ha non solo invocato l’infinita carità e la compassione incondizionata del Dio vivente sulle anime più vulnerabili, ma ha anche suscitato una risposta personale da parte di chi ha ricevuto e letto le sue parole, nonché di tutte le persone di buona volontà. Di fatto egli ha invitato la gente ad assumersi la responsabilità personale per la propria salvezza, cercando modi in cui poter seguire i comandamenti divini e maturare nell’amore spirituale. La conclusione dell’esortazione papale è dunque anche la nostra conclusione e riflessione: «Quello che ci è stato promesso è più grande di quanto possiamo immaginare. Non scoraggiamoci mai a causa dei nostri limiti, e non cessiamo mai di cercare quella pienezza di amore e di comunione che Dio ci mostra».

L’Osservatore Romano, 2-3 dicembre 2016

“La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi”

 Perché possa essere pubblicata sul sito, segnalo l’intervista di papa Francesco ad Avvenire alla vigilia della chiusura del Giubileo: ne riporto le tracce più utili a meditare le indicazioni di cammino per il tempo che viviamo. E del nuovo stile cattolico, che è poi lo stile cristiano riportato alla sua essenzialità. “La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi”. Risponde così Papa Francesco a una domanda di Stefania Falasca, editorialista di Avvenire, nella lunga e articolata intervista, molto incentrata sull’ecumenismo. Tra le risposte, anche una nella quale Francesco lega certe «repliche» all’esortazione post-sinodale Amoris laetitia alla faticosa e non ancora compiuta ricezione del Concilio Ecumenico Vaticano II: una indiretta risposta ai quattro cardinali che hanno in questi giorni pubblicato una lettera, contenente dei dubbi sul documento dedicato alla famiglia. (dal.man.)
Amoris laetitia e il «legalismo» La Chiesa esiste solo – ha detto Francesco ad Avvenire – come strumento per comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio. Al Concilio la Chiesa ha sentito la responsabilità di essere nel mondo come segno vivo dell’amore del Padre. Con la Lumen Gentium è risalita alle sorgenti della sua natura, al Vangelo. Questo sposta l’asse della concezione cristiana da un certo legalismo, che può essere ideologico, alla Persona di Dio che si è fatto misericordia nell’incarnazione del Figlio. Alcuni – pensa a certe repliche ad Amoris Laetitia – continuano a non comprendere, o bianco o nero, anche se è nel flusso della vita che si deve discernere. Il Concilio ci ha detto questo,

gli storici però dicono che un Concilio, per essere assorbito bene dal corpo della Chiesa, ha bisogno di un secolo… Siamo a metà.
Un Anno Santo senza «grandi gesti» Chi scopre di essere molto amato comincia a uscire dalla solitudine cattiva, dalla separazione che porta a odiare gli altri e se stessi. Spero che tante persone abbiano scoperto di essere molto amate da Gesù e si siano lasciate abbracciare da Lui. La misericordia è il nome di Dio ed è anche la sua debolezza, il suo punto debole. La sua misericordia lo porta sempre al perdono, a dimenticarsi dei nostri peccati. A me piace pensare che l’Onnipotente ha una cattiva memoria. Una volta che ti perdona, si dimentica. Perché è felice di perdonare. Per me questo basta (…). Gesù non domanda grandi gesti, ma solo l’abbandono e la riconoscenza. Santa Teresa di Lisieux, che è dottore della Chiesa.nella sua “piccola via” verso Dio indica l’abbandono del bambino, che si addormenta senza riserve tra le braccia di suo padre e ricorda che la carità non può rimanere chiusa nel fondo. Amore di Dio e amore del prossimo sono due amori inseparabili.

Per il Giubileo «non ho fatto un piano» Non ho fatto un piano. Ho fatto semplicemente quello che mi ispirava lo Spirito Santo. Le cose sono venute. Mi sono lasciato andare dallo Spirito. Si trattava solo di essere docili allo Spirito Santo, di lasciar fare a Lui. La Chiesa è il Vangelo, è l’opera di Gesù Cristo. Non è un cammino di idee, uno strumento per affermarle. E nella Chiesa le cose entrano nel tempo quando il tempo è maturo, quando si offre.
L’accelerazione degli incontri ecumenici È il cammino dal Concilio che va avanti, s’intensifica. Ma è il cammino, non sono io. Questo cammino è il cammino della Chiesa. Io ho incontrato i primati e i responsabili, è vero, ma anche gli altri miei predecessori hanno fatto i loro incontri con questi o altri responsabili. Non ho dato nessuna accelerazione. Nella misura in cui andiamo avanti il cammino sembra andare più veloce, è il motus in fine velocior, per dirlo secondo quel processo espresso nella fisica aristotelica.

Le caramelle del Patriarca Bartolomeo A Lesbo, mentre insieme salutavamo tutti, c’era un bambino verso il quale mi ero chinato. Ma al bambino non interessavo, guardava dietro di me. Mi volto e vedo perché: Bartolomeo aveva le tasche piene di caramelle e le stava dando a dei bambini, tutto contento. Questo è Bartolomeo, un uomo capace di portare avanti tra tante difficoltà il Grande Concilio ortodosso, di parlare di teologia ad alto livello, e di stare semplicemente con i bambini. Quando veniva a Roma occupava a Santa Marta la stanza in cui io sto ora. L’unico rimprovero che mi ha fatto è che ha dovuto cambiarla.

L’accusa di «protestantizzare» la Chiesa (dopo il viaggio in commemorazione di Lutero) Non mi toglie il sonno. Io proseguo sulla strada di chi mi ha preceduto, seguo il Concilio. Quanto alle opinioni, bisogna sempre distinguere lo spirito col quale vengono dette. Quando non c’è un cattivo spirito, aiutano anche a camminare. Altre volte si vede subito che le critiche prendono qua e là per giustificare una posizione già assunta, non sono oneste, sono fatte con spirito cattivo per fomentare divisione. Si vede subito che certi rigorismi nascono da una mancanza, dal voler nascondere dentro un’armatura la propria triste insoddisfazione. Se guardi il film “Il pranzo di Babette” c’è questo comportamento rigido.
L’ecumenismo pratico e le dispute teologiche Non si tratta di mettere da parte qualcosa. Servire i poveri vuol dire servire Cristo, perché i poveri sono la carne di Cristo. E se serviamo i poveri insieme, vuol dire che noi cristiani ci ritroviamo uniti nel toccare le piaghe di Cristo. Penso al lavoro che dopo l’incontro di Lund possono fare insieme la Caritas e le organizzazioni caritative luterane. Non è un’istituzione, è un cammino. Certi modi di contrapporre le “cose della dottrina” alle “cose della carità pastorale” invece non sono secondo il Vangelo e creano confusione.

L’unità tra i cristiani è un cammino L’unità non si fa perché ci mettiamo d’accordo tra noi ma perché camminiamo seguendo Gesù. E camminando, per opera di Colui che seguiamo, possiamo scoprirci uniti. È il camminare dietro a Cristo che unisce. Convertirsi significa lasciare che il Signore viva e operi in noi. Così scopriamo di trovarci uniti anche nella nostra comune missione di annunciare il Vangelo. Camminando e lavorando insieme, ci rendiamo conto che siamo già uniti nel nome del Signore e che quindi l’unità non la creiamo noi. Ci accorgiamo che è lo Spirito che spinge e ci porta avanti. Se tu sei docile allo Spirito, sarà Lui a dirti il passo che puoi fare, il resto lo fa lui. Non si può andare dietro a Cristo se non ti porta, se non ti spinge lo Spirito con la sua forza. Per questo è lo Spirito l’artefice dell’unità tra i cristiani. Ecco perché dico che l’unità si fa in cammino, perché l’unità è una grazia che si deve chiedere, e anche perché ripeto che ogni proselitismo tra cristiani è peccaminoso. La Chiesa non cresce mai per proselitismo ma “per attrazione”, come ha scritto Benedetto XVI. Il proselitismo tra cristiani quindi è in se stesso un peccato grave perché contraddice la dinamica stessa di come si diventa e si rimane cristiani. La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi.
La chiave dell’ecumenismo Fare processi invece di occupare spazi è la chiave anche del cammino ecumenico. In questo momento storico l’unità si fa su tre strade: camminare insieme con le opere di carità, pregare insieme, e poi riconoscere la confessione comune così come si esprime nel comune martirio ricevuto nel nome di Cristo, nell’ecumenismo del sangue. Lì si vede che il Nemico stesso riconosce la nostra unità, l’unità dei battezzati. Il Nemico, in questo, non sbaglia. E queste sono tutte espressioni di unità visibile. Pregare insieme è visibile. Compiere opere di carità insieme è visibile. Il martirio condiviso nel nome di Cristo è visibile.
Il «cancro» nella Chiesa Continuo a pensare che il cancro nella Chiesa è il darsi gloria l’un l’altro. Se uno non sa chi è Gesù, o non lo ha mai incontrato, lo può sempre incontrare; ma se uno sta nella Chiesa, e si muove in essa perché proprio nell’ambito della Chiesa coltiva e alimenta la sua fame di dominio e affermazione di sé, ha una malattia spirituale, crede che la Chiesa sia una realtà umana autosufficiente, dove tutto si muove secondo logiche di ambizione e potere. Nella reazione di Lutero c’era anche questo: il rifiuto di un’immagine di Chiesa come un’organizzazione che poteva andare avanti facendo a meno della grazia del Signore, o considerandola come un possesso scontato, garantito a priori. E questa tentazione di costruire una Chiesa autoreferenziale, che porta alla contrapposizione e quindi alla divisione, ritorna sempre.
Gli ortodossi e l’unità del primo millennio Dobbiamo guardare al primo millennio, può sempre ispirarci. Non si tratta di tornare indietro in maniera meccanica, non è semplicemente fare “retromarcia”: lì ci sono tesori validi anche oggi (…). I Padri della Chiesa dei primi secoli avevano chiaro che la Chiesa vive istante per istante della grazia di Cristo. Per questo – l’ho già detto altre volte – dicevano che la Chiesa non ha luce propria, e la chiamavano “mysterium lunae”, il mistero della luna. Perché la Chiesa dà luce ma non brilla di luce propria. E quando la Chiesa, invece di guardare Cristo, guarda troppo se stessa vengono anche le divisioni. È quello che è successo dopo il primo millennio. Guardare Cristo ci libera da questa abitudine, e anche dalla tentazione del trionfalismo e del rigorismo. E ci fa camminare insieme nella strada della docilità allo Spirito Santo, che ci porta all’unità».

Libri

 R. Saviane, La paranza dei bambini, Ed Feltrinelli       La paranza dei bambini è il primo vero romanzo di Roberto Saviane. Si tratta pur sempre di una narrativa perfettamente calata nella spietata realtà di cui Saviano da molti anni si occupa: quella delle città oramai pervase dal potere malavita organizzata. La paranza è la barca della pesca a strascico, quindi metafora di morte che sorprende l’innocenza con l’inganno della luce. Ed è anche il nome in gergo utilizzato per indicare gruppi armati allineati alla Camorra e spesso in guerra fra loro per il controllo di strade e quartieri. Quella dei bambini, poi, è una paranza particolare: ne fanno parte adolescenti. Ragazzi di quattordici, quindici anni, figli di famiglie ordinarie. Hanno bei vestiti e tatuaggi sul dorso. Ma stanno già imparando a usare le pistole e i kalashnikov, a non aver paura nemmeno della morte, e a combattere battaglie a cavallo degli scooter. È  solo invenzione o casomai realtà sin troppo cruda e poco nota? Per saperlo, occorre leggere questo romanzo straordinario, necessario e crudele, la nuova inesorabile denuncia di un grande scrittore italiano.

G. Di Santo e D. Amato, La messa non è finita, Ed Rizzoli  —   “Perdonami se non ti ho mai chiesto se leggi fedelmente il Corano. Se hai bisogno di un luogo dove riassaporare i silenzi misteriosi della tua moschea”, così si rivolge il vescovo Tonino Bello a un giovane musulmano sbarcato sulle coste pugliesi. La sua non è una semplice provocazione. Agli ultimi immigrati, tossicodipendenti, ex detenuti, sfrattati – ha dedicato la sua intera esistenza: un vescovo che incontra sui marciapiedi un’umanità dolente e indifesa, che accoglie in episcopio i bisognosi e manifesta con chi ha perso il lavoro, ma anche un uomo innamorato della Parola di Dio. A molti non è gradito: usa parole sferzanti e punta il dito contro i potenti di turno richiamando la Chiesa al servizio dei poveri. Ma per don Tonino, il vangelo è un messaggio rivoluzionario, che deve scardinarci dalle nostre comode certezze. Con l’aiuto di Domenico Amato, Gianni Di Santo ripercorre i passi del vescovo Tonino Bello, e dà sostanza a una santità che tutti gli riconoscevano in vita e che si auspica ottenga presto il suggello della Chiesa.

A cura di E. Alberti, M. Vaglieri, Meglio qui che in riunione, ed Rizzoli

Dimenticate gli epitaffi che si stagliano sulle tombe marmoree dei grandi condottieri, letterati, sovrani: scritti dai posteri per dovere o con soggezione, sono sovente bugiardi, e sempre pomposi, roboanti. Inutili. Questo libro, ispirato da un gioco fra amici, raccoglie gli “autoepitaffi” che oltre duecento italiani illustri e non – ma perlopiù illustri – hanno scritto di proprio pugno. Bando quindi alle blandizie, alle reticenze, ai sensi di colpa. Scegliere la frase per la propria lapide è l’occasione per concentrare in una pillola una vita intera o per dare un saggio dello spirito che ci anima. E allora c’è chi lancia un messaggio in una bottiglia – “E bello non saper d’esser morto!” (Giuliano Spazzali) -, chi, invece, filosofeggia, chi rievoca il tanto o il poco che ha fatto, chi compone una poesia minima, chi prende in giro – “Ceci n’est pas un épitaphe” (Rocco Tanica) – e chi esorcizza con una battuta folgorante e paradossale – “Si farà viva lei” (Elena Loewenthal). Nient’affatto cimiteriale, sfogliare questo volume è come raccogliere la confidenza più intima da ciascuno degli autori, entrare prepotentemente nella loro vita, vedere un film sull’Italia di oggi. E, insieme, è come scherzare con la Belva… non sia mai si riuscisse a eluderla.

