C’è un’aria di mare stanotte, che s’impatta uscendo in strada. È aria ferma, e frizzante. Aria di mare invernale che respiri in una città del nord. Una illusione, un desiderio, una memoria, o davvero è giunta fin qui a dire che lo spazio è unico? Non è facile sbrigarsela con i misteri della natura: innestati come siamo tra visibile e invisibile, tra esperienza materiale e spirito, s’avvera nella vita di ciascuno ciò che è impossibile

 ai sensi.

Lasciato a sé, terra arida e senz’acqua è l’uomo: come questo febbraio senza pioggia, come questi campi che si rattrapiscono in rughe di desolazione, cercando nella profondità la propria sopravvivenza. Così le sottili percezioni del cuore sono indispensabili a chi voglia il contatto con il Signore dell’universo. La storia degli uomini santi, o degli uomini innocenti, insegna il segreto per cogliere ciò che il cuore indica. È l’atteggiamento dell’immobilità. È lasciare che le cose ti vengano incontro, è lasciarsi guardare e descrivere, più che preoccuparsi – guardando e descrivendo – di sapere l’altro, sia persona o cosa; o di sapere sé, nella relazione con l’altro. Un albero è più dei suoi rami spogli; una lampada più della sua utilità; e un teschio d’avorio sulla tua scrivania più della sua palpabile levigatezza. E il quasi impercettibile tremolio della piccola foglia, sulla siepe che delimita la tua casa, più di una speranza di vento. Sono tante cose insieme, e tanto diverse, se ti lasci guardare da loro. E chiamare.

Nell’affanno che circonda ormai la vita, nella voglia di proporsi che invade l’intimità, è un atteggiamento fuori dal tempo. Eppure la creatività è sempre stata solitaria: un dipinto nasce sempre in un’aurora svestita di presenze umane, e un sonetto fuori dai baccani legati all’operosità. L’essenziale è invisibile agli occhi. Permettersi l’immobilità è lasciare che si smuovano gli interiori portali della ricchezza: puoi coltivare cinquemila rose nel tuo giardino, e non trovare quello che una sola rosa, guardata col cuore, già contiene.

Quando, per la prima volta, sono arrivato all’ultima pagina del Diario di un curato di campagna, avevo diciott’anni. E da allora, in me, il “tutto è grazia” è stato insieme luce e convincimento inscalfibile. Non che il vento non mi abbia trascinato in terra; o che non mi sia sperso in una foresta; o che non sia rimasto infracidito da un temporale improvviso; o che non abbia sbattuto la faccia contro uno stipite nel buio di certe notti. È successo. E, secondo i giorni, mi sono arrabbiato o intenerito per la mia debolezza. Ma – è un dono – sempre in me ho colto la differenza tra chi s’affida alla pioggia e chi s’impunta arrogantemente sulla forza del proprio seme.

Grazia è tutto: è lo Spirito di Dio che ti accompagna ovunque; il vento che ti investe a ripulirti e a condurti, nella gioia e nella fatica; è collirio per uno sguardo nuovo; è pazienza che ti permette l’immobilità creatrice.