Sono stato chierichetto. Naturalmente, direi. E in un mondo religioso quasi completamente scomparso. E tuttavia il mio presente di prete nasce da lì. Chierichetti: sono curiosi, gironzolano, toccano, rompono ma anche imparano. I più vivaci diventano preti. E se lo diventano quelli un po’ troppo queti, che non si ribellano e non danno fastidio, allarme sulla Chiesa!, ché si ritroverà chierichetti non cresciuti a gironzolare per tutta la vita in sacrestia. Portare il viatico

 – l’ombrellino sulla testa del prete, solo perché inusuale, era il motivo di feroci battaglie –: e mi ricordo solo intirizzito in quei viaggi verso case povere, le scale rivestite di lenzuola rifatte dal sole di luglio dopo un bagno nella cenere.

 Catafalco enorme ricoperto da un panno pesante, nero, con robusti ricami in oro a racchiudere medaglioni dipinti che raccontavano le morti bibliche (ma ho presente solo nitidamente quella di san Giuseppe, abbandonato nelle braccia di Maria). Si apriva uno sportello, e ci si infilava la cassa del morto. Un pomeriggio, nessuno in chiesa, mi ci sono ficcato: un bambino alla scoperta della morte, rileggo oggi. Ma una morte che non ho trovato, e neppure la paura. Forse, anche per questo, ho sempre avuto con quell’estremità della vita un rapporto distaccato.

 Quel rialzo funebre era piantato in mezzo alla chiesa per tutto l’anno – giusto a Natale e Pasqua si toglieva: uno pseudo-sepolcro attorno al quale il prete dopo la messa passava con acqua ed incenso a cospargere cose – legno e panni. Era la liturgia di quelli che ora la rivogliono: una religione che si estenuava nel culto dei morti; e che, appunto, non aveva il suo apice partecipato nella resurrezione della Pasqua, ma si concludeva nella processione del Cristo morto il venerdì santo.

 Allora nella chiesa si vedevano bene i ricchi e i poveri, soprattutto nei funerali, e negli uffici funebri che allora imperversavano dal lunedì al sabato (ma la domenica non si interrompeva l’intenzione di messe per defunti…). Le tabelle appese in sacrestia scalavano ben quattro classi di censo: dalla ricchezza, a cui si chiedeva di pagare molto, fino ai poveri cui si faceva un “trasporto” gratis: ma un solo prete contro i dieci o più della prima classe.

 Se potessi scegliere (ma ci pensano quasi sempre gli altri, ed è abbastanza ovvio…) sceglierei per il mio riposo in attesa di resurrezione tra due cimiteri: sull’Adda o sulla ferrovia. Questo della Città no: si va diritti verso un familiare, non si è attratti a trattenersi sulle facce di chi si è conosciuto, in una successione che misura il tuo tempo, e fa risalire la tua storia nelle mille (ormai mille!) storie condivise. Anche la morte esige di sfuggire l’anonimato. E poi, l’uno e l’altro di quei camposanti stanno lì, chiamati – dallo sciabordio del fiume o dal fischio del treno – all’andare: verso il luogo altro che la fede ha promesso, e la speranza ha nutrito. Uno stacco per involarsi verso cieli nuovi e terre nuove. È come delle foglie che finalmente ingiallite si coricano in attesa di essere raccolte e trasformate: foglie che tuttavia si ricordano e nella lucentezza del loro verde, e nello splendore del loro rosseggiare prima di staccarsi.

Non trovo un’unica morale di questi appunti. Se voi ne trovate una, passatevela.