Non è l’elogio del sessantotto che scrivo, nell’anniversario del suo prodursi: non amo i post-sessantottini, genitori o preti ingessati nei loro vent’anni; così come non amo quei figli del niente che elemosinano spazi sociali per le loro spinellate, inalberando vessilli che appartengono alla loro preistoria. Ma guardate che cosa è cominciato nel marzo di trent’anni fa: una sola televisione, e gli sguardi di tutti erano puntati su quel manipolo di ragazzoni che partiti dalla periferia di Nanterre

 hanno preso la Sorbona di Parigi, la loro Bastiglia. Non le risse da pollaio dei partitocratici, non le bizze delle teste coronate, non le sfilate di mannequins sempre più anoressiche ad annacquare l’avvenimento. E a distrarre dall’evento né il folclore camiciaiolo foriero di tristi memorie, né la rabbia vergognosa del bergamasco al balcone: che va a lavorare, lui, il giorno dopo, e che salvino o no un ostaggio nella casa di fronte non rientra nei suoi interessi. Non è vero che più si hanno informazioni e più si è liberi. Questa è una delle tante favole messe in giro da chi è preoccupato dei propri spazi vitali, non della libertà di tutti: per nascondere una notizia imbarazzante, non c’è che seppellirla sotto molte.

Forse allora l’informazione era di un solo tono, come dicono i radical-chic che si nascondono ormai nelle flanelle dei giornali che contano: ma certo non ha impedito che succedesse quel sessantotto. C’era tale partecipazione all’avvenimento, che ben presto tutta la Francia e l’Europa ne uscirono infiammate. Perché il fatto era quello e non altro. E bastava alla ragione di chi sposava quelle ragioni: per imporsi, per chiamar fuori; per coniare slogan che non sembravano più appartenere alla lingua degli uomini: la fantasia al potere, o sotto l’asfalto c’è la spiaggia, o siate realisti: chiedete l’impossibile. Slogan, certo, con tutto l’effimero che hanno rappresentato, con le nuove mode di bruttezza che hanno inaugurato: ma almeno un volo, per molti, per uscire dalle secche di una generazione destinata a consumizzare i sacrifici da dopoguerra dei padri. Un evento che ha avuto bisogno solo di poche immagini, che ha saputo districarsi tra i commenti di parte, per scatenare gli anni che viviamo. Non migliori di altri, ma certamente con qualche gente più consapevole di un tempo.

Che si stia perdendo la nostra preziosità cristiana è ormai evidente: e non per merito delle molte informazioni, come dicono gli stessi radical-chic di flanella-vestiti, che si mettono in mostra nei salotti-bene delle molte televisioni: a chi resta di sentinella, le molte informazioni hanno il merito di svelare la ributtante ignoranza di quei maestri di se stessi. La perdiamo, la nostra identità cristiana, quando lasciamo che s’annacqui l’unico avvenimento rispetto al quale il resto della vita o si ordina, o distrugge ogni via d’uscita. La perdiamo, quando ci lasciamo condurre dal grido “il messia è qua, il messia è là”.

L’unica notizia che non si può perdere è: il Messia è già venuto in Gesù di Nazareth, e la sua resurrezione dai morti è la nostra solida roccia di speranza, il soffio di vento nella vela dei giorni.