Nella chiesa d’Inghilterra le barzellette arrivano in ritardo (come in ritardo, agli inglesi, arrivano i pentimenti per non accorgersi – loro, i grandi conquistatori del passato – che la storia li sorpassa. Ma questa è questione di Brexit). Forse arriva in ritardo anche in Argentina? O è stato solo un fair play da parte del papa? Certo mancava una gran risata di Francesco: bei sorrisi, e ampi, ma una risata da scrosciare sulla sedia questa ci mancava. E grazie al Primate anglicano. Uno che dev’essere speciale, se è vero che i padri sono fatti “più” speciali dai figli. Non tutti forse sapete che il Primate ha un figlio romanziere, che ha inventato un pastore detective: alla padre Brown per intenderci (è quel risvolto cattolico mai risolto, a mio parere accompagnato da secoli di senso di colpa per un Enrico che li ha svoltati loro malgrado: però, i sensi di colpa, come si sa, se non affrontati, possono generare ulteriori perdite d’orizzonte; ed è ciò che sta allontanando in questi decenni ancor più la chiesa anglicana da quella cattolica, nella visione gerarchica, e dunque di servizio, non di apparenza, né di potere, che il Vangelo chiede alle sue guide). Certo, non ancora Chesterton, ma si spera che ci arrivi il figlio giallista. Dunque la risata – o meglio le risate perché il Primate ha riso con il papa della propria barzelletta – è scaturita da «Sai qual è la differenza tra un liturgista e un terrorista? Con il terrorista si può trattare!». Ripeto: vecchia, vecchissima, e perciò attuale. Chi s’impalca a liturgista, attingendo al proprio sentire di gusto, non sente ragioni altrui: si fa così. Inutile tentare con dei ma, che arrivano da un richiamo alla essenzialità del rito: si fa così perché… e lì naturalmente si blocca tutto, perché un perché non c’è: e tuttavia resta, intangibile, il si fa così. E lì un perché riceve la risposta più antica che esista nelle parrocchie: perché il parroco sono io. Così dalla liturgia si scivola nella pastorale, e dalla pastorale a quel lato amministrativo che compensa, in molti presbìteri cattolici, la loro mancata paternità biologica. Poi è gente che scrive di partecipazione dei laici, o di condivisione presbiterale, magari imbastendo anche convegni sulla fraternità, che servono solo a parlarsi addosso. Perché non c’è che mettere insieme quattro o cinque di quelli, con qualche donna prona e qualche maschio incensiere, per suscitare un movimento, seppure della lunghezza di un’onda in un bicchiere. Onda corta, ma che può far tracimare la goccia che sporca tovaglie di lino. Che sporca l’essenzialità richiesta alla Chiesa: essa, se non deve vivere di uniformità, tuttavia non può mai tentare lo strappo della veste senza cuciture, veste di unità, del suo Maestro. E questo avviene là dove “fa fino” cavalcare l’opporsi per l’opporsi, la moda del distinguersi comunque, dicendo no agli altri per dire sì al proprio ego. Da una parte e dall’altra: e dunque personalmente non mi tiro fuori da questo dito che punto. Ma insomma, c’è chi se ne rende conto, e tenta di emendarsi (tenta?!) e chi no. Ad esempio, prendete chi oggi si oppone al papa: si oppone ai contenuti, o allo stile? e dunque alla freschezza, che non usa giri di parole per riportare le parole al Vangelo? Temono di patire un raffreddore per il vento nuovo? Non ricordano che la Pentecoste è stato un vento di fuoco? Confrontarsi davvero, partendo da una conversione che non fa della fraternità un bel tema da locandina. Confrontarsi perché libertà e uguaglianza siano le basi: libertà dell’avversare, uguaglianza nell’esserci. Senza la stupidità dell’ostinarsi su di sé. È l’indispensabile di una fraternità che non sia un embrassons nous, per lo più formale e poco convincente. Giusto come gli abbracci sul presbiterio di certe cattedrali o in certi altri templi cattolici. (O anche anglicani?). Abbracci che non abbiano il sentore della complicità, ma della verità su di sé e sull’altro.