G. Boatti, Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni, ed Laterza

Da Montecassino a Bose, da Camaldoli a Subiaco, dall’abazia di Noci, nella Murgia pugliese, ai contrafforti di Serra San Bruno in Calabria, da Praglia sino alla badia del Goleto, sui crinali dell’Irpinia orientale, “Hai trovato il monastero giusto?”: la domanda che qualcuno di tanto in tanto mi pone mette in guardia i fraintendimenti che il mio vagar eremi e cenobi potrebbe suscitare. No, non sto cercando il monastero giusto. Vado per questa strada perché ho il sospetto che le luci nascoste che giungono da questi luoghi siano ancora capaci di offrire qualche solido orientamento. Perfino nella densa penombra calata sui giorni italiani. Busso a queste porte perché ho l’impressione che qui si impari davvero che si può cambiare il mondo, ma impresa piuttosto complicata – a patto di cominciare a cambiare se stessi, partendo dalle cose più semplici e concrete. Ad esempio, cercando di stare nel mondo prendendone nel frattempo la giusta distanza. Governando in modo diverso faccende quotidiane e basilari come il dormire e il mangiare, il desiderare e il bisogno di riconoscimenti, il silenzio con se stessi e l’incontro con gli altri. Sembrano bazzecole, ma quelli che vi si sono cimentati seriamente dicono che la sfida sia di vertiginosa difficoltà. E, soprattutto, pare duri tutta una vita.
Di qualche titolo, si avverte di poterli acquistare, con sconto, su offerte on line_ 

C. Simonelli, Dio, Patrie, Famiglie. Le traiettorie plurali dell’amore, ed Piemme
La Presidente delle Teologhe Italiane entra nel dibattito sulla famiglia, sulla crisi del rapporto fra maschilità e femminilità, sulle unioni civili e i diritti delle coppie di fatto, sulle nuove forme di genitorialità, la teoria del gender, le realtà affettive omosessuali e su tutto ciò che si collega inevitabilmente a questi temi: frontiere e popoli in movimento, fragilità e disagio, nascita e morte. Il dibattito è aperto, secondo Cristina Simonelli, che in queste pagine riprende e scardina gli argomenti più spinosi dei due sinodi sulla famiglia e le relative conclusioni dell’Esortazione Apostolica di papa Francesco Amoris lætitia. È un percorso di ricerca e provocazione che si aggira fra passi biblici e riferimenti letterari, un pamphlet che infilandosi nelle intricate maglie della modernità lancia suggestioni osando disegnare traiettorie plurali e inclusive. Che cosa fa di una famiglia una vera famiglia? Oggi la vita sentimentale e di coppia è molto difficile, e la Chiesa deve riconoscere il grande merito di chi sceglie di costituire un nucleo familiare. Tuttavia, in una società in cui tutto è precario, liquido, frammentato – dal lavoro alle relazioni – non ci si può aspettare che l’amore e la famiglia non lo siano.  Un libro che farà discutere e che invita a non assumere posizioni preconcette, ma a riflettere e a distinguere, perché – come sostiene la Simonelli – se non si ama la complessità, se non si guarda al mondo con sym-pathia (con-passione), è impossibile sentirsi a casa nel ventunesimo secolo.

C. M. Martini, Il sole dentro, ed Piemme
Un testo inedito del 1975, sorprendente e di straordinaria freschezza, ritrovato fra le carte di Carlo Maria Martini. Un viaggio meditativo sulla vita dell’anima e la lotta spirituale, proposto dall’allora Rettore del Pontificio Istituto Biblico di Roma, che sarebbe poi diventato cardinale di Milano. In questo scritto – recuperato a seguito del lavoro di riordino e archiviazione a cura della Fondazione Martini – si rivela ancora una volta non solo il fine esegeta della Sacra Scrittura e il pastore che sarebbe stato poi grandemente ascoltato negli anni milanesi, ma anche il profondo scrutatore dell’animo umano capace di scandagliare le vanità e le debolezze dell’io nel costante combattimento fra l’opzione fondamentale per il bene e la resa di fronte alla fascinazione del male. Questa sorta di «manuale di vita interiore» aiuta a guardarsi dentro, a individuare le nostre inquietudini, a difendersi dal «morso dello spirito negativo» e ad affrontare quello stato di «desolazione spirituale» sempre in agguato sulla strada di chi vuole seguire il Vangelo; non manca un’instancabile esortazione alla fiducia, soprattutto quando si cade nei tentacoli delle forze oscure del maligno, perché come scrive Martini in queste pagine: «Tornerà il sereno. Dovremo solo attendere il riapparire del sole interiore, della luce dell’anima, con disposizione paziente, risoluta e coraggiosa».
S. Orth, Eros, Corpo, Cristianesimo, una provocazione…? Ed Queriniana 
Oggi non si ha quasi più paura di mettere il proprio corpo in bella mostra, di esporlo agli sguardi altrui, di ottimizzarlo chirurgicamente. Erotismo e corporeità svolgono attualmente un grande ruolo nel cinema e nella letteratura. La teologia cristiana pensa che non sia cosa degna di lei occuparsi di questi fenomeni e confrontarsi con essi? Proprio la fede nell’incarnazione non offre prospettive sorprendenti a proposito del nuovo culto del corpo e non indica dove bisogna opporsi a esso? Oppure oggi i cristiani non prendono più sul serio il fatto che Dio si è incarnato e quel che ciò significa? I vari contributi affrontano queste questioni attuali e delineano prospettive per un discorso cristiano adeguato a proposito dell’eros e della corporeità. Un libro da studio, un libro che aiuta a vivere di fede e a collocare gli indirizzi morali nell’essenziale dell’esistenza.
D. Fo, G. Manin, Dario e Dio, Guanda editrice   —   Diciamolo subito … questo libro su Dario e Dio scritto a quattro mani non potrà mai eguagliare il riso profondo che il premio Nobel ha saputo regalarci da mezzo secolo in qua recitando i suoi testi in teatro. Ma se siete curiosi di scoprire qualcosa sull’anima intima, le certezze ma anche i dubbi, le paure ma anche l’incantamento di fronte all’universo, di un «ateo convinto» di 90 anni (deceduto in questi giorni n.d.r.) allora leggetelo. Forse resterete sorpresi come lui quando a volte — dice — cammina in un bosco o guarda la meraviglia del cielo: «No che non esiste. Non ci credo. Però…». Perché l’altra cosa che si può subito dire è che Dario Fo ci avrà anche scherzato tanto ma, forse proprio per questo, di cose su Dio un po’ ne sa. Le prime delle quali imparate quando suo papà Felice, il ferroviere, e sua mamma Pina, la contadina, per quanto «atei e laici fino al midollo», lo avevano spedito a catechismo dal parroco di San Giano, Varese, dove lui era nato e cresciuto: battesimo, comunione, cresima. Un tipo di prete che era meglio perderlo che trovarlo, ricorda Dario. Ma una esperienza che, specie riletta tanti anni più tardi, un segno deve averlo lasciato. E specialmente quando poi di preti, racconta ancora lui, ne ha conosciuti altri e ben diversi: … fino a papa Francesco: «Un rivoluzionario» come «non s’era mai visto» e che «sta davvero cambiando il volto della Chiesa». Gli dedica diverse pagine, il premio Nobel, al Papa argentino. Quello che «nega di essere comunista e dice che l’amore per i poveri è una bandiera del Vangelo prima che del marxismo, e sarà anche vero, però chi se lo ricordava più?». Ma soprattutto il Papa dell’enciclica Laudato si’ in difesa della Natura: un «prodigio che manda in crisi anche un ateo convinto come me». E traduce: «Se Dio non c’è chi è questo essere così geniale che in ogni momento ti lascia a bocca aperta?». Un’invenzione? Può darsi: anzi «la più grande invenzione della storia, come diceva Voltaire». Ma «uno così, beh, o ci fai uno sghignazzo» o alla fine «ti siedi davanti a Lui (maiuscolo nel testo, ndr) e gli dici: adesso parliamone». Dopodiché, a parte la filosofia, c’è soprattutto la vita. Il coro dei piccoli cantori. Il nonno Bristìn che portava Dario nei campi e gli faceva tenere le redini del cavallo fino a quel grande albero di susine «e io, piscinìn che ero, pensavo: questo deve essere il paradiso terrestre». Poi certo: le Scritture, le donne, il Purgatorio. Gesù e la bellezza: «Un dono divino che Gesù era il primo ad apprezzare. Credo che lui stesso fosse bello. Uno sguardo che non ti mollava. Sapeva creare l’ascolto»: il più straordinario dei poteri, dice il giullare. E ancora, Gesù che svuota l’Inferno: «Il che non vuol dire che il Male la fa franca. Chi fa il male vive male, la sua pena la sconta già qui». E la morte, naturalmente. «Non la corteggio, faccia con comodo. Ma non la temo». Detto questo «l’idea di una fine eterna, sparire per sempre, è insostenibile per la mente umana. Sappiamo che sarà così. Siamo polvere, mi dice la ragione. Ma poi… la fantasia, l’estro, la follia mi danno altre visioni. Che dire? Spero di venir sorpreso». … Infine lo squarcio più alto. Che in realtà attraversa il libro intero del vecchio Dario e ne è forse la ragione più profonda. E ha il nome di sua moglie Franca Rame. Polvere, va bene. «Ma quando mi ritrovo ingarbugliato e non so come cavarmela mi viene istintivo sussurrare: Franca aiutami». Il nulla, d’accordo. «Però l’idea di ritrovarmi con Franca in un giardino, lei e io mutati in due begli alberi, il suo magari con le foglie dorate come erano i suoi capelli… sarebbe bellissimo. Se un qualcosa dovesse esserci vorrei che fosse così». (Paolo Foschini, dal Corriere della Sera)

Walter Kasper, Papa Francesco. Radici teologiche e prospettive pastorali, Ed Queriniana

Quasi a completamento del suo volume sulla misericordia, libro che fin dal primo Angelus papa Francesco ha indicato al mondo cristiano come il proprio itinerario di pontificato, ecco quest’altro lavoro da uno dei più stretti collaboratori di papa Francesco, il cardinal Kasper. Oltre gesti e parole, il sottofondo della novità portata da questo papa: la dimensione teologica, le radici teologiche del pensiero di Jorge Mario Bergoglio, ma anche le prospettive pastorali del suo pontificato aperte da quei contenuti teologici, sono qui tratteggiate con intelligente competenza e con squisita empatia.  «Papa Francesco annuncia il messaggio sempre valido del vangelo nella sua eterna novità e freschezza, senza ridurlo a un qualche schema preconfezionato. Papa Francesco unisce la continuità nei confronti della grande tradizione della Chiesa con quel rinnovamento che sa incessantemente sorprendere. Delle sue sempre nuove sorprese fa parte anche l’imbarazzante programma di una Chiesa “povera per i poveri”. Non è un programma liberale, ma un programma radicale – radicale nel senso originario della parola, perché significa un ritorno alle radici. Questo riandare alle origini non è tuttavia ripiegamento sul passato: è una forza per un inizio coraggioso rivolto al domani. È la rivoluzione della tenerezza e dell’amore» (cardinal Walter Kasper).

“Emarginare dalla sfera pubblica il cristianesimo non è intelligente” 

L’Europa non deve aver paura dei migranti e rifugiati che bussano alle sue porte. Deve piuttosto temere «il cambiamento del modo di pensare che si vuole imporre dall’esterno». Lo ha detto il pomeriggio di lunedì 26 settembre il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e Presidente dei vescovi italiani, aprendo a Roma i lavori del Consiglio permanente della Cei.

Alla luce degli ultimi avvenimenti – ha detto Bagnasco – dobbiamo riaffermare che oggi c’è bisogno di un di più di Europa. … I nazionalismi non si vincono né con l’omologazione forzosa, che è una sottile espressione di violenza, né con l’irenismo miope che è una forma sofisticata di deriva etica e di annullamento identitario. Più che di tanta povera gente disperata che bussa alle porte del continente, l’Europa dovrebbe temere il cambiamento del modo di pensare che si vuole imporre dall’esterno. Il Papa molte volte ha messo in guardia dalle “colonizzazioni” in atto, che chiama “pensiero unico”: esso vuole costringere a pensare nello stesso modo, con gli stessi criteri di giudizio al di sopra del bene e del male. Propagandare in modo ossessivo certi stili di vita, inculcare il principio del piacere a qualunque costo, esaltare la “dea fortuna” e il gioco anziché il gusto del dovere, del lavoro, della onestà; insinuare il fastidio dei legami, se questi non appagano sempre e comunque, far sognare una perenne giovinezza, spingere alla ricerca di evasioni continue dalla vita reale, non sostenere la fedeltà agli impegni di coppia, di famiglia, di lavoro… tutto questo connota una mutazione culturale che aliena la persona da se stessa e dalla realtà, la appiattisce sul tutto e subito. Questo cambiamento culturale, che muta gli stili di vita e che si fonda sull’«isolamento delle persone, la paura degli altri, il conflitto tra Stati, la destabilizzazione della famiglia, di gruppi e nazioni finisce per favorire «approfittatori cinici, e spesso oscuri, attenti a lucrare denaro e potere. Bagnasco ha quindi parlato della situazione italiana tratteggiandone un quadro tutt’altro che roseo. «Le nostre parrocchie sono testimoni di come la povera gente continui a tribolare per mantenere sé e la propria famiglia. Vediamo aumentare la distanza fra ricchi e poveri; lo stesso ceto medio è sempre più risucchiato dalla penuria dei beni primari, il lavoro, la casa, gli alimenti, la possibilità di cura. Con speranza sentiamo le dichiarazioni rassicuranti e i provvedimenti allo studio o in atto; ma le persone non possono attendere, perché la vita concreta corre ogni giorno, dilania la carne e lo spirito». Sulla flessibilità, il presidente della Cei dice: «Nessuno può illudersi circa lo stato di disagio o di disperazione legato alla disoccupazione o alla incertezza: la teoria della flessibilità – che può avere le sue ragioni – getta la persona in un clima fluido e inaffidabile. Ci chiediamo: coloro che teorizzano non sono forse i primi ad essere ben sicuri sul piano del proprio lavoro e, forse, del proprio patrimonio? In un passaggio successivo, sempre riferito all’Italia, Bagnasco fa un accenno indiretto alla legge sulle unioni civili: Presentare tutto sullo stesso piano – come qualcuno intende – è un errore educativo grave». Una frase è stata infine dedicata al referendum per la modifica della Costituzione, definito «un importante appuntamento». «Come sempre, quando i cittadini sono chiamati ad esprimersi esercitando la propria sovranità – ha detto Bagnasco – il nostro invito è di informarsi personalmente, al fine di avere chiari tutti gli elementi di giudizio circa la posta in gioco e le sue durature conseguenze».

