Quanto è avvenuto nel tempio (Lc 2,25-39), alcuni giorni dopo che al Bambino nato in Betlemme era stato dato il nome di Gesù, non è prescritto da alcuna legge ebraica. È avvenuto per pura gratuità, forse sulla scorta di esempi che la Scrittura tramandava – vedi la storia di Samuele – e che i genitori più devoti in Israele sapevano imparare per sé. L’evangelista Luca lega alla figura di due vecchi il riconoscimento messianico, il compimento della lunga attesa: come se nella durata dei loro giorni si annidasse il segreto della pazienza, e il premio

 di chi sa aspettare.

Nel vecchio Simeone c’è un richiamo esplicito alla presenza dello Spirito, che lo conduce al tempio nel momento opportuno; più scontata, per una che al tempio era assidua, la presenza di Anna: ma non certo scontato quel suo parlare del Bambino, di quel Bambino. Anche perché la lunga frequentazione della Parola di Dio, e le meditazioni che la cronaca dei loro tanti giorni aveva fatto sorgere nel loro animo, li poteva aver preparati a un compimento ben più solenne di quell’apparizione minuta, leggera come il corpicino di quel neonato e la storia senza storia di quei due genitori.

 

Una storia che conta

Si potrebbe essere indotti nell’errore dal nome di Simeone, che in ebraico significa “esaudimento”: una forzatura leggendaria di Luca, per rafforzare l’assunto del brano? E dunque leggendario il racconto stesso? Proprio il fatto che di Anna si riferiscano i nomi dei genitori, assicura che l’evangelista riferisce la tradizione. Non dunque un racconto pietistico, ma una storia con connotati che chiamano a una lettura del testo reale e propositiva: quei due non sono vecchi per caso, e le annotazioni che li riguardano hanno un senso evangelizzante di non poco conto. Alla sera della loro vita, alla loro vecchiaia è dato il riconoscimento più alto e insieme più misterioso che possa essere concesso a qualcuno. Come ogni storia, è chiaramente irripetibile: e dunque a nessuno più può essere concesso quel qualcosa a cui loro sono stati chiamati. Ma c’è un incontro con il Signore, nella vita, che tutti hanno per vocazione. E a cui ci si rende pronti con le stesse disposizioni di Simeone ed Anna. Disposizioni fatte di intelligenza, di cuore e di pazienza: la pazienza che è frutto della carità, ed è dono dello Spirito. Lo stesso Spirito che tramuta la promessa ricevuta (tu non vedrai la morte prima che abbia visto il Messia) nella gioia del compimento. “Felice quell’uomo che prese il bambino Gesù nelle sue braccia, che l’alzò nelle sue due mani, con le sue vecchie mani irruvidite, con le sue vecchie mani rugose, con le sue vecchie mani secche e solcate di vecchio. Con le sue due mani rattrappite. Con le sue due mani come di pergamena…” (Ch. Peguy). Tutti i vecchi che s’affacciano, senza entrare, nel nuovo Testamento – Elisabetta e Zaccaria, Anna e Simeone – sono chiamati a lodare Dio attraverso l’infanzia, attraverso la novità, in una diversità così sottolineata rispetto ai propri modi e alle proprie esperienze. Come se il segreto di una lunga vita sia riconoscere il bene che non appartiene alla propria intelligenza sedimentata delle cose; ma nello stesso tempo rappacificandosi nella certezza che ad ogni virgulto corrisponde la vigoria delle proprie radici che hanno pazientemente sostenuto, nel tempo assegnato, le tempeste che hanno investito tronchi e rami.

