Fare un regalo a un prete è sempre difficile: o si ripiega su libri, o si moltiplicano i calici. Se un regalo è un segnale, per un prete dovrebbe essere qualcosa che lo riporta al cuore della sua vocazione ministeriale. Che essenzialmente è trovare nelle cose di ogni giorno il cuore che le unifica. Dunque, la contemplazione. Se il primo momento della contemplazione è il sostare, il secondo è l’ammirare. Che è poi la sorgente di una preghiera zampillante. Non è

dunque per una moda, o per voglia di esotismo che, per un dono di cinquantesimo di messa, abbiamo scelto un’icona russa, di antica scuola ortodossa: è che difficilmente l’arte moderna sa fermare davanti a sé.

(Provate, se ancora fate a tempo, ad andare all’esposizione in sant’Agostino: un percorso segnato da un luminosità enfatica su oggetti e/o segni curiosi; e tuttavia una voglia di uscir fuori presto, a rivedere la luce che sostanzia i colori. O mettetevi davanti a tele che compaiono in mostre di nicchia: inesorabilmente accompagnate da fascicoletti didascalici, che ti debbono dire il senso del graffio di sopra, riflesso nello squarcio di fianco…). Si dice che Matisse spesso raccontasse ai giovani artisti il suo stupore per le icone viste a Mosca: il rifiuto del naturalismo ottocentesco, e la crisi della prospettiva rinascimentale, gli ha fatto riconoscere nella pittura iconica la bellezza che scende dal segno di una fissità viva. Ma è questa che intriga davvero la sacralità: in occidente con il bizantino di Ravenna, in oriente con la ripetizione creativa delle icone, si è messi in quell’atmosfera di dolcezza e di quiete che rende possibile l’incontro con l’immagine divina. Per eccellenza l’icona è essa stessa preghiera che interroga la fede e misura i propri atti di vita.

Soprattutto per questo ci è parso bene scegliere l’icona di Abramo alle querce di Mamre, l’icona dell’incontro e della fede, dell’accoglienza dell’uomo e della fecondità che nasce dal grembo di Dio. Che sono poi le misure su cui intessiamo la nostra vita di comunità: con lo splendore di focacce servite a chi viene da lontano, ma anche con la pochezza irrigidita di chi non si fida delle grandi promesse. Il riso di Sara è talvolta il nostro stesso peccato di delusione, accanto al prezioso inginocchiarsi – che pure non ci manca – alla provvidenza che si riconosce nella nostra vita di comunità e personale. Non sempre è un riconoscimento palese: la riproduzione delle icone non riesce a dare l’oro. All’occhio fotografico sfugge la purezza irriproducibile della divinità. Solo all’occhio umano è dato lo splendore dell’oro zecchino, solo all’occhio dell’anima è data “la primaria immagine di Dio, che è Cristo”. Del quale Abramo è stato l’icona dell’obbedienza al Padre. Quella che è chiesta sempre, in ogni stagione della vita, a tutti. Un’obbedienza che non toglie: riempie il grembo.

Sulla soglia dell’estate, con il profumo dei tigli penetrante la sera tanto quanto volute d’incenso, ci si prepara a libri e viaggi. Chi può. Chi non può, non si lasci mancare la contemplazione. Proprio venendo da un anno denso di “cose” – e questo numero del giornale ne racconta alcune, e di altre ne richiama la memoria – non si può non aver voglia di una sosta sufficientemente prolungata. Per rimettere ogni cosa al suo posto. O almeno per trovarne il senso ultimo, la sua composizione unitaria. Così, si può stare alla finestra: e lasciare che il fuori entri in casa con la sua bellezza che muta dal meriggio all’alba. O si può decidere di lasciarsi chiamare dal fuori: e andare incontro ad ogni aurora che si estingue, compiuta, nel tramonto.