Nelle sacrestie della bergamasca, fino a quarant’anni fa c’erano, appese, le tabelle tariffarie. Se eri povero o eri ricco, ad esempio, avevi un funerale diverso: divisi per classi, e suntuosi gli uni e arrangiati gli altri (pur salvando la preghiera liturgica, uguale per tutti, seppure cantata o solo letta). Poi, sono scomparse, e ci si è affidati, più o meno sinceramente, alla generosità dei cristiani. Un generosità, occorre dirlo, che non sempre si manifestava proporzionale alle possibilità: ogni buon parroco del tempo anche recente vi poteva raccontare dei ricchi meno generosi dei poveri. Chi sa perché. E dunque la severa ammonizione di Francesco papa, in questi giorni, da questo orizzonte ci vede fuori. E il suo esempio del prete che affitta la chiesa per i matrimoni è della sua storia argentina: una chiesa che forse, e si spera solo nei confronti dei ricchi, ha qualche passo da fare per quella gratuità dei servizi ecclesiali che è evangelica, o non è. Ma davvero noi siamo fuori? Per davvero le nostre comunità cristiane hanno decisamente imboccato la strada di prestazioni lontane da ogni odore di bottega? Se ormai salviamo i sacramenti da compra-vendite, il restante è sempre scevro da ogni interesse economico? Ci sta, si dice, che le manutenzioni di edifici e le attività siano sostenute da periodiche sagre a base di fritti più o meno vegetariani: ma è odore che sempre lascia intatto il profumo dell’incenso? La carità è un capitolo importante delle casse parrocchiali? La carità che inventa luoghi di accoglienza all’insegna della gratuità, soprattutto là dove è chiamata a rispondere ai bisogni, è di casa nell’operatività di preti e laici credenti? O si fissano tariffe, seppur ipocritamente simboliche, per “educare alla responsabilità” a chi chiede un servizio di ospitalità necessitata da un difficile della vita che si sta vivendo? E la moneta non lesinata dalla comunità a chi è sbandato, trova ancora aperte le porte delle canoniche? Un tempo ebbi a ingaggiare una battaglia con responsabili delle organizzazioni caritative di livello diocesano: si dà solo a quelli che ci stanno ad imboccare un cammino di revisione della vita. Perché sennò usano male della moneta che gli dai. E così i barboni (o, in linguaggio orecchialmente meno crudo seppure poco bergamasco, i clochards) sono sbattuti fuori da ogni considerazione di una fragilità forse momentanea, o forse no: la fragilità della sopravvivenza. E qui il ricordo è della mia infanzia: all’obiezione – guarda che le tue cinquanta lire andrà a bersele alla prima osteria -, la nonna che rimanda – se quello usa male, io non posso sottrargli la possibilità di usarne bene. La gratuità è molto più di una carità incanalata: è accettare l’altro come persona, che vive in quel modo lì e con quei limiti lì. E se la gratuità non solo viene chiesta al singolo, ma diventa la virtù di una comunità cristiana, allora il Vangelo si fa, e testimonia l’alterità della fede. Oltre a far nascere corrispondenze insperate: persone che imparano la gratuità nelle nostre comunità, e la trasportano nelle loro. Il tempio da cui tener lontana la passione per il denaro non è solo l’edificio in cui ci si raccoglie per le liturgie: liturgie vuote se non ci si manda in gratuità al mondo, che diventa il tempio dove si celebra la liturgia della condivisione, liturgia eucaristica compiuta. È la gratuità totale dell’amore del Signore che occorre mostrare, in parole in opere, a ogni corpo che racchiude – molto sporco? molto dolorante? molto arrogante? – il volto di Cristo. Rischiando di riconoscersi in meschinità supponenti: ma è la maniera di correggere lo sguardo sull’altro.