“Il Papa si santifica e attacca i giornalisti”
Questo il titolo dato da un giornale, chiaramente di parte politica e culturale, all’incontro del Papa con i giornalisti. E sottotitola: «”Le vostre chiacchiere sono terroristiche e uccidono”. Le sue invece fanno bene». Incontro che gli altri giornali hanno riassunto in occhiello richiamando verità, professionalità e cura della dignità di ogni uomo, chiedendo di non sottomettersi a interessi di parte, così che la professione non diventi arma di distruzione. Un titolo quello del giornale citato che per la verità non corrisponde all’articolo, che pur sottolineando il difficile di raccontare sempre e bene, tuttavia riconosce il fondo meritevole delle parole papali. Ma si vede che i titolisti non sono tenuti a verità e responsabilità, ma solo a richiamare da subito gli uccelli nel loro roccolo, a beneficio dei rilevamenti numerici dei lettori. Vi mando l’ultimo pezzo dell’articolo di F. Facci per evidenziare appunto la differenza tra titolo e contenuto, che mi pare molto più “vero”.
Non ci sono state ovviamente solo strette di mano in quell’incontro con i giornalisti. Francesco che non va tanto per il sottile, ha fatto alla categoria un bello shampoo. Offrendo loro tre regole professionali: «Amare la verità è una cosa fondamentale per tutti, ma specialmente per i giornalisti. Vivere con professionalità, qualcosa che va ben oltre le leggi e i regolamenti. Rispettare la dignità umana, che è molto più difficile di quanto si possa pensare a prima vista». Nel discorso senza troppi giri di parole ha fatto capire che quel che vede dalla stampa non è esattamente così: la verità non è così comune, e il rispetto della dignità altrui assai scarso. Secondo il Papa «nel giornalismo di oggi – un flusso ininterrotto di fatti ed eventi raccontati 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana – non è sempre facile arrivare alla verità, o perlomeno avvicinarsi ad essa. Nella vita non è tutto bianco o nero. Anche nel giornalismo, bisogna saper discernere tra le sfumature di grigio degli avvenimenti che si è chiamati a raccontare». E ha staffilato la categoria su una certa inclinazione alla diffamazione altrui, usando parole e paragoni pesanti: il parallelo già utilizzato in altre occasioni sulle parole che uccidono come le armi dei terroristi. «Spesso ho parlato», ha ricordato Francesco, «delle chiacchiere come terrorismo, di come si può uccidere una persona con la lingua. Se questo vale per le persone singole, in famiglia o al lavoro, tanto più vale per i giornalisti, perché la loro voce può raggiungere tutti, e questa è un’arma molto potente». Fa effetto il paragone, ma non è così politico come potrebbe sembrare. È un altro modo di dire quel che è scritto nell’Antico testamento, libro del Siracide: «ne uccide più la lingua della spada». Il Papa ha spiegato: «il giornalismo deve sempre rispettare la dignità della persona. Un articolo viene pubblicato oggi e domani verrà sostituito da un altro, ma la vita di una persona ingiustamente diffamata può essere distrutta per sempre». 

 Sulla “competenza” 
Caro Don,  ho letto con attenzione il  piacevole elzeviro riguardante la mancanza di competenza dei pentastellati romani, a quanto pare in confortante buona compagnia di tanti conduttori di parrocchie. Ho aggiunto quindi la sua opinione a quelle di tutti i giornali e televisioni che hanno dedicato pagine e pagine e ore di trasmissione allo smontaggio dell’impalcatura del movimento che, pur essendo nato da poco, è diventato a rischio di governo per le percentuali di voto raggiunte, quindi rappresenta un pericolo per tutti gli altri circensi. Naturalmente le percentuali derivano da voti del popolo, magari di serie B come quelli di manzoniana memoria, ma non penso che si voglia mettere in dubbio il suffragio universale e la democrazia, considerando buoni solo i voti che piacciono.  La prima domanda che mi pongo è: se i romani si mangiano il fegato dopo pochi mesi di giunta zero, cosa dovrebbero fare gli italiani dopo due anni di sviluppo zerovirgola: degustazione di tutti gli organi interni? Quindi proporrei di aspettare almeno di vedere se si riesce a raggiungere lo zerovirgola, magari prima di due anni, considerando che si parte con un debito di 13.000.000.000,00 dico tredicimiliardidieuro, pesante fardello lasciato dai “competenti” predecessori. Naturalmente al formarsi delle precedenti giunte tutti d’accordo, giornali televisioni e commentatori, sulle capacità dei componenti. Per quanto riguarda la competenza è proprio un bel problema perché una scuola di sindaco non esiste e non si sa dove “rubare (verbo molto appropriato in politica) il mestiere come fanno apprendisti parrucchieri e pasticcieri” perché, con i maestri a disposizione, si rischia di diventare parrucconi e pasticcioni. Che competenza specifica ha un chirurgo come Marino, un giudice come DeMagistris, uno che viene dalla televisione come Gori e chissà quanti altri?  Né più né meno di una avvocato come Raggi. Forse allora c’è un altro problema perché sento dire spesso che non basta l’onestà dal momento che in politica bisogna sporcarsi le mani! A questo punto ho bisogno di aiuto perché non ho mai capito di che cosa bisogna sporcarsele. Provo a fare qualche ipotesi. Sporcarsele di sangue? Non credo, per questo ci vuole un livello più alto, vedi Tony Blair che va in giro a fare pagatissime conferenze e candidamente dice che sapeva che in Iraq non esistevano armi di distruzione di massa. Risultato: 100.000 dico centomila morti e paese destabilizzato. (Chi ha coraggio può cercare su Google l’effetto dei bombardamenti, probabilmente con uranio o fosforo bianco a Falluja, causa di nascite di neonati deformi. È successo che molti sono morti sotto le bombe, molti sopravvissuti si sono ammalati di tumore e i giovani che non si sono ammalati non fanno più figli perché hanno subìto mutazioni genetiche che fanno nascere bambini con gravi malformazioni). Questa privazione del futuro provocata volontariamente da un popolo a un altro popolo innocente mi viene sempre in mente quando, nei casi di attentati assassini con migliaia di volte meno morti, ci confrontiamo con gli altri vantando i superiori valori dell’occidente. Sono andato fuori tema, torniamo quindi ai nostri amministratori.
Sporcarsele di M? Come malavita, mafia, massoneria? Mafia e malavita non penso, perché è un tipo di sporcizia che ha fatto il suo tempo essendo stata utilizzata, diciamo pure ”a piene mani”, dai competenti predecessori e il maestro Buzzi non può più dare i suoi insegnamenti essendo in galera. Sporcarsele di massoneria allora? Anche su questo ho dei dubbi perché Gelli è morto e il noto massone e faccendiere Flavio Carboni si dedica a tempo pieno a consigliare il sig. Boschi padre su come mettere in conti di pochi i risparmi di tanti. Anche qui è il caso di dire che è rubando il mestiere che si diventa competenti. Ci sono. Si devono sporcare di polvere di cemento! Ecco forse una buona ragione. Si deve rivedere il no alle Olimpiadi (quando lo disse Monti da premier nessuna obiezione) poi, anziché consumo zero del suolo e riqualificazione dell’esistente (come programma M5S), si costruisce ancora, naturalmente con soldi pubblici dopo sapienti bustarelle, e così, con una sporcatina  di  polverecaltagirone, come per magia, qualche giornale di proprietà cambia registro e le cose cominciano a migliorare, perché, suvvia, è così che va il mondo….! Purtroppo, devo onestamente ammettere che questo comportamento non è onesto.  È forse questa la competenza? Ma come si fa a farla andare d’accordo con l’onestà?  Sarebbe allora più onesto dire apertamente che per essere competenti bisogna essere anche un tantino disonesti, non molto, appena appena, ma, a questo punto, le mani essendo sporche non possono essere pulite per la “ contraddizion che nol consente”. Riguardo ai dubbi su un movimento “nato per sfasciare gli avversari mandando a quel paese il Paese attuale” mi domando se fa più danni al Paese un gruppo di competenti che contrae debiti per 13 miliardi di euro lasciando allo sfascio una città capitale come Roma  o un gruppo di eufemistici novellini che, dimezzandosi lo stipendio,  risparmiano oltre 16 milioni per aiutare finora,  non eufemisticamente ma concretamente, più di mille piccole e medie imprese in difficoltà nella crisi del nostro sistema. Io mi sono dato una risposta che però, essendo di parte, non fa testo. Con la consueta franchezza e “absit iniuria verbis”. A.C.
Sia ben chiaro, carissimo A.C., che l’uno non sposta l’altro; e non è mettendo in un 
calderone unico Blair, Buzzi, Gelli, Carboni e il Boschi-padre (le colpe ricadono sui figli?) che i tredici  miliardi di euro, messi in mano a degli incompetenti, diano speranza che non moltiplichino il debito. Chiedere competenza è chiedere onestà; e l’onestà non può prescindere dalla competenza: e se ti affido un compito amministrativo, desidero che tu sappia come gestire, avendolo imparato nelle piccole o grandi botteghe su cui si fonda il tuo curriculum. Ora, un avvocato, e giovane, che si è limitato a passare le carte, e lo dice lei, in un  studio sia pur grosso (e sia pure in quello studio) non credo abbia la stessa competenza di un sindaco che si è ritrovato una città con un decimo di abitanti, e senza debiti, e dopo aver per anni fatto gavetta in una grande azienda, è divenuto amministratore delegato di una propria società dagli utili cospicui. Competenti senza essere neppure un pochino disonesti? Certo, si può, si deve. Se non sempre e a tutti riesce, non si deve dimenticare che ci sono stati in Italia degli onesti contemporaneamente competenti amministratori: si può imparare da loro, e non da comici che riempiono piazze e chiamano all’assalto della diligenza; o da sindaci che si presentano con il figlio per gusto di popolarità democratica (o forse quel giorno dell’inaugurazione la babysitter  non era disponibile?). Questa è la mia pretesa da cittadino: o perché hanno mangiato loro, adesso che mangino gli altri? Proviamo? ma che cosa ? Avevo un amico dentista che era affascinato sempre dal nuovo, e il nuovo era sempre (guarda caso) un capopolo. Spero che ora – sull’argomento è un po’ che non lo sento – non ricada nella stessa zuppa, visti gli esiti precedenti. Quanto a “democrazia” e suffragio di popolo, c’è un intervento precedente che potrebbe scandalizzarti di più. Ma lasciati scandalizzare! Quanto alla “confortante buona compagnia di tanti conduttori di parrocchie”: e se fosse stato quello il bersaglio, prendendo spunto, a mo’ d’esempio, dai pentastellati? Grazie  per l’interesse che hai per il sito: è bello sapere che qualcuno condivide i tuoi pensieri, senza l’obbligo di essere d’accordo. d.a.

Da giovedì a domenica 18 settembre … Qual è il tema del Congresso Eucaristico? L’Eucaristia sorgente della missione: «Nella tua Misericordia a tutti sei venuto incontro» è il tema attorno al quale si ritroveranno, nel capoluogo ligure, delegazioni provenienti dalle diocesi di tutta Italia.
Che cosa rappresenta il logo ufficiale del Congresso Eucaristico? Il logo, che restituisce tramite pochi segni l’immagine dell’Eucaristia e di Genova, è stato scelto tra diversi bozzetti presentati da giovani laureati e studenti. È stato ideato da Irene Damonte, laureata in design del prodotto e della nautica, e Alberto Macchiavello, studente in Scienze della Comunicazione. In primo piano, il pesce stilizzato, simbolo dei primi cristiani, diviene rappresentazione iconica del mare. Il cerchio oro rappresenta l’Ostia, l’Eucaristia, solcata da una croce il cui braccio orizzontale è costituito dal fascio di luce emesso dalla Lanterna stilizzata, che da sempre guida verso il porto sicuro, emblema riconosciuto universalmente di Genova.
Quali sono i principali appuntamenti del Congresso Eucaristico? La giornata di sabato 17, nello spirito dell’anno giubilare, è caratterizzato dalla visita dei delegati a 46 luoghi simbolici, dove le 14 opere di misericordia spirituale e corporale vengono esercitate quotidianamente: carceri, ospedali, centri di accoglienza e di ascolto, scuole, mense per i poveri.
L’appuntamento principale di sabato 17: a partire dalle ore 16.45 si svolge (con diretta su Tv2000) una solenne Adorazione Eucaristica nella cornice del Porto Antico. Il Santissimo Sacramento viene portato a bordo di una motovedetta della Capitaneria di Porto che nei mesi scorsi è stata impegnata in missioni di soccorso ai profughi. Le giornate del Congresso Eucaristico saranno segnate dall’alternarsi di proposte spirituali (tra cui le catechesi di 8 vescovi, celebrazioni penitenziali e l’adorazione eucaristica notturna nella chiesa di San Matteo) e culturali (visite guidate alla città). Nelle due serate di venerdì 16 e sabato 17 sono in programma rispettivamente un concerto al Teatro Carlo Felice e una serata in piazza Matteotti animata dai giovani delle diocesi liguri.

