Mio padre è stato un deportato nei campi di lavoro nazisti. Un quadro, 50×35, appeso nella cucina soggiorno, me lo ha ricordato fin dalle prime curiosità dell’infanzia. Accanto ad alcune parole tedesche che tornavano nei racconti serali, da stanza a stanza, vigilia di un sonno che non veniva, non si voleva che venisse, né a lui né a me. Come kartoffel: simbolo di una fame atroce, e non erano patate ma pelli di patate: buttate dall’apparente pietà di uno di quel popolo, che contemporaneamente aizzava un cane latrante; o kaputt: minaccia totale ricorrente per ogni spossatezza. Mio padre è tornato dopo tre anni di prigionia, ha potuto raccontare quei giorni e l’antipasto che fu la sua guerra di Albania e Grecia, degli stracci ai piedi al posto di calzature nei trasferimenti kilometrici da Firenze a Mentone. (Ma anche di quelle lenzuola fresche che, per una notte di allontanamento dal quel marcio esercito, ha trovato dalla zia suora in servizio all’ospedale di Nizza). Credo di capire, a risalire da quella memoria – certo un po’ meno sventurata (ma quanto?) – che Olocausto o Shoah non sia un dilemma linguistico, letterario, ma una inderogabile disuguaglianza da difendere; e che dunque si voglia ben distinguere tra i fumi che salgono a Dio, negli olocausti di culto, e i fumi dei crematori dello sterminio di Auschwitz, Dachau, Treblinka. E dunque Shoah, la memoria di una catastrofe, il fumo di Caino che non può confondersi con la preghiera di chi, assetato, affamato e nudo chiede al Cielo, se c’è, di uscire dal suo silenzio. “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo. Che lavora nel fango. Che non conosce pace. Che lotta per mezzo pane. Che muore per un sì o per un no». La tragedia di allora, raccontata da Primo Levi, l’ebreo sopravvissuto degli orrori nazisti, può essere anche la parola per l’oggi; e i milioni di uomini e donne, di ogni età e di ogni credo, morti allora nei campi di sterminio sono speculari ai tanti, ai troppi, che stanno morendo sulle frontiere dell’insanità umana, oggi. Nel bugiardo nome di Dio. Nel nome di sé, di una autosufficienza assoluta che rischia il pianeta. Mettendo a rischio il benessere di noi che stiamo a vedere, e non mettiamo mano, se non quella di una esecrazione che diventa ipocrita quando non diventa artefice di un “basta” risoluto. Andare a Gerusalemme è toccare l’olocausto, questo sì, di Gesù. Ma anche lasciarsi interrogare dalle cinque fiammelle che per un gioco di specchi diventano migliaia di stelle, sulla collina di Yad Vashem, a ricordare il milione di bambini i cui nomi impiegano tre anni ad essere pronunciati nel silenzio di un labirinto buio. Per interrogarsi sull’oggi: di uomini che armano la mano di un bambino omicida. O imbottiscono due bimbe di tritolo per sacrificarle alla morte dei nemici. O di tredici ragazzi giustiziati per la loro passione del calcio. Per ricordare nell’oggi un passato che è presente: la catastrofe di un mondo che non riconosce una fraternità finalmente senza confini dell’anima. Se ci vuole una legge che fissi in un giorno, sarà il 27 prossimo, la necessità di una memoria, forse ci si dà solo un alibi; o forse serve a turbare un sopore? Ma a migliaia stanno morendo, mentre ci nutriamo di documentari e di discorsi. Occorre sapere: e non tanto di un sapere libresco, ma sapere la vita, sapere la fragilità di quest’uomo che noi siamo. Sapere l’orrore di allora per milioni di ebrei, cristiani, omosessuali, zingari. Ma sapere l’orrore di quanti, e sono tanti e sono troppi, trucidati, oggi, in Africa, in Ucraina e in Medio Oriente: cristiani e musulmani e di qualsiasi fede, nell’indifferenza di un sentimento che non sia quello dell’odio. E dire basta a chi papeggia per insegnare al papa che c’è una differenza: quella tra noi e loro: una bestemmia davanti all’unico Dio, il cui silenzio è chiamata alla responsabilità ricreatrice del mondo, di cui fin dall’inizio ha investito ciascuno, noi pur fragili uomini e donne. Non riusciremo mai a capire gli orrori, di ieri e di adesso. Ma ricordare è indispensabile se si vuole perdonare. Senza appunto mai dimenticare.