Sere che ti precipitano addosso in una furia di buio, dopo giornate brevi: della brevità indotta dalle molte cose che occupano la vita. E’ la fine di ottobre, un bel mese per chi ancora ha il senso delle stagioni, la bellezza di un ritorno di un certo cielo e di una certa terra, e di cose che escono dagli armadi a cambiare i corpi. E’ una stagione, questa, meno contrassegnata rispetto ad un tempo. Meno nei cibi, che sono gli stessi sempre, faccia caldo o faccia freddo,

 in confezioni sempre più sterilizzate anche nel gusto. Meno nelle occupazioni, che il tempo contadino allietava di riti: la scartocciatura delle pannocchie era l’unico lavoro che ci si rubava l’un l’altro, a cui ci si imprestava senza chiedere compensi, ma anzi ringraziando per l’opportunità che era data: in una cordialità intrecciata di risate racconti e preghiere, calava il mucchio da scartocciare, e cresceva la notte per grandi che mostravano e ragazzi che imparavano senza fatica la vita.

Meno nella fede. Propiziati dalla nebbia di fuori, sul far di novembre, rannicchiati sul sofà, era il tempo della storia sacra. Un nonno biblico che narrava, attingendo dal Libro, le imprese di Davide e Golia, il dramma di Isacco e del papà Abramo, i dispetti di Giacobbe e di Esaù: in un ordine che era pedagogico e non cronologico, in una attenzione per ciò che eravamo stati quel giorno, nipoti di varie tendenze e di diversa età, ma di un’unica vivacità. Ogni sera, e per molte sere fin sotto Natale, il camino aveva grossi ceppi di gelso, a preparare la brace del mattino dopo.

Perché allora, più d’adesso, si aveva il senso del prima e del dopo, del succedersi delle chiamate: che eran sempre conosciute, e tuttavia diseguali quel tanto da renderti stupito. Per questo, se ben ricordo, il pezzo forte che apriva nella mia famiglia la stagione della storia sacra era l’avventura di Giuseppe e dei suoi fratelli invidiosi: a risalire da quell’avvertimento epocale – il sogno delle sette vacche grasse e delle sette vacche magre – per spiegare il prima e il dopo, la miseria e la ricchezza, la tristezza e la felicità. Anche se piccolo, ricordo che mi era facile non lasciarmi fermare dal numero: capivo l’ineluttabilità, accettavo il destino delle stagioni dell’uomo. E lì si è messo certamente il seme di una visione della vita che non può fare a meno della provvidenza di Dio: che c’è sempre, sia come sia la tua ora.

Siamo afflitti da un affanno dei giorni che ci butta a costruire la vita, senza lasciarci spazi per viverla; o che ci impedisce di gustarla anche quando ci chiede di andare attendendo. Non è anche per questo che molti, giovani e no, riempiono la notte di altro che non sia l’attesa? E svuotano il giorno della pienezza che gli è propria, e delle risorse che chiede? In questo sta la pazienza nella sua accezione più alta, che è poi quella più vera: vivere l’attimo che ci è dato, qualunque colore abbia. Perché anche le stagioni della durezza hanno il loro incanto: non lo vede chi non le vuol vivere.

Ma, imbarcato il Maestro, non teme il soffio dello Spirito la vela di chi confida: anche con un mare gonfio, anche con folate di nebbia a impedire la vista della terraferma.