Come in ogni buona corrispondenza, nascono talvolta intelligenti e mirate obiezioni a quanto scrivo su questa pagina ormai da sessanta numeri del Santalucia; o a quanto vado dicendo da circa sette anni dentro e fuori il Tempio. Già le quantità possono scusarmi: ma ho lettori e ascoltatori molto indulgenti, che sanno prendere il meglio, non inasprirsi per il peggio, e chiedere chiarimenti su oscurità. È una mia convinzione che se qualcosa non arriva, la colpa prevalente è del trasmittente

 più che del ricevente: lo dico da sempre ai catechisti; e su questo ho sempre fatto arrabbiare quegli insegnanti miei colleghi che attribuivano alla stupidità di una classe la propria inadeguatezza culturale o educativa. Una convinzione a cui per coerenza non voglio sottrarmi, naturalmente: anche se sono tentato, come tanti, di pensare che sono gli altri a non capire, quando invece sono io a non essermi spiegato. E così vorrei dire meglio ciò che, in vario modo in questi giorni, ho colto in perplessità. Non sono verità di fede, ma aiutano la relazione: questo fare corpo ed essere comunità che resta punto d’approdo sempre più desiderato del nostro andare guidato dal Vangelo.

Se qualcuno ha percepito da me che il Concilio, l’ultimo, è già datato, corregga senz’altro così: il Concilio, l’ultimo, non è per nulla datato. Semmai son datate alcune analisi, perché il mondo non si è fermato all’orizzonte colto dallo sguardo dei Padri conciliari; sono datate alcune concrete risoluzioni, che inevitabilmente non trovano più riscontro nel succedersi vorticoso di questi anni, e nella luce che lo Spirito sa dare continuamente nuova alla sua Chiesa. Dire che si è scivolati, ad esempio, dall’inesauribile concetto di “popolo di Dio” all’affermazione che esso si realizza nelle forme partecipative che abbiamo costruito in questi anni, è avvertire del pericolo di fissare – di datare, appunto – una Chiesa che per statuto cammina, e dunque muta per il suo stesso andare, pur mantenendo fissa la meta. Questa è l’ingessatura che io temo: che si viva del bello che è stato, e ci si imbamboli nel difenderlo come un assoluto.

Altro appunto da correggere. Ho vissuto da protagonista, piccolo piccolo, il sessantotto – e in Seminario: che è come farlo due volte! Sono convinto che quella stagione c’è voluta tutta per sterzare in una qualità altra di essere prete; ma è una stagione: bella accanto ad altre, altrettanto belle e significative, che sole e pioggia hanno scandito poi. Puzza un’acqua stagnante; puzza continuare a vivere là, come se non fossimo cresciuti, ormai capaci di misurare il cortile della nostra infanzia per quello che è, non una piazza d’armi, ma un dieci metri per quindici. Quel cortile resta tutto, negli anni maturi, come un’unità di misura per la verità di altri percorsi: ma non si potrà dire che è lo spazio più grande che mi sia stato dato.

Un’ultima chiarificazione riguarda il nostro tempo e i tempi di Dio. Credo in Dio, e perciò so che ha un’attesa diversa dalla mia, mezzi migliori dei miei, occasioni per me impensabili. Certi pensieri impuri non li coltivo: e dunque so che una comunità non realizzerà mai del tutto il Regno, anche se può sembrare il contrario data la mia tendenza ereticale all’attivismo. Non ho la pretesa di insegnare a Dio. Ma pretendo da me di imparare da Dio stesso chi Lui è: e, nella Chiesa che m’insegna la preghiera fiduciosa, lo faccio con l’intelligenza che mi ritrovo e con l’esperienza che ho fatto. Perciò chiedo a chi sta in comunità di non lasciarmi impigrire nell’idea che chi fa è lo Spirito Santo.

Chi fa è lo Spirito Santo. Ma so di poter impigrire in questa verità.