Quella che ad agosto, nei giorni della sua liberazione, era stata una sensazione, mi è divenuta certezza. Sono state rimesse in circolo le immagini di Natasha, la ragazza tedesca rapita e tenuta in schiavitù per molti anni. Completamente segregata da qualsiasi contatto con altri che non fosse il suo rapinatore. E però con la possibilità di vedere la tv. Una ragazza che evidentemente recita: un sorriso che non corrisponde agli occhi tenuti chiusi, quasi

per pescare dentro di sé un copione scritto sull’anima, dentro gli anfratti della solitudine; e una gestualità delle mani così artefatta da rimandare ad una personalità inconsistente, pericolosamente disegnata sull’irrealtà: quella sognata, e ricalcata, sui clichés televisivi, l’unica realtà che le è entrata negli occhi.

Ma la drammaticità di quell’immagine è forse unicamente l’estremo del linguaggio del corpo attraverso cui noi siamo conosciuti e conosciamo molto al di là di quello che si vuol lasciar vedere. Si sorride, e si hanno occhi che dicono tristezza, o indifferenza. Si stringe una mano, ma, nel tocco moscio, si avverte di non voler contatti. Si è lì, ma chi sta davanti vede che non ci sei nel tamburellare di dita che ritmano pensieri diversi. Insicurezza, insoddisfazione, perplessità, sbigottimento, inquietudine: sono sentimenti che non si riesce a mantenere del tutto nascosti. Affiorano, appunto, più o meno scopertamente, a contraddire quanto si dice o non si dice. Mi sono divertito (l’unico modo per sopportare le tavole rotonde dell’ultima campagna elettorale – tutte così uguali, e così prevedibili negli schieramenti!) a contare quante volte i partecipanti si tradivano in quello che, nel mio gioco, ho chiamato l’attimo di posa. Avete presente lo stacco dell’inquadratura da chi sta parlando su un suo avversario? È un attimo. Ma sufficientemente lungo da vedere la faccia che si trasforma: da uno stato atrofico a un improvvisato sbattimento di diniego della testa, o in una smorfia della bocca. Non si guarda l’interlocutore, si guarda il monitor di studio: e da quando ci si vede dentro a quando ci si accorge, si svolge l’imbarazzo di essere stati colti non pronti. È un momento farsesco, ma come ogni farsa non toglie l’amaro retrogusto di politici che, in quanto recitano una presenza, non possono essere affidabili.

Si trasmette dunque con il corpo. Anche nella Chiesa. Anche nelle celebrazioni liturgiche. Anche al Sinodo. Che si è avviato, mostrando qualche difficoltà nell’intendersi sui metodi, ancor prima di affrontare gli argomenti. Voglio credere che se ne verrà fuori, ma si farà fatica più di quanto si dovrebbe. Manca infatti il linguaggio del corpo dei sinodali: che, stesi come sono uno dietro l’altro in un grande anfiteatro, non si guardano; e dunque non si leggono simultaneamente in faccia l’un l’altro approvazione o delusione, conferma o contrarietà, consenso o disagio, avvisaglie e complessità. L’aver rinunciato alla circolarità dell’assemblea crea una sorta di addizione dei singoli, più che un corpo ecclesiale che si riconosce per una corrente che si travasa. Per trasmettere al mondo il deposito della fede nel Signore – ricco di tutte le stratificazioni che ha accumulato nei secoli, ma anche reso opaco dalle incrostature – occorre fare i conti con chi si ha davanti, si dice a buona ragione. Ma il mondo là fuori è già ben dentro le membra, gagliarde o disincantate, che abitano il Sinodo.