“Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire”. Devo averli citati già da qualche parte questi ultimi versi, del Re Lear di Shakespeare. Ma servono qui per dare un filo a questi pensieri sparsi su giorni che non aiutano lo splendore di cui la Chiesa è mandata in ogni tempo a dare testimonianza. Non le è stato forse confidato il gran spettacolo del Tabor, speranza deposta nel cuore, prima del

dover scendere nella valle della vita? Giusto domenica scorsa, il papa ha chiesto di pregare per lui, di non lasciarlo solo nel difficile compito petrino. Ma come raggiungerlo, come accompagnarsi a lui? Le voci alla finestra dell’Angelus arrivano dalla piazza inevitabilmente così attutite da non poterle decifrare. E dentro la sua casa, chi, e come?, gli racconta quanto avviene dentro le case degli uomini, credenti e non credenti? Chi lo serve? chi gli fa sapere? Con una caduta di immagine mai verificatasi prima in Vaticano, sono anche cardinali a dire che non è ben servito negli atti del suo ministero.

Chi lo aiuta a ben vedere, se, da lui stesso finalmente demitizzata la figura del papa onnisciente e onnipotente, egli non può non affidarsi? Di sbagli che non toccano la sostanza della fede, ha diritto di farne anche il papa: ma chi lo corregge? Un verbo inaudito, questo, fino a qualche tempo fa, e ancora inaudibile per molti. Eppure fu lo stesso cardinal Ratzinger a dire che “sarà possibile e anche necessaria una critica a pronunciamenti papali” quando sono atti che toccano il manifestarsi ecclesiale nella storia e non il nocciolo delle Scritture. E poi ci sono le notifiche delle segreterie vaticane: se comunicano che il pensiero di alcuni prelati non è il pensiero ufficiale, è del tutto desiderabile che questo valga sempre, e nei riguardi di tutti. Di nepotismi teologici la Chiesa non dovrebbe soffrirne più, per cui se qualcuno dice una cosa che piace si sta zitti, se no si sconfessa.

Abbiamo un gran bisogno di predicare il vangelo vivo; e dunque abbiamo bisogno di una lettura della Parola di Dio che sappia cogliere il vissuto, qui e adesso, degli uomini. Abbiamo un gran bisogno che si tolga la parola a chi bestemmia il nome di Dio quando violenta il nome degli uomini e delle donne del nostro tempo; ma allo stesso tempo abbiamo bisogno di ridare libertà di parola nella Chiesa, perché non si continui a deridere i profeti che il Signore ci manda: senza sospetti di eresia, senza più scomuniche (non è più evo di scomuniche – e bene ha fatto il papa, seppur scegliendo male i tempi, a levarla a quei miserandi di lefebvriani). Con vescovi cui finalmente sia riconosciuta la pienezza del mandato apostolico per la propria chiesa particolare, senza più invadenti centralismi romani che ritardano l’inculturazione dell’evangelo. Con preti che usino un linguaggio rispettoso ma trasparente con i propri vescovi: cosa su cui noi preti bergamaschi dobbiamo allenarci ancora molto, presi come siamo da una reverenza che non è obbedienza ma sudditanza. Se sugli ultimi versi del Re Lear cala il sipario, per noi il sipario si apre, con l’avvento del nuovo vescovo: cui auguro di essere amante della genuina verità di ogni persona. Che è poi l’unico modo di amare e servire la Verità con la maiuscola: quella che ci è data da credere senza vederla