Libri
Ha cent’anni, ed è sempre attuale:
E.L. Master, Antologia di Spoon River, ed Einaudi 
L’ Antologia di Spoon River è una raccolta di epitaffi, ossia di iscrizioni tombali, e come l’autore stesso afferma, si è ispirato alle persone che conosceva nei luoghi dove ha vissuto da bambino per scrivere l’opera. Quando nel 1915 Edgar Lee Masters pubblicò l’Antologia di Spoon River il successo fu così grande che si pensava che ogni americano, a meno che non fosse analfabeta, l’avesse letta; fu considerato in assoluto come il libro di poesie più letto fino a quel momento (e probabilmente è fino ad oggi una delle raccolte di liriche più conosciute al mondo). Nasce come una pubblicazione a puntate sul giornale di St.Louis (Missouri, USA). Figlio di un avvocato, Edgar Lee Masters cresce coi nonni nell’Illinois, e in particolare dal 1880 a Lewistone, cittadina affacciata sul fiume Spoon. L’infanzia è segnata da due morti precoci: prima, nel 1878, del fratellino minore; poi, l’anno successivo, del suo migliore amico che finisce sotto un treno. Dopo le superiori sogna di continuare gli studi letterari, ma si deve rassegnare a fare pratica da avvocato nello studio paterno e, una volta trasferitosi a Chicago, inizia a lavorare anche come giornalista. Dopo aver aperto uno studio legale ed essersi sposato nel 1898, dà anche alle stampe un primo libro di poesie, mentre inizia a dedicarsi, ma con scarso successo, anche al teatro. Una visita di sua madre, con la quale rievoca i tempi in cui viveva nel midwest, spinge Masters a scrivere i primi epitaffi che verranno raccolti poi nella celebre Antologia, la sua opera più famosa: in poche settimane le sue poesie vengono pubblicate prima su rivista e poi in volume e raccolgono apprezzamenti da tutto il mondo. Cento anni fa Edgar Lee Masters pubblicò la versione definitiva dell’Antologia di Spoon River. Dal 1943, anno della prima pubblicazione dell’Antologia di Spoon River in Italia, sono uscite sessantadue edizioni in diverse collane, e si sono venduti più di cinquecentomila esemplari: un piccolo record per un libro di poesia. La semplicità scarna di Masters, e soprattutto l’attenzione rivolta ai piccoli fatti quotidiani, lontani dall’enfasi e dagli eroismi dell’anteguerra, aveva colpito per la prima volta Fernanda Pivano, che lo traduce, e continua a colpire ancora oggi i lettori. Le storie provinciali di Spoon River, l’incomprensione dei rapporti affettivi, non si dimenticano facilmente. Nata dalla lettura degli epigrammi sepolcrali della greca Antologia Palatina, Spoon River allinea, in versi appena ritmati, le lapidi del cimitero di una piccola città del Midwest. Le “voci” dei personaggi, uomini e donne che non hanno capito e che non sono riusciti a farsi capire, affascinano inesorabilmente. Recitate dalle lapidi come litanie di morte che non è possibile scongiurare, raccontano con brutale franchezza l’eterno ritorno dei fantasmi del passato, e svelano nel contempo le ipocrisie del potere, le menzogne degli amanti, l’inconsistenza della rispettabilità, restando sospese tra amarezza, ironia e redenzione. “Lee Masters guardò spietatamente alla “Piccola America” del suo tempo e la giudicò e rappresentò in una formicolante commedia umana[…] Le spettrali, dolenti, terribili, sarcastiche voci di Spoon River ci hanno tutti commossi e toccati a fondo”. (Cesare Pavese).            
 Donna della misericordiaGenerosa dispensatrice della misericordia  tra gli ultimi e gli scartati, madre Teresa di Calcutta ha levato la sua voce davanti ai potenti della terra  perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini della povertà creata da loro stessi. Lo ha ricordato papa Francesco all’omelia della messa celebrata domenica mattina, 4 settembre, per la canonizzazione della fondatrice delle Missionarie e dei Missionari della carità. Oltre centomila persone hanno gremito piazza San Pietro per il solenne rito, uno dei momenti centrali dell’anno giubilare straordinario. Proprio in questo contesto è significativo che il Papa, nella sua omelia, abbia definito madre Teresa  instancabile operatrice di misericordia  e l’abbia indicata come  modello di santità  ai numerosi rappresentanti del vasto mondo del volontariato presenti alla celebrazione.  Francesco ha sottolineato che  non esiste alternativa alla carità. E ha rimarcato che la sequela di Gesù è un impegno serio e al tempo stesso gioioso. Esso richiede  radicalità e coraggio per riconoscere il maestro divino nel più povero e scartato della vita e mettersi al suo servizio. dedicato a chi si è scandalizzato per chi si è a suo tempo irritato per la cosiddetta satira del periodico parigino, chiedendosi se anch’essa – la satira – debba riconoscersi un limite nel rispetto dell’altrui libertà. “Terremoto all’italiana: penne al sugo di pomodoro, penne gratinate, lasagne” la vignetta che mostra persone sporche di sangue. E la battuta: “Ancora non si sa se il sisma abbia gridato ‘Allah akbar’ prima di tremare”. Questa la satira “intelligente” (!!!) di Charlie Hebdo: aspettatevi quelli che sicuramente si alzeranno a difenderla. I soliti “intelligenti” che abbondano di qua e di là delle Alpi.  Libri
Ronald H. Balson, 
Ogni cosa è per te, ed Garzanti, pagg 468 — A “Ogni cosa è per te” fa da sfondo la questione israelo-palestinese, conflitto politico-militare che vede contrapposti lo Stato di Israele, da una parte e i palestinesi e gli Stati arabi circostanti, dall’altra. in solidarietà con le terre devastate nella celebrazione di domenica 28 si raccoglieranno offerte fidando nella generosità di sempre _ ossessioni o calcoli politici di bassa lega? Il presidente dell’Unione comunità islamiche e imam di Firenze, Izzedin Elzir, ha pubblicato sulla sua pagina facebook una foto di sette suore, in tonaca e velo, che giocano sulla spiaggia. Senza alcun commento ma con un chiaro riferimento alle discussioni sull’uso del Burkini. E il suo profilo è stato bloccato da Facebook: una sospensione che ha colto di sprovvista lo stesso Imam: “Sono sorpreso – ha detto Elzir – non è comprensibile. Mi hanno chiesto di verificare il mio account inviando un documento”. E Elzir così ha fatto. L’account è stato così riattivato. Nel messaggio apparso quando l’imam ha cercato di rientrare sui social era scritto che il blocco era dovuto a molte segnalazioni sul nome fittizio dell’account che, secondo loro, non sarebbe stato di una persona reale. “Verificare chi sono è una procedura molto strana in ogni caso” – spiega Elzir.  Una bufera scoppiata dopo la pubblicazione. Una provocazione: il post ha sollecitato una quantità di reazioni riaccendendo il dibattito sull’opportunità o meno di vietare il costume da bagno coprente che le donne islamiche usano per andare in spiaggia. Tommaso, per esempio, ha obbiettato: “ragazzi, ma vi sfugge che le suore appartengono ad un ordine religioso e quella è un’uniforme? L’abbigliamento dei laici è un’altra cosa. Il paragone con le suore non ha senso!!!!!”. C’è chi invece l’ha presa sul ridere, come Daniele: “E anche quest’estate abbiamo trovato un’argomento per discutere sotto l’ombrellone. Meno male, altrimenti avremmo parlato delle buche nelle strade”. (da Il corriere della sera)
Noi, che negli anni cinquanta del secolo scorso, eravamo in colonia a Rimini, sotto la tutela di suore di Maria Bambina, noi già da allora una foto – in bianconero – non ci avrebbe scandalizzato, dato che lo scandalo ormai non è più sul vestito e/o sullo svestito femminile (Ma sulle parole che creano violenza e non solo contro popoli di culture diverse, ma anche contro le istituzioni che reggono l’unità di uno Stato – ma esiste ancora il reato di vilipendio del capo dello Stato? se non più, da ripristinare e perseguire quanti stanno disfacendo le coscienze). Noi abbiamo avuto nonne che non uscivano se non si coprivano la testa e le spalle con un gran scialle: e non erano musulmane, ed eravamo negli anni sessanta del secolo scorso. Ora tocca a loro, a queste donne immerse nell’Occidente – a loro e non ai loro uomini, certo – decidere se e fino a quando portare i loro costumi. Soprattutto se rispettano il riconoscimento dovuto, in pubblico, tenendo il volto scoperto: come facevano le nostre nonne, e come han sempre fatto le suore: anche al mare. n.d.r.

La cultura del cinema

Disse Fellini che Il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio, quel Dio che abita l’umano da crescere. L’estate serve anche per recuperare quanto l’anno lavorativo non avesse consentito. Ecco quattro film da vedere (o rivedere):   >>>   Il film che ha messo il dito nella piaga del nostro tempo, che ha lanciato la moda di un (pericoloso) gioco di società, dove la verità diventa tragedia: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese ci è riuscito, anche solo per riflettere sul modo con cui i cellulari hanno mutato le esistenze di ognuno di noi.   >>>    Anche se lascia l’amaro in bocca e comunica un senso allarmante di giustizia inefficiente, In nome di mia figlia,  protagonista strepitoso Daniel Auteuil, è un’opera piena di fascino, che non lascia tregua: un padre che ha dedicato la propria vita all’indagine sulla morte tragica della figlia adolescente.   >>>   Il mare dei ricordi, la nostalgia di un passato irrecuperabile, la possibilità di una rinascita: al centro di Seconda primavera, regia di F. Calogero, i movimenti del cuore di un architetto cinquantenne che, grazie all’incontro con una ragazza che gli ricorda la moglie scomparsa, ritrova il gusto dei sentimenti. Un cuore in inverno che si scioglie lentamente, come neve al sole.   >>>   Di Julieta, ultimo gioiello di Pedro Almodovar, qualcuno ha detto che non ha la carica vitale di altre opere dell’autore. Tutto cambia, e gli anni segnano l’ispirazione di un maestro che non si accontenta di ripetere se stesso: la riflessione profonda sul destino, sull’abbandono, sulla potenza della passione.  (di F. Caprara, da La Stampa).


Vi invio questo trafiletto dell’Osservatore Romano, che mi pare faccia da appendice all’articolo “democrazia” che ho letto con grande interesse, trovandovi come sempre una lettura “profetica”.

Una guida per i cattolici nell’esercizio dei loro diritti e doveri come cittadini partecipi alla vita democratica del proprio paese: è questo il senso del documento Forming consciences for faithful citizenship (Formare le coscienze per essere cittadini fedeli) pubblicato dalla Conferenza episcopale statunitense in vista delle elezioni presidenziali dell’8 novembre. Si tratta di un testo che richiama innanzitutto alla responsabilità politica dei cattolici nei confronti del bene comune. Al riguardo vengono citate le parole pronunciate da Papa Francesco il 16 settembre 2013 durante la meditazione mattutina a Santa Marta: «A volte abbiamo sentito dire: un buon cattolico non si interessa di politica. Ma non è vero: un buon cattolico si immischia in politica offrendo il meglio di sé perché il governante possa governare». I vescovi esortano pastori, religiosi, laici e tutte le persone di buona volontà «a contribuire al dibattito pubblico in maniera civile e rispettosa, a dare forma alle scelte politiche nelle prossime elezioni alla luce del magistero della Chiesa», consapevoli di una duplice eredità che li lega, come fedeli cattolici e come cittadini americani.

Libri

PER CHI METTE LIBRI IN VALIGIA – Ricordiamo e riproponiamo gli ultimi titoli che abbiamo segnalato, e che possono soddisfare le ore di eventuali piogge marine o montane >>> di M. Maraviglia, D. M. Turoldo: la vita, la testimonianza, ed Morcelliana – un libro, che attraverso una accurata ricerca d’archivio, ha l’intento di restituire alla storia una figura più volte presentata in termini mitizzanti o aneddotici.  >>> Nando Pagnoncelli, Dare i numeri, Ed Dehoniane – Le discrepanze tra percezione e realtà consentono di creare un «indice di ignoranza» che classifica i Paesi dal meno al più informato. E l’Italia, in questa categoria di ignoranza, sta ai primi posti riguardo l’allarme della migrazione, cavalcato da tv e social della Rete. >>>  E. Affinati, L’ uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, ed Mondadori – L’autore ha cercato l’eredità spirituale di don Lorenzo nelle contrade del pianeta dove alcuni educatori isolati, insieme ai loro alunni, senza sapere chi egli fosse, lo trasfigurano ogni giorno: dai maestri di villaggio che pongono argini allo sfacelo dell’istruzione africana, ai teppisti berlinesi, frantumi della storia europea.


RICEVUTO E PUBBLICATO

Sto leggendo con molto interesse le riflessioni che da qualche tempo trovo sul sito sotto il titolo Da qui. Trovo che questo pezzo delle esortazioni fatte da san Bernardo a un suo monaco diventato papa con il nome di Eugenio III possano ben dire che in ogni tempo, e dunque anche nel nostro, occorre restare in guardia perchè “il potere del posto” non diventi una tentazione nella Chiesa, anche oggi… Se può servire ai lettori del sito, come me interessati a una chiesa liberata da tante pastoie che non lasciano brillare il Signore (M. A.)

