Tutto ignoro di te fuor del messaggio

muto che mi sostenta sulla via. (E. Montale)

Per i cristiani potrebbe essere la grande illusione di fine millennio, l’anno del Giubileo che ci sta davanti. Non so per quanti di quelli che restano, in quello che mi pare un campo già molto sguarnito. Ma per qualcuno sicuramente; e non solo nell’area dei semplici: molti stanno consciamente nell’area di chi può. Forse la grande, e ultima illusione, prima che si precipiti sulla terra la tanto attesa conversione. Che, per sua natura, è dolorosa: divarica,

porta lontano, sveste i pomposi, scalza i superbi, umilia i vanitosi, sferza i pigri. La conversione – la aspettiamo! – fa il vuoto attorno a chi celebra il culto di sé, chiamandolo culto a Dio.

Le innumerevoli programmate adunate che c’entrano con il suono del jo-bel, il corno che dice nel nome l’unicità di Dio sempre, di fronte a qualsiasi religione?

Che c’entrano le restituzioni dei debiti ai paesi poveri, virtuali riti che rendono ancor più ricchi i ricchi che stanno nei paesi poveri schiacciando i già miseri?

Che c’entrano i passi dei pellegrini con le agenzie turistiche che programmano il tutto compreso, persino le medaglie da trattenere per il giorno del giudizio?

Che c’entra la riduzione alle pratiche di confessione e comunione per l’acquisto delle indulgenze, con la grande chiamata a rifare il volto al mondo? Essa sola genera Provvidenza accettando il riposo della terra; lascia che cresca, nei campi incolti, il grano e la zizzania, rinunciando per un po’ al giudizio che si irrigidisce nell’etica; spalanca allo Spirito le porte della giustizia che non si lascia svigorire dalla carità d’occasione.

Sarà un anno di sofferenza, se la Chiesa non correggerà istituzionalmente l’immagine di grande organizzazione internazionale di affari spirituali; se presenterà vescovi troppo afflitti dal tempo presente e poco coraggiosi nel discernimento; se i credenti si aspetteranno cose e non novità, miracoli e non il respiro ampio che viene dal bene dell’interruzione.

Ma sarà un anno di gioia se ogni battezzato riscoprirà di essere stato fatto battezzatore ed evangelizzatore; e dunque la freschezza della propria utilità davanti alle meraviglie che riconosce a Dio: nella salute e nella malattia, nel difficile di giorni stanchi o nella lietezza che vive. Un anno di gioia, se la bellezza riprenderà il suo posto nei pensieri e nelle opere.

Un anno santo: se i pellegrinaggi conducono al fondamento dell’appartenenza a Cristo; se le assemblee non sono fatte per contarsi, e promuovere carriere ecclesiastiche, ma per scaldarsi il cuore; se le indulgenze rimangono segni inappropriati della gratuità infinita di Dio; se il ricorso ai sacramenti svela la presenza del nostro Salvatore nascosto, e non pratiche senza l’abbandono che Egli chiede. Un anno santo, perché santo lo rende Dio: Lui che semina e miete, Lui che accompagna e sostiene, Lui che si mostra nel suo nome innominabile nella storia di perdizione e di redenzione manifestatasi in Gesù di Nazareth.

Un anno santo, se i cristiani – e intendo ciascuno di noi unito a chi spartisce la buona notizia che il vangelo è – finalmente più che dimostrare s’occuperanno di mostrare la loro fede al mondo.