Due categorie che oggi insegnano alla Chiesa come deve essere. Prendendosela con il suo papa che non è quello che si vorrebbe per sé. Per le proprie sicurezze rinchiuse. Nostalgici e saccenti dentro e fuori la Chiesa. E lo fanno usando generi letterari diversi, a secondo che scrivano o parlino su media laicisti o cattolici: dal sarcastico all’arguto insolente, dal beffardo al sottilmente ironico. Un papa che va dai valdesi? Ma quando mai! Il gesuita divenuto papa che chiede perdono per le nefandezze della cosiddetta conquista dell’America, senza sottolineare che furono i suoi confratelli di allora ad essere espulsi per aver difeso gli indigeni? E dai! E un manifesto – perché tale resterà, che gli piaccia o no,come un’enciclica detta invece che scritta – che chiede finalmente il cambiamento dello status quo economico, per cui i poveri non debbano restare poveri? Ma come si permette di uscire dal suo campo, inteso come il recinto di sacrestia? dicono i professori di democrazia, quelli con la puzza sotto il naso, magari storpiando i fatti per non darsi il piccone sull’alluce. Che siano preti e affini che si rifiutino a questa nuova evangelizzazione, che rend vivo e vivibile finalmente il Vangelo dovrebbe preoccupare di più, molto di più, i vescovi: non tutti, ma quelli che non s’avvedono di quel cambiamento culturale la cui cifra è quella di restare fermi; e chiedersi perché all’interno delle loro chiese ci stanno più di alcuni che si stanno rifiutando di vedere questo cambiamento: di linguaggi e di gesti che finalmente svelano l’essenzialità evangelica. Dicano: “Francesco ha completamente archiviato il Novecento, non si preoccupa di essere accusato di comunismo – visto che il comunismo non appartiene più alla cronaca, ma è archiviato nella Storia – ma si preoccupa di parlare a nome di coloro che non hanno voce: poveri, diseredati, vecchi e bambini. Ha capito che non ci sono più partiti politici o movimenti che se ne occupano e allora viene da chiedersi: ma chi dovrebbe farsene carico se non chi deve annunciare il Vangelo?”. E gli stereotipi papali che cosiddetti professori continuano a perseguire, per negarsi all’inseguimento delle domande che potrebbero scomporre i loro gusci anticlericali? Certo non l’hanno letta – non ne sono tenuti (ma i cattolici nostalgici, quelli sì, avrebbero dovuto meditarla): al numero 25 dell’Evangelii Gaudium si parla della conversione del papato, accanto a tutte le altre forme di conversione. E si rifà a quanto Gesù ha detto a Pietro: una volta che ti sarei convertito, allora conferma i tuoi fratelli nella fede. Allora! E dunque quello che viene preso per un vezzo (vi prego: pregate per me) non è forse un riconoscimento del peccato che abita ciascuno di noi, e che questo papa ci ricorda continuamente offrendo la propria fragilità, perché nessuno dimentichi la propria? Come dire la lontananza dal Vangelo a quei fratelli della fede, che non nella debolezza, di cui parla Paolo, ma nella potenza credono di avere salvezza? E che ne sanno dei paradossi della vita, coloro che si sono rassegnati, nella polvere dei loro studi, a convincersi che il mondo è così, che ricchi e poveri sono la griglia del vissuto umano, e che non esiste nessuna isola dell’utopia? Due gli argini, simili seppure apparentemente contrapposti, su cui siedono rannicchiati nostalgici e saccenti: ma il fiume della vita evangelica scorre, portando sempre acqua nuova. Portando energia a chi non teme di immergere i piedi in questo viaggio che viene da lontano, e conduce lontano.