« Eccoti avanzare tu, il pastore, tutto scintillante d’oro, rutilante di mille colori. Che vantaggio ne ha il tuo gregge? Oserei dire che questo è più un pascolo di demoni, che di pecore. S’affaccendava forse in queste cose Pietro, si divertiva in questo modo Paolo? Guarda come serve lo zelo degli ecclesiastici, ma solo per garantirsi il posto! Tutto vien fatto per la carriera, niente o ben poco per la santità. Se per qualche buona ragione tu tentassi di ridurre questo apparato e di essere un po’ più alla mano, direbbero: “Per carità, questo non va bene, non è conforme ai tempi, non è adatto alla vostra maestà; badate alla dignità della vostra persona”. Il loro ultimo pensiero è quello che piace a Dio; sul pericolo della salvezza non han dubbi di sorta, a meno che vogliano credere salutare quello che è grandioso, e giusto quello che splende di gloria. Tutto quello che è modesto, è talmente aborrito dalla gente del palazzo che sarebbe più facile trovare chi preferisca essere umile piuttosto che sembrarlo. Il timor di Dio è considerato un’ingenuità, per non dire una dabbenaggine. Chi è giudizioso e ha cura della propria coscienza, vien bollato d’ipocrisia. Chi ama la pace e si dedica di tanto in tanto a se stesso, lo ritengono un fannullone. Ma su queste cose basta quanto abbiam detto. Ho appena sfiorato il muro, senza sfondarlo. Tocca a te, in quanto figlio di profeta, andare più a fondo e vederci chiaro. A me non è lecito andar oltre. Leggiamo nel Vangelo che vi fu una discussione tra i discepoli per sapere chi di loro fosse più importante. Saresti sfortunato, se intorno a te tutte le cose andassero in questa maniera. La curia ormai m’è venuta a noia e conviene uscir dal palazzo. … Non ti consiglio tuttavia di essere severo, ma grave. La severità è costante per chi è un po’ debole, mentre la gravità mette a freno chi è sventato. La prima rende odiosi, ma se manca la seconda si diventa oggetto di scherno. Comunque, è più importante in ogni caso il senso della misura. Io non ti vorrei né troppo severo, né troppo debole. Nel palazzo comportati da Papa, tra i più intimi da padre di famiglia. Riepilogando, la Chiesa romana, che governi per volontà di Dio, è madre delle altre chiese, non loro padrona: di conseguenza tu non sei il padrone dei vescovi, ma uno di essi. Per il resto considera che devi essere il modello esemplare della giustizia, lo specchio della santità, l’esempio della pietà, il testimone della verità, il difensore della fede, il maestro delle genti, la guida dei cristiani, l’amico dello sposo, il paraninfo della sposa, l’ordinatore del clero, il pastore dei popoli, il maestro degli ignoranti, il rifugio dei perseguitati, il difensore dei poveri, l’occhio dei ciechi, la lingua dei muti, il sacerdote dell’Altissimo, il vicario di Cristo, l’unto del Signore ».

 MARTIRIO – “Una chiesa parrocchiale in una mattina d’estate. È quasi vuota. Solo poche persone a messa. Poi l’irruzione improvvisa della barbarie. Le uniche parole che vengono alla bocca sono quelle pronunciate dall’arcivescovo di Rouen, Dominique Lebrun, dalla Gmg di Cracovia: ‘Il mio grido sale a Dio’ . È un grido di dolore e angoscia di fronte al mistero del male. Un grido di rabbia di fronte alla violenza fanatica che ha segnato la nostra terra, il nostro mondo”, scrive il quotidiano cattolico La Croix. “Tutte queste persone disarmate, tutte queste vite stroncate, uomini, donne, bambini. Da Baghdad a Orlando, da Nizza a Saint Étienne du Rouvray. Nessuna causa può giustificare un simile abominio. Ma il nostro grido a Dio è una richiesta di aiuto per resistere alla tentazione della vendetta. ‘La chiesa cattolica non può prendere altre armi se non quelle della preghiera e della fraternità tra gli uomini’, ha detto l’arcivescovo prima di lasciare la Polonia per tornare alla sua diocesi”. 
«Questa è guerra. Abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace». Sul volo AZ4000 che lo porta a Cracovia, Francesco saluta assorto i giornalisti e per la prima volta interviene direttamente sull’attentato alla chiesa di Rouen. Con un chiarimento fondamentale: «Quando parlo di guerra parlo di guerra sul serio, non di guerra di religione. C’è guerra di interessi , c’è guerra per i soldi, c’è guerra per le risorse della natura, c’è guerra per il dominio dei popoli, questa è la guerra. Qualcuno può pensare “sta parlando di guerra di religione”: no, tutte le religioni vogliono la pace, la guerra la vogliono gli altri, capito?». Da tempo Francesco denuncia la «Terza guerra mondiale, combattuta a pezzi» in corso. Ora, mentre l’aereo sorvola l’Adriatico, ripete: «Una parola che si ripete tanto è insicurezza. Ma la vera parola è guerra. Da tempo diciamo che il mondo è in guerra a pezzi. Questa è guerra. C’è stata quella del ’14, poi l’altra grande Guerra mondiale, nel ’39-’45, e adesso questa. Non è tanto organica, forse – organizzata sì – ma è guerra». Il Papa ricorda padre Jacques Hamel: «Questo santo sacerdote che è morto proprio nel momento in cui offriva le preghiere per tutta la Chiesa è uno, ma quanti cristiani, quanti innocenti, quanti bambini… Pensiamo alla Nigeria, per esempio. “Ah! Ma quella è l’Africa!”. È guerra». L’aereo di Francesco è atterrato poco prima delle 16, alla Giornata mondiale della Gioventù sono già arrivati 500 mila ragazzi. «La gioventù sempre ci dice speranza», aggiunge Francesco: «Speriamo che i giovani ci dicano qualcosa che ci dia un po’ più di speranza, in questo momento». Il Papa ha voluto ringraziare coloro che gli hanno fatto le condoglianze e «in modo speciale il presidente della Francia che ha voluto collegarsi con me telefonicamente come un fratello». 

LIBRI
E. Affinati, L’ uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, ed Mondadori   >>>   
A quasi cinquant’anni dalla sua scomparsa don Lorenzo Milani, prete degli ultimi e straordinario italiano, tante volte rievocato ma spesso frainteso, non smette di interrogarci. Eraldo Affinati ne ha raccolto la sfida esistenziale, ancora aperta e drammaticamente incompiuta, ripercorrendo le strade della sua avventura breve e fulminante: Firenze, dove nacque da una ricca e colta famiglia con madre di origine ebraica, frequentò il seminario e morì fra le braccia dei suoi scolari; Milano, luogo della formazione e della fallita vocazione pittorica; Montespertoli, sullo sfondo della Gigliola, la prestigiosa villa padronale; Castiglioncello, sede delle mitiche vacanze estive; San Donato di Calenzano, che vide il giovane viceparroco in azione nella prima scuola popolare da lui fondata; Barbiana, “penitenziario ecclesiastico”, in uno sperduto borgo dell’Appennino toscano, incredibile teatro della sua rivoluzione. Ma in questo libro, frutto di indagini e perlustrazioni appassionate, tese a legittimare la scrittura che ne consegue, non troveremo soltanto la storia dell’uomo con le testimonianze di chi lo frequentò. Affinati ha cercato l’eredità spirituale di don Lorenzo nelle contrade del pianeta dove alcuni educatori isolati, insieme ai loro alunni, senza sapere chi egli fosse, lo trasfigurano ogni giorno: dai maestri di villaggio, che pongono argini allo sfacelo dell’istruzione africana, ai teppisti berlinesi, frantumi della storia europea.

Elie Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, Ed Terra Santa

Romanzo inedito di Wiesel, l’uomo che vide Dio appeso a una forca si è spento a Boston, a 87 anni. Scrittore premio Nobel per la Pace, nato in Romania, rinchiuso nel ghetto e poi ad Auschwitz.  Giugno 1967, Muro Occidentale di Gerusalemme. All’indomani della Guerra dei Sei giorni, Wiesel vede sfilare migliaia di uomini e donne, «in uno strano raccoglimento». E confusi tra quei volti prendono vita i personaggi di questo romanzo, composto di getto in quell’anno, come un impetuoso flusso di coscienza nel quale si mescolano la realtà e la finzione, la memoria e il desiderio. «I pazzi muti e i mendicanti sognatori, i maestri e i loro discepoli, i cantori e i loro alleati, i giusti e i loro nemici, gli ubriachi e i cantastorie, i bambini morti e immortali, sì, tutti i personaggi di tutti i miei libri mi avevano seguito per fare atto di presenza e testimoniare al mio posto, attraverso di me!». In un ritmo incalzante, si intrecciano le memorie della diaspora, la tragedia della Shoah, i combattimenti per Gerusalemme. Sullo sfondo la grande tradizione spirituale ebraica e una Gerusalemme crepuscolare, il cui tramonto «brusco, selvaggio, stringe il cuore per poi calmarlo».

Un Papa e il suo predecessore – Bastava soffermarsi sullo sguardo di Benedetto XVI, con il volto sempre più affilato dall’età, quando ascoltava le parole di Francesco. E bastava osservare lo sguardo di Francesco verso il Papa emerito, che al termine della cerimonia per i suoi 65 anni di sacerdozio ha pronunciato un breve ringraziamento a braccio che si percepiva sgorgargli dal cuore. Le parole pronunciate da entrambi hanno detto molto di più di tante elucubrazioni fanta-teologiche sul ministero petrino «condiviso», di tante arrampicate sugli specchi canonistiche sul «munus» del Vescovo di Roma distinguibile dal suo «esercizio» concreto, di tante teorie complottiste su Benedetto «costretto» a rinunciare e dunque in realtà ancora Papa, che ancora appassionano gruppuscoli pseudo-ratzingeriani sempre più sedevacantisti e i loro corifei. «Lei, Santità – ha detto Francesco a Ratzinger – continua a servire la Chiesa, non smette di contribuire veramente con vigore e sapienza alla sua crescita; e lo fa da quel piccolo monastero Mater Ecclesiae… dal quale promana una tranquillità, una pace, una forza, una fiducia, una maturità, una fede, una dedizione e una fedeltà che mi fanno tanto bene e danno tanta forza a me ed a tutta la Chiesa». Quando è stato il suo turno, per un ringraziamento finale, il Papa emerito non ha tirato fuori dalla tasca un foglio con un pensiero scritto, ma ha parlato a braccio, con voce flebile e bassa, ma con la lucidità di sempre. Ha ricordato la parola in greco, “Eucharistomen”, che 65 ani fa un suo compagno di ordinazione volle stampare sull’immaginetta: grazie! Quindi ha ringraziato in modo particolare Francesco: «Grazie soprattutto a lei, Santo Padre! La sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente. Più che nei Giardini Vaticani, con la loro bellezza, la sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto. Grazie anche della parola di ringraziamento, di tutto. E speriamo che lei potrà andare avanti con noi tutti su questa via della Misericordia Divina, mostrando la strada di Gesù, verso Gesù, verso Dio». Ascoltandoli entrambi, poi, non si poteva non percepire anche la distanza talvolta siderale che esiste tra lo sguardo e l’approccio umile di Ratzinger e quello di tanti sedicenti «ratzingeriani» che ne hanno cementificato l’insegnamento in una visione tutta «Law & Order». Così come una distanza simile esiste tra lo sguardo e l’approccio di Francesco e quello di tanti sedicenti «bergogliani» che ne riducono la testimonianza a slogan e parole d’ordine svuotate di significato e di carne. (A. Tornielli)

Sull’aereo di ritorno dall’Armenia

>>>   “C’è un solo Papa. L’altro, Benedetto XVI, è un Papa emerito, una figura che prima non c’era e a cui lui, con coraggio, preghiera, scienza, e anche teologia, ha aperto la strada”. Così papa Francesco ha risposto ai cronisti sulle dichiarazioni di mons. Georg Gaenswein (=il segretario di Benedetto, fatto arcivescovo per meriti di cameriere – n.d.r.) sul ministero petrino che ora sarebbe condiviso tra due Papi, uno attivo e uno contemplativo. “Non ho letto le dichiarazioni, non ho avuto tempo per vedere queste cose: ma ho sentito , ma non so se è vero, però si addice bene con il suo carattere, che alcuni sono andati lì a lamentarsi, ‘ma questo Papa…’, e lui li ha cacciati via, col migliore stile bavarese, educato, ma li ha cacciati via. Quest’uomo è così, è uomo di parola, è uomo retto, retto, retto, è il Papa emerito”.
>>>   “Io credo che la Chiesa non solo deve chiedere scusa ai gay, ma deve chiedere perdono anche ai poveri, alle donne stuprate, ai bambini sfruttati nel lavoro, deve chiedere scusa di aver benedetto tante armi. I cristiani devono chiedere perdono per aver accompagnato tante scelte sbagliate”.
>>>   “Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non erano sbagliate. Era un riformatore. Forse i metodi erano sbagliati. Ma la Chiesa non era modello da imitare: c’erano corruzione, mondanità, lotte di potere. Lui ha contestato. E ha fatto un passo avanti per criticarla. Poi si è trovato che non era più solo. Calvino e i principi tedeschi volevano lo scisma.
>>>   “Gli armeni? Non conosco altra parola di genocidio. Io ho sempre parlato di tre genocidi nel secolo scorso: il primo quello armeno, il secondo quello di Hitler e l’ultimo quello di Stalin. Io mi domandavo perché ci sono alcuni che sentono questo non è un vero genocidio. Un legale mi ha spiegato una cosa che mi ha interessato molto: che ‘genocidio’ è una parola tecnica, c’è della tecnicità, non è sinonimo di sterminio. Si può dire sterminio, ma il genocidio comporta che ci siano delle azioni di riparazione”. 

