Smetto di fare il prete. Ormai sono ricorrenti questi abbandoni. Rassegnati i vescovi, chiamati ad essere burocrati di una decisione sulla quale neppure è richiesta una loro fraterna consulenza. Impietriti alcuni (pochi) fedeli, per i quali la dedizione è un impegno cui si chiamano essi stessi ogni giorno. Per altri non è che una tappa prevedibile: o per il tipo di persona (certe vocazioni si fondano su improvvisazioni di sé non accompagnate da un sincero discernimento: c’era da aspettarselo, dicono i compaesani delle origini); o per il tipo di vita (ed è l’incomprensibilità del celibato per uomini che vivono nel mondo, mentre la compagnia di un monastero lo renderebbe credibile, si pensa); o, e soprattutto, perché la fedeltà non è più una virtù (e si dice, la vita lunga, che oggi è data, diventa due vite: anche per i preti, oltre che per gli sposati). Smetto di fare il prete: lo si può dire sottovoce, o proclamarlo dal pulpito, che son due modi molto diversi di vivere comunque quel passaggio di vita. Quelli che l’annunciano dal pulpito, e dopo magari avere regolarmente celebrato una messa, che suicidio esistenziale! Giustificano questa recita in due atti dicendo che non vogliono essere ipocriti: ma l’ipocrisia sta in quel non tanto subconscio bisogno di seppellire in un gesto teatrale ciò che non riescono neppure a descrivere come un lutto. Certo, ci sono le motivazioni, ci sono i perché: perché ho sbagliato strada, perché mi sono innamorato, perché non credo più alla chiesa. Smetto di fare il prete, perché sono diventato padre: abbastanza ricorrente, ormai. Se non fosse che la notizia di questi giorni aggiunge un particolare: all’annuncio è scoppiato un applauso nella navata. Non un silenzio rispettoso. Non una plausibile costernazione, pur senza condanne. Non una qualche interrogazione su chi è stato quell’uomo per quella comunità. (Cade il silenzio sulle spalle e la luce impura, fino a dolere). Un applauso liberatorio? E che c‘è di male!? mi ha investito uno delle categorie sopra citate. Nulla, ho risposto. Se non fosse che sono contrario agli applausi in chiesa. E soprattutto nei funerali. (Ma sarebbe bello, oltre che utile, discettare finalmente sulla psicologia delle masse: sulla rozzezza che ormai è una cifra delle grandi indistinte quantità, che popolano il web, così ben cucinate dall’idea che la libertà consista in uno spazio libero (come contestava Giorgio Gaber: La libertà non è star sopra un albero, non è neanche avere un’opinione, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione); la libertà non è una bacheca su cui affiggere opinioni non rimuginate (rimuginare? ma quando mai oggi è di moda pensare prima di parlare, o di scrivere sui muri dei siti?). Ma sarebbe ancor più bello che finalmente i vescovi s’accorgessero di quali cristiani abitano le chiese: e non perché applaudono a una notizia di vita – “vi è nato un figlio”; ma perché quell’applauso è una assoluzione di sé in quello là che fa outing: che se non è sacramentale, come vorrebbe essere, è sicuramente sacrilega, lì e così. E se ne accorgessero, i vescovi, per scendere dai palcoscenici, ed entrare nelle case dei presbiteri: a rendersi conto di solitudini e di attese).