 

Il segreto di Simeone

Il suo segreto è non demordere nell’attesa. Gli era stato detto che aveva ancora qualcosa da vedere: ed era qualcosa di molto importante per la sua vita di credente. Non abbiamo molte informazioni sulla sua personalità: certamente era tra quelli che aspettavano quietamente la consolazione di Israele, senza la frenesia politico-rivoluzionaria degli Zeloti. Possiamo facilmente immaginare che non avesse nulla della menzogna giovanilista che corrompe chi ha paura del tempo che trascorre: imbevuti di presente, ripiegati su un passato che non potrebbero comunque mai far rientrare, costoro mal si preparano alla novità del futuro. Nostalgici del loro passato, e delle glorie svanite, loro non sentono il futuro come un bene; Simeone ha invece la quiete di chi ha ricevuto una promessa e ci crede: il futuro è un bene. Il futuro che è oggi, questo giorno che lo conduce al tempio a incontrare l’avvenimento, il futuro che è stato ogni giorno vissuto alla luce della promessa. Si può facilmente immaginarlo come i tanti vecchi che anche noi abbiamo conosciuto: trovavano delle certezze che si sarebbero compiute, e vivevano nella pacata sicurezza che le avrebbero vissute. Certezze di ben altro tenore rispetto alle cose della terra: un manifestarsi della bontà di Dio colto da segni di fede e proiettato in segni di speranza. Vecchi che hanno superato il loro tempo, perché, come Simeone, vivono di attesa, e dunque di speranza, vivono con la memoria del futuro: poiché non intristiscono per la perdita della memoria futile, non perdono la memoria necessaria del passato. Si può pensare che come per questi nostri nonni beati, anche per Simeone l’attesa di cose vere determina la qualità della vita. E Dio ci benedice nella vita di questi vecchi.

 

La memoria dell’amore

Non sempre è così. Non sempre i vecchi si lasciano onorare. Non sempre accettano che li si ami per quel che non possono, più che per quello che ancora riescono a fare. Basta alla nostra amorevolezza che distendano le mani, e che non ricordino d’averle rattrappite quando prendono un bambino in braccio. Talvolta questo non basta a loro: e si rincantucciano desolati e aspri, e rimproverano agli altri la loro tristezza, ai familiari di non ricordarsi di loro – solo perché non fanno come ci si aspetta -, alle nuove generazioni di essere svampite – solo perché hanno espressioni diverse rispetto alle loro. È una memoria amara quella che coltivano: s’immaginano per quello che non saranno più, e trovano in ogni azione dei più giovani, ma talvolta dei loro stessi coetanei, una congiura ai loro danni. Non accettano il logorio del corpo, e dunque non imparano a conviverci, nonostante possano apprendere continuamente. Come far sapere a vecchi impauriti che una certa perdita di memoria non ha nulla a che fare con la loro salute mentale? Importante è che ricordino ciò per cui si vive e si muore: che è indispensabile amare, e lasciarsi amare: e l’amore non è passato mai, anche nel pieno dell’attività di una persona, solo attraverso prestazioni o disponendo della roba. L’amore, anche nel vigore dell’età, con i bambini ancora piccoli, passava attraverso la presenza: di cui un vecchio è ricco più di ogni altra stagione della sua vita.

Vi sono azioni che più di altre servono a conservare la freschezza della memoria del futuro, la sola che conti, soprattutto per un cristiano che si sa diretto alla vita eterna.

Esserci: la persona anziana ha bisogno di vivere la propria presenza agli altri. Non esserci quasi mai è un peccato: che oltretutto non ti fa scontare gli altri peccati da cui ti libera la pietà manifestata per i genitori anziani, come assicura il libro di Siracide.

Ascoltare: lasciar frugare nei loro ricordi, appassionarsi a quanto hanno vissuto, è più di un dono. Diventa una scuola di vita, una scoperta di radici impensate.

Ammirare: sottolineare il bene che sono stati e che sono. Sentirselo dire a loro fa bene, ai più giovani risparmia poderosi e tardivi rimorsi.

Farli dunque sentire, come fu per Simeone e per Anna, alla sera della loro vita, ma non necessariamente al loro tramonto. Perché, come la storia di questi anni ci racconta, esiliare la vita prima che finisca, è esiliare anche la nascita: lo dice la sociologia, e la psicologia. Ma lo dice ancora di più la saggezza esiliata dei vecchi, quando, chi vecchio non è, ha rinunciato all’essenzialità dei loro occhi che possono trasmettere la salvezza ricevuta.