La memoria è la promessa della pace

«L’umanità non dimentichi e sappia vincere con il bene il male», affinché non capitino più «tragedie come questa». Papa Francesco lo scrive qui sulla «collina delle rondini» dove il tempo sembra essersi fermato. Il mausoleo, il Muro della Memoria e la stele dell’«Armenia rinata» dicono tutto lo struggimento di un popolo che ha patito una tragedia, «un genocidio», come ha affermato ieri Papa Francesco di fronte alle autorità del Paese, un milione e mezzo di persone sterminate dai turchi. Uno sterminio a lungo dimenticato e ancora oggi negato, motivo di continue tensioni con la Turchia, che continua a negare quanto accaduto all’inizio della Prima Guerra mondiale. Qui, nel Tzitzernakaberd Memorial, nel mausoleo circolare formato da dodici lastre inclinate di basalto, dal numero di province vittime della violenza, arde a cielo aperto la «Fiamma Eterna», in memoria di chi ha perso la vita. Una memoria che ancora fatica ad essere riconosciuta.


La presidente della Camera scrive al leader del Partito Laburista
 Caro Jeremy,
 la Camera dei deputati italiana è profondamente scossa dalla notizia dell’atroce assassinio dell’On. Jo Cox, una donna straordinaria impegnata a fondo nella lotta all’ingiustizia. I parlamentari di tutta Europa hanno perso una collega che si batteva con passione e senza tregua per la pace e i diritti umani, nonché per la causa dei rifugiati e dei migranti.
 Sono vicina con i miei pensieri ai familiari di Jo Cox. Ed esprimo il mio sostegno all’appello di Brendan Cox a combattere uniti l’odio che l’ha uccisa. Jo Cox ha lottato tutta la vita per una società aperta, in un periodo in cui l’odio si diffonde, anche attraverso la rete. La sua morte ci mostra come alle minacce e ai discorsi di odio nella sfera pubblica e sui social media possano talvolta seguire azioni criminali.
 L’atto efferato del suo assassino ha voluto spegnere la voce forte di Jo Cox proprio durante uno degli incontri periodici nel suo collegio. Chi lo ha fatto dunque mirava anche a scardinare principi fondamentali della democrazia, quali la volontà di dar voce ai cittadini ed il confronto con essi, nonché il dibattito libero e aperto sulle questioni decisive del nostro tempo.  I partiti di tutti gli orientamenti debbono essere compatti nel condannare quello che può essere definito come un atto di terrorismo.
Caro Jeremy, ti prego di accettare le mie condoglianze e quelle dell’intera Camera dei deputati. Laura Boldrini
L’intera camera dei deputati? anche i leghisti alla Salvini? al quale – all’ennesimo insulto – la Presidente ha risposto inviandogli questa lettera. Perla ai porci, direbbe il vangelo.


preghiera contro i femminicidi

condividendo l’iniziativa della Comunità contro i femminicidi, vorrei segnalare questo brano estratto da un articolo di M. Serra –
Che la donna appartenga a se stessa (“io sono mia”), che la sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni del patriarcato e del controllo maschile. Perché non se ne sente più l’eco, di quello slogan così breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per scontato (non essendolo!); forse perché nessun “principio” assoluto riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più per sfinimento che per cinismo. Eppure, volendo ridurre all’osso la questione del femminicidio, è proprio l’ignoranza o il rifiuto maschile di quel principio – io sono mia – il più evidente, perfino il più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che cancello la tua vita. Certo, la stratificazione psichica è profonda, cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma il “via libera” all’aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al delitto scatta anche perché nessuna esitazione “ideologica” interviene a soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è occorsa, a proposito di maschi e di femmine. 

 libri

Nando Pagnoncelli, Dare i numeri, Ed Dehoniane — Gli italiani stimano che gli stranieri siano fra il 26% e il 30% là dove l’Istat ci dice che sono l’8%. Quanti sono i musulmani? Il 2% secondo l’Istat e il 4% stando alla Caritas, mentre le risposte ricevute parlano del 20%. E si potrebbe continuare su questioni come disoccupazione e terza età”. La via breve e facilona che porta alla deriva populista è percorsa dallo squilibrio fra la percezione della realtà, quella che l’opinione pubblica si costruisce in una sorta di fai-da-te, e i fatti veri e propri. La discussione pubblica italiana rischia di partire da una somma di percezioni clamorosamente sbagliate. Una distanza rispetto alla realtà che può fare comodo alla politica per cavalcare gli allarmi sociali ai fini del consenso. E ai media per aumentare l’audience. Un’indagine condotta in 33 Paesi su un campione di oltre 25 mila individui consente di misurare le percezioni dei cittadini su aspetti sociali, demografici ed economici. Le discrepanze tra percezione e realtà consentono di creare un «indice di ignoranza» che classifica i Paesi dal meno al più informato. E l’Italia, in questa categoria di ignoranza, sta ai primi posti. Nella Rete, se hai una tua autonomia concettuale, un pensiero critico, vieni buttato fuori con insulti annessi; e i fatti negativi superano alla grande quelli positivi, per cui internet rischia di diventare la discarica del livore e della rabbia, priva dell’opportunità del confronto. Confronto che solo si ha approfondendo gli argomenti, confrontando le fonti informative e rinunciando ai propri pregiudizi.

in morte del cardinal Loris Capovilla
«Papa Francesco, ultimamente, ci ha detto che la speranza dell’umanità è rappresentata dai giovani. Ha tuttavia aggiunto che la speranza dei giovani sono i vecchi, perché sono loro, tramandando la memoria della vita e della fede, ad aprire una strada verso il futuro. Una memoria di questo tipo ci è stata appunto consegnata dal cardinale Loris Francesco Capovilla che ha saputo custodire con saggezza l’eredità di quel santo vegliardo e padre che fu Giovanni XXIII, senza trattenerla presso di sé, ma comunicandola ad altri». 
vescovo Francesco Beschi 

cinema – LE CONFESSIONI – Un monaco a un summit tra i ministri dell’economia del G8 e il direttore del Fondo Monetario Internazionale, ci sta come un pesce fuor d’acqua. O come un sasso nello stagno. Ma, in un caso come nell’altro, da bravo monaco, non se ne cura troppo, limitandosi a reagire come sa e come deve alla situazione che si trova di fronte: e proprio per questo risultando dirompente. Ma il virus che questo film innesta non è quello banale e violento di una protesta militante, ma quello ben più sottile e detonante di qualcuno la cui prospettiva etica è radicalmente differente da quella della cultura dominante. “L’ortodossia mi è del tutto indifferente,” dice il monaco Salus “io sto dalla parte della pietà.” E così mette a nudo la  sostanziale scarsa intelligenza e l’erotizzazione implicita nel potere, non solo finanziario. Un film, adatto a chi non si adatta a un mondo che spinge sulle spalle dei poveri per mantenersi in una ricchezza che ha i caratteri di una mafia senza spargimento di sangue, ma di disperazione sì. 


libri
AA. VV. , MARTINI E NOI, ed Piemme – ritratti inediti di un grande protagonista del Novecento cattolico. Uno straordinario caleidoscopio di oltre cento ricordi di chi ha avvicinato, conosciuto e ascoltato uno degli uomini di fede più grandi che la Chiesa ha avuto come dono. Firme autorevoli del mondo della cultura, della società civile e della Chiesa – tra cui Bianchi, Cacciari, Colombo, De Bortoli, Giorello, Lerner, Ravasi, Sorge – di diverse sponde, che lo hanno conosciuto più o meno da vicino, schizzano il ritratto di chi è stato di volta in volta l’obbediente figlio della Chiesa con lo sguardo rivolto al mondo. Un volume che si consiglia di mettere nella valigia dei cento giorni estivi, per raccontarsi ogni giorno un incontro che diventi una scoperta in più del cardinale di Milano,gesuita come papa Bergoglio: con altri tratti ma con la stessa sensibilità ignaziana, che è sinonimo di umana.

C. ALBINI, SOPPORTARE PAZIENTEMENTE LE PERSONE MOLESTE, ed Emi – Una collana di volumetti  per ciascuna delle opere di misericordia spirituale e corporale aiuta a rimettere al centro le opere sulle quali il Vangelo di Matteo ci ricorda saremo giudicati. La sesta opera spirituale introduce nella compagnia della persona molesta: che per etimologia è una persona “pesante”. Ce ne sono molte, vicine e non vicine. Come avere una pazienza fattiva, con persone scomode, perché dannose, o provocatrici, o detestabili? E’ possibile amare i molesti? Tutta la collana, di autori diversi per ciascun argomento, è interessante: ma è stimolante partire da questo volumetto, dati i tempi!


stare a Lesbo per ascoltare persone non numeri

La visita papale nell’isola greca che ha accolto tantissimi profughi è dunque un segno, semplice e fortissimo. Come è inequivocabile l’accoglienza di dodici profughi siriani che Francesco ha portato a Roma tornando da questo viaggio, diverso dagli altri. Diverso perché segnato dalla tristezza per la peggiore catastrofe umana dopo la seconda guerra mondiale. Poche ore divenute un simbolo: papa Francesco, che vuole contribuire dovunque a costruire ponti e ad abbattere muri, è andato per stare con uomini, donne e bambini che cercano solo pace e libertà, parole scandite in inglese durante la visita nel campo profughi di Moria. I viaggi di Francesco, che rappresentano l’ampio punto di vista di una istituzione mondiale e millenaria, invitano ad ampliare lo sguardo, a guardare al problema con misericordia, certo, ma anche con maggiore responsabilità e coraggio. Risolverlo non è compito delle Chiese, ma porlo all’attenzione di tutti sì. Questa è misericordia. Ed è questo che uomini di partito da noi non capiscono proprio, pur dicendosi, ahimé, cristiani!

 

 le parole di Jeronimus, Bartolomeo, Francesco e Tsipras:
“È un’aberrazione inaccettabile la svalutazione della persona umana. Coloro che hanno paura di voi non vi hanno guardato negli occhi. II mondo sarà giudicato da come avrà trattato queste persone che soffrono, persone che sono dovute fuggire dalla propria terra, persone a cui è stato sottratto il rispetto, persone che sono volti, nomi, storie, e come tali vanno trattate. Ma il Misericordioso vi dia forza perché non perdiate la speranza, trovando ad accogliervi tanti misericordiosi. Ma l’Europa cristiana che alza muri, impedendo il passaggio di persone deboli?”.


TRA I PROFUGHI, ALLA FACCIA DI CHI ERIGE NUOVI MURI

Il Papa ha accolto l’invito a recarsi nell’isola rivoltogli daL patriarca Bartolomeo e dal presidente greco, Prokop?s Paulopoulos. Il Papa e i due leader ortodossi si recheranno in un campo profughi e successivamente pregheranno insieme al porto dell’isola, davanti al mare dove in tanti hanno perso la vita. Il viaggio durerà un giorno solo e «rappresenta un forte richiamo alla responsabilità e alla solidarietà su un’emergenza tanto drammatica» ha detto padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, presentando il comunicato ai giornalisti. «L’Europa si è purtroppo chiusa a riccio. Il viaggio di Francesco e Bartolomeo avrà un alto valore simbolico nell’Anno della Misericordia. Si aggiungerà ai viaggi della misericordia già compiuti finora, da Lampedusa alla tappa al Cara di Castelnuovo di Porto» ha commentato il direttore della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, Giancarlo Perego. La visita del Papa arriva in un momento critico. Come rende noto oggi l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), oltre 22.000 bambini migranti e rifugiati sono rimasti bloccati in Grecia e devono far fronte a un futuro incerto, segnato anche da violenze e sfruttamento. Sono nel complesso circa tremila i profughi bloccati sull’isola di Lesbo. La loro unica speranza è quella di poter presentare i documenti necessari a chiedere l’asilo. Tuttavia, nella maggioranza dei casi — come testimoniano le organizzazioni umanitarie — questo è loro impedito per la mancanza di documenti o di tempo. 

AL CINEMA

Race, il colore della vittoria– Olimpiadi di Berlino 1936. Jesse Owens è il primo atleta di colore a vincere quattro medaglie d’oro nell’atletica, davanti agli occhi esterrefatti di Adolf Hitler. Race – Il colore della vittoria racconta una delle pagine sportive e olimpiche più importanti, capaci di riscrivere la storia dell’atletica, ma non solo. Contestualizza al meglio il clima teso che si respirava sia in America che in Europa. Il film, infatti, gioca su un doppio fronte: da una parte quello prevalentemente sportivo, fatto di sacrifici, allenamenti, sconfitte e record mondiali, mentre dall’altro prevale quello storico, alla vigilia della seconda guerra mondiale, con i primi scontri già all’interno del Comitato Olimpico dettati dalla volontà di Hitler di esaltare la supremazia della razza ariana. Lotta al razzismo, nazista e americano, in una corsa per l’uguaglianza difficile da vincere, ma non impossibile.  riesce ugualmente a mettere in pista il ritratto di una figura leggendaria che ha sfidato un regime e dimostrato al mondo intero che nello sport, come nella vita, siamo tutti esseri umani, senza distinzione di razza o di colore. Il resto della storia purtroppo è noto, il presidente degli Stati Uniti of america si rifiuterà di ricevere il campione. Un film che diverte, ma anche avverte: s’annida da ogni parte il serpe della disuguaglianza.

Come Saltano I Pesci è una commedia, con risvolti drammatici, comici, riflessivi. È un film con una metafora molto intelligente già nel titolo, anche se sembra poco invitante: ognuno sceglie che strada prendere, se seguire la corrente, andare contro senso o se saltare, proprio come i pesci. Ed è così che fanno i protagonisti del film. Matteo è il classico bravo ragazzo, con una famiglia amorevole, un sogno nel cassetto e l’affetto degli amici e parenti. Lui segue le onde, fa ciò che si deve fare, fino a quando non scopre un terribile segreto, nascostogli da sempre. Proprio in questo momento Matteo deciderà di saltare fuori dall’acqua per scoprire se stesso, per scoprire la verità. E in questo balzo, incontrerà Luca e Angela, due disadattati, due pesci controcorrente, due persone che non potrebbero essere più diverse da lui, ma in cui riporrà fiducia e presso le quali troverà l’amore. 


