Quel che rassicura è il suo sorriso. Intatto, pur essendo passato nelle maglie del locus vaticano. Pur spostando sedie ingombranti. E pur lanciando messaggi conditi di coraggio e di mitezza evangelica. “No, per favore, questo no”. Un’espressione ricorrente, alzando gli occhi dai fogli che pure sono scritti in buon bergogliese: chiari e distinti, alla portata di tutti, persino degli intellettuali. Ne ha per tutti, ma sembra proprio che la sua attenzione critica ricorrente sia per i vescovi. Colpendo dunque nel segno della chiesa fin’ora papocentrica: spostare lo sguardo sulle periferie, avvicina a quella sostanza cristiana che è ecumenica, o non è. E dunque a quella idea che ogni chiesa retta da un successore degli apostoli sia autoctona: davvero sul posto si ha quella capacità di cogliere la persona e il suo vissuto, e di dare risposte che siano nella regola del sabato evangelico (un mantra ricorrente, mi sto accorgendo per questi ultimi scritti: ma da sempre presente nella mia storia presbiterale, seppur imperfetta). Ma quale vescovo? Quello che ha “studiato” per diventarlo?; chi lo pensa come una carica onorifica? (e dunque da lì il sussurro di quel cardinale orientale: – ma che ci fanno cinquanta vescovi in vaticano? un vescovo o è per una Chiesa in carne e ossa, o non è); o forse chi viene da una discendenza che genera soggetti episcopali simili a sé, e dunque perpetuando il moto immobile che ha caratterizzato soprattutto la chiesa italiana? Dire cose così crea nemici: Francesco papa lo sa, e tuttavia continua. Noi gesuiti, ha detto a sé e a loro qualche mese fa, siamo esperti rematori anche quando il vento è contrario. Ha fatto richiudere i cassetti delle sacrestie sanpietrine (ma in periferia continuano qua e là ad essere ancora aperti) dopo che da qualche anno si erano riesumate cotte plissettate ad accompagnare messali tridentini; ha ricomposto lo Ior al suo fine di solidarietà, rompendo intrallazzi mafiosi; si porta la borsa con il rasoio da sé, così come nelle lande periferiche di Buenos Aires si portava sottobraccio la mitria, senza un caudatario o un segretario totalmente ad hoc; abita in un albergo aperto anche ai non addetti, per sfuggire quella solitarietà che può condurre alla solitudine, penosa anche per un papa. Ma certo di strada ne resta molta, dal colle vaticano in qua: basta monsignori fino alla raggiunta età di pensione? Va bene. Ma perché tener aperta la porta delle onorificenze a quelli della diplomazia o delle congregazioni romane? non è forse lo spiraglio dal quale usciranno quei vescovi (come sono usciti e stanno uscendo) che avranno annusato ben altro che l’odore delle pecore? Pazienza? calma? la Chiesa non agisce per rivoluzioni sennò avviene uno scisma? Ma: non è Gesù che, rovesciati i banchi di sacrestia, dice (sicuramente con amarezza, ma fermo) che se ne possono andare quelli che non ci stanno? (Il papa probabilmente non lo sa, allora era ai confini del mondo, ma sarebbe opportuno che qualcuno gliela raccontasse l’imbarcata di segretari Cei che al cambio del Presidente furono tutti gratificati con una diocesi – è ancora viva nella memoria di chi ci sorride e dei tanti che ci piangono: che odore potevano aver annusato se non quello del legno di ciliegio delle loro scrivanie, o al più delle ovazioni nelle adunate oceaniche giovanili o movimentesche o familesche?). Muoversi tra ragnatele infittite dall’ambizione che pullula all’ombra del cupolone (ma pure altrove!) non Gli deve tornare semplice. Ma ritrovarlo il mercoledì a spalancare lo stesso sorriso pienamente sorridente dei primi giorno del suo servizio dà molta speranza. Alla faccia dei suoi oppositori, e degli ostruzionisti che s’annidano ben oltre le stanze vaticane, e allignano anche qui, tra noi. Il sorriso rimasto vergine, nonostante. E non è detto che sia pacifico nella storia dei papi. Uno così all’essenzialità di Dio ci crede, e lo vedi, se ti abita un poco di purezza dello spirito. Non vi basta, laudatores del tardo barocco? Non basta, ahiloro.