M. D’Agostino, GIANLUCA FIRETTI, SANTO DELLA PORTA ACCANTO – ed Sanpaolo

 Gianluca Firetti, perito agrario, calciatore, nel dicembre 2013, a 18 anni, si ammala di tumore. Tutto, nella la sua vita, cambia: il rapporto con Dio, con la famiglia e con gli altri. Accetta la sua situazione e racconta, in queste pagine, la sua profonda esperienza di cristiano, mostrando come, nella lotta, si diventi pienamente uomini. Viene a mancare il 30 gennaio 2015. A distanza di un anno dalla sua scomparsa, Gianluca Firetti, Santo della porta accanto, racconta di come Gian sia entrato nelle vite di tante persone, soprattutto dei più giovani, delle mamme e dei papà e – come infinite e-mail testimoniano – delle meraviglie che il suo esempio genera nei cuori. Gian non è morto disperato, ma affidato. 

Un buon regalo, anche posticipato, nella festa di San Giuseppe, il papà adottivo di Gesù, e nella festa dei papà.

Manuel Vázquez Montalbán, Storie di padri e figli,  Feltrinelli ed: un libro uscito in Italia nel 2001 dal grande giallista spagnolo, che parte dalla convinzione che nessuno può sfuggire a questa relazione. Siamo tutti figli di qualcuno, nonostante ci sia chi a sua volta si rifiuta di essere padre. Pertanto, il titolo di queste tre storie, riguarda ogni potenziale lettore. Ogni racconto, per breve o lungo che sia, è pieno di padri e figli o di figli e padri. Ma credo, e da questo nasce il titolo generico del volume, che le storie che qui si raccontano si basino soprattutto sulle caratteristiche, normali o subnormali, che talvolta presentano le relazioni tra padri e figli. Il padre padrone e patriarca che cerca di guidare il destino del figlio; o quando è il figlio a proteggere il padre.

Felicità, la classifica mondiale dell’Onu: l’Italia è 50esima? Mah!

Capacità di ridere e generosità tra i criteri. Peggio di noi la Grecia, meglio l’Uzbekistan, il Nicaragua, la Malesia. Il podio è per Danimarca, Svizzera e Islanda. Seguono Norvegia, Finlandia e Canada.
Dunque, non ci sentiamo felici. E se non ci sentiamo felici, c’è poco da fare, non lo siamo. La felicità è una percezione soggettiva e soprattutto non sopporta la coniugazione imperativa: sii felice! Del resto, come insegna il filosofo Salvatore Natoli (citato da Paolo Di Stefano) esistono due tipi di felicità: lo stato di grazia e il bene stabile, ma è nella seconda accezione la felicità vera e più profonda. Natoli segnala alcuni limiti dell’inchiesta: «Gli indicatori — dice — sono insufficienti. Per esempio, non vedo l’altruismo, che è ben diverso dalla generosità: felicità comporta una reciprocità che custodisce». Difficile, in Italia, abbandonarsi all’altro. La dimensione fiduciaria e collaborativa non fa per noi. Si può imparare a essere felici? Purché non sia un eterno desiderio insoddisfatto: «Tutta la natura è desiderante, cioè spinge oltre in un’idea di espansione. Il fatto è che dovremmo essere consapevoli che siamo potenze finite, mentre spesso sotto le ali del desiderio ci illudiamo di essere infiniti: un autoinganno infelicitante». Dunque? «Bisogna trovare la propria felicità nel buon uso delle occasioni, in sintonia con ciò che offre il mondo». Si può imparare a essere felici? «Se sai cogliere una possibilità di pienezza nelle pieghe degli accadimenti».Corriere della sera, 17 marzo c. a. 


Fuocoammare,
un film per chi ha l’occhio pigro

Il film racconta Lampedusa attraverso la storia di Samuele, un ragazzino che va a scuola, ama tirare sassi con la fionda che si è costruito e andare a caccia di uccelli. Preferisce giocare sulla terraferma anche se tutto, attorno a lui, parla di mare e di quelle migliaia di donne, uomini e bambini che quel mare, negli ultimi vent’anni, hanno cercato di attraversarlo alla ricerca di una vita degna di questo nome trovandovi spesso, troppo spesso, la morte. Con lui e con la sua famiglia entriamo nella quotidianità delle vite di chi abita un luogo che è, per comoda definizione, costantemente in emergenza. Grazie a lui e al suo ‘occhio pigro’, che ha bisogno di rieducazione per prendere a vedere sfruttando tutte le sue potenzialità, ci viene ricordato di quante poche diottrie sia dotato lo sguardo di un’Europa incapace di rivolgersi al fenomeno della migrazione. Samuele non incontra mai i migranti. A farlo è invece il dottor Bartolo, unico medico di Lampedusa costretto dalla propria professione a constatare i decessi ma capace di non trasformare tutto ciò, da decine d’anni, in una macabra routine, conservando intatto il senso di un’incancellabile partecipazione. Un film da vedere, per affrontare i pregiudizi che possono annidarsi anche nei migliori tra noi.

Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe
cronache di una società liquida, ed  La nave di Teseo
In questo libro uscito postumo, che è raccolta di pagine giornalistiche scelte e presentate dall’autore, troviamo le risonanze che la quotidianità metteva nella mente e nella penna di uno dei più grandi contemporanei italiani. Scritti con il piglio divertito, irriverente e nello stesso tempo acuto che conosciamo. Non che tutto sia condivisibile di quanto scrivono o dicono i grandi: noi cristiani dovremmo continuamente vaccinarci dalla voglia di guru, perché uno solo è il nostro Maestro. Ma certo è una voce da ascoltare: una coscienza civile offertaci dopo decenni da quella di P. P. Pasolini.

In Quaresima noi sacerdoti abiteremo una tenda allestita sul sagrato della Chiesa di Ambivere. Un po’ di cibo. Acqua da bere. Un bagno per lavarci. Un materasso per dormire. E’ più di quanto molti esseri umani possono permettersi. Naturalmente non sarà facile. Abituati ad avere più del necessario, il semplice necessario sembrerà insufficiente.    Questa decisione nasce dalla presa di coscienza che il prezzo del nostro benessere è la riduzione in miseria di altri esseri umani. E’ facilmente dimostrabile: se dovessimo garantire a tutti gli uomini il tenore di vita europeo o americano avremmo bisogno di cinque pianeti. Ma siccome ne abbiamo soltanto uno, noi occidentali ci siamo presi da un secolo a questa parte il diritto di mettere le mani sulle risorse naturali dell’altra parte del mondo e di saccheggiarle a piacimento. Per evitare intralci abbiamo poi lavorato assiduamente per impedire che in quei paesi crescessero democrazia, autonomia economica e diritti umani. Ecco perché i paesi poveri continuano a restare poveri. Se Europa e Stati Uniti dovessero pagare equamente le risorse prelevate dal terzo mondo, i prezzi in casa nostra crescerebbero e dovremmo rinunciare a buona parte delle nostre abitudini consumistiche. Il costo della vita qui da noi è alto ma costerebbe ancora di più se i paesi poveri potessero mettere al centro della loro economia i loro bisogni invece che i nostri. Per questa ragione nessuno in occidente sembra prendere sul serio una prospettiva del genere.    Ecco dunque la nostra decisione: staremo in una tenda per dire che non siamo disposti ad accettare un sistema che procura benessere a noi provocando sofferenza a qualcun altro. Si tratta di un segno temporaneo, fino a Pasqua. Poi si vedrà. In ogni caso bisognerà mettere a punto stili di vita coerenti con questa intuizione. Intanto con questo gesto vogliamo dire che riconosciamo le nostre responsabilità di fronte alla povertà del mondo. E che si può essere felici anche con meno.   Noi sacerdoti non possiamo rovesciare le sorti dei poveri. Però possiamo stare dalla loro parte. Possiamo protestare e progettare azioni concrete nonviolente a favore della Verità e della Giustizia. Cominceremo a stare in una  tenda perché se migliaia di esseri umani possono essere abbandonati per anni nella nostra Europa in tendopoli improvvisate, fangose, senza servizi  (andate a Calais in Francia per vedere e credere) perchè mai noi, che siamo esseri umani come loro, dovremmo abitare in una casa? Noi pensiamo di non essere più umani dei poveri perché ci debba essere concesso qualcosa di più…sapendo oltretutto che loro hanno di meno anche per colpa nostra. Se loro non hanno diritto a una casa allora questo diritto non l’abbiamo neppure noi. Non ci sembra un grande affare perdere l’umanità comune che ci lega ai poveri per godere del privilegio della cittadinanza. Essere cittadini è un onore. Ma se deve venire prima della nostra comune umanità allora vi rinunciamo volentieri. Nella tenda sarete i benvenuti.

una svolta dopo mille anni: e l’incontro sarà in terra neutrale, come richiesto dal patriarcato di Mosca
Papa Francesco e il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia si incontreranno il prossimo 12 febbraio a Cuba, dove il Pontefice farà scalo prima del suo viaggio in Messico e dove il Patriarca sarà in visita ufficiale. Lo annunciano con “gioia” in un comunicato congiunto la Santa Sede e il Patriarcato di Mosca. E’ un incontro che avviene “per grazia di Dio” – afferma il comunicato congiunto – e che “comprenderà un colloquio personale presso l’aeroporto internazionale José Martí dell’Avana e si concluderà con la firma di una dichiarazione comune”. “Questo incontro dei Primati della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa russa, preparato da lungo tempo, sarà il primo nella storia e segnerà una tappa importante nelle relazioni tra le due Chiese. La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca auspicano che sia anche un segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà. Invitano tutti i cristiani a pregare con fervore affinché Dio benedica questo incontro, che possa produrre buoni frutti”.

l’ecumenismo: «Tutti i credenti avevano un cuor solo e un’anima sola»
«Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!» (Sal 132, 1), perché quando vivono insieme, fraternamente, si riuniscono nell’assemblea della Chiesa, si sentono concordi nella carità e in un solo volere. Leggiamo che agli albori della predicazione apostolica questo grande precetto era molto sentito e praticato. Si dice infatti: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola» (At 4, 32). In realtà ben si conviene al popolo di Dio sentirsi fratelli sotto un unico Padre, sentirsi una cosa sola in un medesimo Spirito, vivere concordi nella stessa casa ed essere membra vive di uno stesso corpo. […]. 
Dai «Trattati sui salmi» di sant’Ilario di Poitiers, vescovo 

le belle notizie: un modo per non dimenticare le tragedie che quotidianamente si consumano nel Mediterraneo

Un modo per non dimenticare i tanti bambini, vittime innocenti del desiderio di arrivare in Europa nella speranza di una vita migliore. I giocatori dell’Ael Larissa e dell’Acharnaikos, squadre della seconda divisione greca, hanno voluto ricordarli a modo loro. Così, subito dopo il fischio d’inizio dell’arbitro, si sono seduti per due minuti sul campo mentre il pubblico osservava in silenzio. La partita si è poi giocata regolarmente e l’Ael ha vinto 2-0. Un dettaglio assolutamente marginale. “Abbiamo voluto ricordare i tanti bambini che ogni giorno muoiono a causa del comportamento scellerato delle istituzioni europee” hanno spiegato in un comunicato le due squadre. 

 … e le cattive: se alla vostra porta bussa una con questa faccia d’angelo, non apritele


L’indignazione ha raggiunto livelli elevati per ciò che ha sostenuto. In un’intervista per radio, la leader del partito anti-immigrati Alternative für Deutschland (AfD) aveva detto che le guardie di confine «devono prevenire l’attraversamento illegale delle frontiere e se necessario anche usare armi da fuoco». Questa la sua idea per prevenire» che gli illegali e i non aventi diritto di asilo entrino in Germania. In Europa, la sua proposta non manca di sostenitori: ritengono che la minaccia delle armi sarebbe un disincentivo a entrare nel continente. Guardatevi da vicino e dite se non ci sono “nemici” così che già bussano alle porte delle nostre case.

a 500 anni dalla riforma di Lutero e Calvino

Un gesto epocale a mezzo millennio dallo scisma di Martin Lutero: Papa Francesco parteciperà a una cerimonia congiunta fra la Chiesa Cattolica e la Federazione luterana mondiale per commemorare il 500° anniversario della Riforma. In un comunicato congiunto, si spiega che la «commemorazione ecumenica» si svolgerà il 31 ottobre a Lund, in Svezia e sarà presieduta dal papa assieme al vescovo Munib A. Younan presidente della Federazione luterana mondiale.


Al cinema e in libreria

Ogni anno, per non dimenticare, sennò si finisce per ripetere. E non si dimentica se… Un doc-romanzo che serve agli adulti per capire il senso di un viaggio: C. Greppi, Non restare indietro, ed Feltrinelli.   >>>   Saul Ausländer è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau. Reclutato come sonderkommando, è costretto ad assistere allo sterminio della sua gente che ‘accompagna’ nell’ultimo viaggio. Il figlio di Saul  è un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita ma vuole vincere quella con la morte, ricomponendola con l’assistenza di un rabbino. In questi giorni  nelle sale, un film da non perdere.

Giugno 1967, Muro Occidentale di Gerusalemme. All’indomani della Guerra dei Sei giorni, Wiesel vede sfilare migliaia di uomini e donne, «in uno strano raccoglimento». E confusi tra quei volti prendono vita i personaggi di questo romanzo, composto di getto in quell’anno, come un impetuoso flusso di coscienza nel quale si mescolano la realtà e la finzione, la memoria e il desiderio. «I pazzi muti e i mendicanti sognatori, i maestri e i loro discepoli, i cantori e i loro alleati, i giusti e i loro nemici, gli ubriachi e i cantastorie, i bambini morti e immortali, sì, tutti i personaggi di tutti i miei libri mi avevano seguito per fare atto di presenza e testimoniare al mio posto, attraverso di me!». In un ritmo incalzante, si intrecciano le memorie della diaspora, la tragedia della Shoah, i combattimenti per Gerusalemme. Sullo sfondo la grande tradizione spirituale ebraica e una Gerusalemme crepuscolare, il cui tramonto «brusco, selvaggio, stringe il cuore per poi calmarlo». (E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, edizioni Terra Santa)

Il romanzo insegna la vita, ce lo hanno detto, e lo sperimentiamo. Questo romanzo insegna che la vita è sempre più in là di quello che si percepisce di essa. Qui la storia di una terra, Ostuni: raccontata con stile scorrevole, ricco delle radici dell’autore, che pure rilegge ormai da lontano. Bellezza straziante di un distacco dovuto perché desiderato, in quel perpetuo ripetersi dello sguardo sulla crescita di un uomo. Una vita che è un viaggio, di andata (di fuga?) e di ritorno: un’infanzia che si ripete in ogni adulto che conservi memoria di ciò che è. Una favola per adulti, una storia straordinaria che si dipana leggera e suadente. Una buona lettura, per il tempo natalizio con il suo silenzio così diverso. (Angelo Roma, Ancora più vita, ed Mondadori).

Dove va la storia? Dilemmi e speranze – Stanchezza e scetticismo sembrano caratterizzare questa nostra epoca. Da alcuni è considerato ingenuo il tentativo di rintracciare in essa dei segni di speranza. Questo è un libro a forma di intervista di Giulio Brotti, docente e pubblicista, a Rémi Brague: le riflessioni filosofiche si intrecciano a questioni di drammatica attualità, quali la convivenza delle religioni, la possibilità di un dialogo con l’Islam, la violenza fondamentalista, il futuro dell’Europa, la sorte delle biotecnologie nella storia dell’uomo che sarà. La storia che ha di fronte il grande dilemma: che farne dell’uomo? dell’uomo così come è e non come lo si vorrebbe fabbricare in un ideale di perfezione che non gli appartiene.(R. Brague, Dove va la storia?, ed La Scuola).

Bundesliga, lanciano pane al calciatore: lui lo raccoglie e lo bacia – Dagli spalti gli lanciano del pane: lui lo bacia e lo porta alla fronte in segno di rispetto per quell’alimento che andrà sprecato. Al probabile gesto razzista – come lo hanno definito diversi media internazionali – Hakan Çalhanoglu, nato a Mannheim, Germania,  ha risposto con un gesto di rispetto verso il cibo. Il calciatore turco di fede musulmana, che gioca nel Bayer Leverkusen, ha raccolto i pezzi di pane che gli sono stati tirati durante il match di Bundesliga nella BayArena contro lo Schalke 04 e ha sorpreso tanti con la sua reazione. Un gesto, il suo, che accomuna diverse religioni e che ha a che fare con la gratitudine, la consapevolezza che molte persone non hanno accesso al cibo e l’essere cosciente che quel pane verrà buttato. In questo caso, per una questione di inciviltà.

Giubileo – Prepariamoci non solo qui con i pannelli che saranno esposti nella chiesetta, ma con buoni libri. Il testo di Marco RoncalliIl tempo della misericordia. dalle origini a papa Francesco, San Paolo editrice. Diciassette capitoli per raccontare storia, pellegrini, motivazioni, incidenti, segni di riconoscimento, divertimenti: oltre ai grandi santi che si sono fatti pellegrini giubilari, come Brigida di Svazia, Francesca Romana, Bernardino da Siena, Rita da Cascia, Ignazio di Lojola, Filippo Neri e molti altri, che si misero sulle strade per Roma, Gerusalemme Compostela.

Di altro taglio il libro di Alberto Melloni Il Giubileo, una storia, Laterza editrice: da strumento economico-politico di una certa monarchia papale, con una tradizione da risvolti ambigui, all’indizione di papa Francesco, che lo ha promosso con parole inedite e con la volontà esplicita di “nobilitare” il popolo di Dio, soprattutto dopo un Sinodo che non si è misurato con morali vecchie e nuove, ma con il Vangelo.

E’ la storia di Jonas, un tredicenne che ha come sogno di diventare un campione di macchine volanti a energia solare. Annunciato così nell’ultima di copertina può scoraggiare chi si picca di essere un po’ troppo adulto per simili favole. Poi, in una pausa della vita che lo costringe a letto senza voglie di letture impegnate, si trova a volerlo leggere fino alla fine. Per accorgersi che di favole così ha bisogno nella sua età adulta. Per questo il romanzo di Francesca Caldiani (Jonas Grinn, ed Watson, pagg 433) lo si consiglia agli adulti: o, in lettura mediata, a genitori e figli insieme. Per poter continuare ad alimentare in sé la speranza di cui si vuole nutrire il cuore dei ragazzi.

Maria Altmann, una ottuagenaria ebrea, ottiene dall’Austria, dopo una lunga battaglia legale, la restituzione del dipinto Woman in Gold di Gustav Klimt, incamerato dai nazisti: un dipinto che è l’immagine incancellabile di Adele, la zia bellissima e conturbante, che tradiva nello sguardo malinconico il timore per un futuro minaccioso. È la trama di un film che narra la memoria dolorosa della giovinezza spezzata dalla guerra, l’affetto verso i genitori abbandonati per fuggire in America, e l’indifferenza, ancora negli anni recenti, di un riconoscimento delle ragioni di chi fu preda della violenza nazista. Avvincenti le interpretazioni degli attori in una sceneggiatura coinvolgente.  

Ci sono saggi che aiutano a comprendere il senso di un cammino compiuto in segreto, per proteggere i protagonisti da timori o condizionamenti. E soprattutto ci sono le voci delle vittime e dei carnefici, che più di ogni ragionamento danno conto del «miracolo». «Perdonare non significa dimenticare il passato, si ricorda tutto, ma in modo diverso». Un libro che ricorda gli anni del terrorismo, con una scrittura altra rispetto alle cronache sconvolgenti e risentite del tempo. AA.VV. Il libro dell’incontro, ed Il Saggiatore, pagg 466.

San Leopoldo Mandic e quel “cattivo esempio di Dio”

Le spoglie del Frate cappuccino sono in San Pietro perché papa Francesco lo ha voluto come testimone – insieme a san Pio da Pietrelcina – del Giubileo straordinario della misericordia. Stefania Falasca su Avvenire gli dedica un ritratto, in cui ricorda alcune sue celebri espressioni, come questa: «Perché dovremmo noi umiliare maggiormente le anime che vengono a prostrarsi ai nostri piedi? Non sono già abbastanza umiliate? Ha forse Gesù umiliato il pubblicano, l’adultera, la Maddalena?»

«Padre, ma lei è troppo buono… ne renderà conto al Signore!… Non teme che Iddio le chieda ragione di eccessiva larghezza?». Ma a chi lo accusava di «lassismo di principi morali», san Leopoldo Mandic ripondeva: «Ci ha dato l’esempio Lui! Non siamo stati noi a morire per le anime, ma ha sparso Lui il Suo sangue divino. Dobbiamo quindi trattare le anime come ci ha insegnato Lui col Suo esempio. Perché dovremmo noi umiliare maggiormente le anime che vengono a prostrarsi ai nostri piedi? Non sono già abbastanza umiliate? Ha forse Gesù umiliato il pubblicano, l’adultera, la Maddalena?». Allargando le braccia aggiungeva: «E se il Signore mi rimproverasse di troppa larghezza potrei dirgli: “Paron benedeto, questo cattivo esempio me l’avete dato voi, morendo sulla croce per le anime, mosso dalla vostra divina carità”». Lo ricorda oggi Stefania Falasca su Avvenire, in un articolo dedicato a questo Frate cappuccino – noto come il Santo confessore – le cui spoglie sono in questi giorni nella basilica di San Pietro, perchè papa Francesco lo ha voluto come testimone – insieme a san Pio da Pietrelcina – del Giubileo straordinario della misericordia.

«È Dio che opera nelle anime. Nel confessionale non dobbiamo rovinare quello che il Signore va operando», raccomandava Leopoldo Mandic, come sottolinea Falasca del Frate canonizzato da san Giovanni Paolo II nel 1983.

Il Pontefice argentino lo ha scelto come modello per i confessori perché «è precisamente un cuore di padre che noi vogliamo incontrare quando andiamo nel confessionale», come ha detto nell’udienza di mercoledì scorso.

Confessarsi da padre Leopoldo «era cosa breve», scrive Falasca, «Non si dilungava mai in parole, spiegazioni, discorsi. Aveva imparato dal Catechismo di san Pio X che la brevità è una delle caratteristiche di una buona confessione. Eppure il suo confessionale è stato per più di quarant’anni una specie di porto di mare per le anime. Tanti erano quelli che andavano, che assiduamente lo frequentavano».

San Leopoldo Mandic «ha passato tutta la sua vita nella sua celletta confessionale, rimasta “a monumento della Sua bontà”, nel convento dei frati Cappuccini a Padova. Confessava dodici, tredici, quindici ore al giorno e assolveva oves et boves, cioè tutti».

In una lettera a un prete, Leopoldo diceva: «Mi perdoni padre, mi perdoni se mi permetto… ma vede, noi, nel confessionale, non dobbiamo fare sfoggio di cultura, non dobbiamo parlare di cose superiori alla capacità delle singole anime, né dobbiamo dilungarci in spiegazioni, altrimenti, con la nostra imprudenza, roviniamo quello che il Signore va in esse operando. È Dio, Dio solo che opera nelle anime! Noi dobbiamo scomparire, limitarci ad aiutare questo divino intervento nelle misteriose vie della loro salvezza e santificazione».

Era criticato perchè nelle penitenze era magnanimo, e a chi gli obiettava di darle facili replicava: «Oh è vero… e bisogna che dopo soddisfi io… ma è sempre meglio il purgatorio che l’inferno. Se chi viene da noi a confessarsi, col dargli poca penitenza deve poi andare in purgatorio, dandogliela grave non c’è pericolo che si disgusti e vada a finire all’inferno?».

Magnanimo nelle penitenze, e magnanimo nell’assoluzione, a tale punto che «quelle rarissime volte che l’ebbe fatto si pentì sempre – rammenta Falasca – Alcuni giorni prima di morire un sacerdote gli chiese: “Padre, c’è stata qualche cosa che vi ha procurato tanto dispiacere?”. Egli rispose: “Oh! Sì… purtroppo sì. Quando ero giovane, nei primi anni di sacerdozio, ho negato tre o quattro volte l’assoluzione”».

La biblista francese Anne-Marie Pelletier, docente di Sacra Scrittura ed ermeneutica biblica allo Studio della facoltà “Notre Dame” del Seminario parigino, non sa perché papa Francesco ha affidato proprio a lei le meditazioni che il 14 aprile scandiranno le stazioni della Via Crucis al Colosseo. “Non ho cercato di indagare…. In ogni caso, è sembrato giusto quest’anno assegnare a una donna laica un compito riservato finora a sacerdoti e religiosi. Questa innovazione fa parte di quei gesti che indicano come le donne comincino a comparire un po’ di più negli sguardi dell’istituzione ecclesiale. Una buona notizia per le donne ma ancor più, ai miei occhi, per la Chiesa. Con una sottolineatura riferita all’attualità e un’altra alla Rivelazione: “Nel nostro presente, un numero sempre maggiore di Paesi scivola verso un autoritarismo molto maschilista; va di moda esaltare la virilità da conquistatore. Invece la Chiesa fa un gesto, mi sembra, che sta andando nella direzione opposta: si ricorda e ricorda che furono le donne a essere le ultime accanto a Gesù nella sua Passione e le prime a ricevere l’annuncio della Risurrezione. Quando ho ricevuto la richiesta di scrivere la Via Crucis, ero molto sorpresa ed emozionata. Ma anzitutto perché si trattava di preparare le meditazioni su un momento decisivo della celebrazione cristiana del mistero pasquale. La morte di Gesù sulla croce rimanda al cuore della fede. Perché affronta il paradosso assoluto: Dio subisce la violenza degli uomini, entrandoci dentro per vincerla con l’amore e il perdono. Una realtà da capogiro! Quindi mi ha toccato il fatto che mi venisse affidata la missione di essere l’interprete della fede della Chiesa durante la Via crucis del Venerdì santo, memoria di un avvenimento che ha cambiato la storia”.

Elevazione Musicale

con Meditazione del Rettore Attilio Bianchi

Martedì Santo 11 APRILE 2017  ore 21

Abbazia s. Egidio

in Fontanella al Monte

nel pellegrinaggio dei parrocchiani di

S. Alessandro in Colonna – Bergamo

 

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Complesso Polifonico e Strumentale

Ghirlanda Musicale:

direttore Marco Maisano,

solisti Zara Dimitrova soprano,

Maria Elena Chiappa contralto,

Michele Mauro tenore,

 Ettore Begnis violino,

Flavio Bombardieri violoncello,

Riccardo Crotti contrabbasso.

Christian Bobin, L’uomo che cammina , Qiqajon, Bose

“Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato. Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine, potremmo fare a meno di quel libro e ricevere notizie di lui ascoltando il canto dei granelli di sabbia, sollevati dai suoi piedi nudi. Nulla si riprende dal suo passaggio e il suo passaggio non conosce fine. Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera.

Bianchi, Da forestiero. Nella compagnia degli uomini, Piemme, Casale Monferrato 1995

“Stranieri e pellegrini” (Prima Lettera di Pietro 2,11): così il Nuovo Testamento definisce i cristiani. Possiamo tranquillamente affermare che questo principio ispiratore dello stare dei cristiani nel mondo e nella storia è stato dimenticato nei secoli della cristianità. Eppure ci sembra che quelle categorie bibliche che sintetizzerei sotto il neologismo di “stranierità” ridiventino essenziali oggi:  la chiesa è se vive la stranierità, è nella misura in cui è in cammino, in ricerca, impegnata nell’esodo.